XXII. DIFESA DELLA POESIA.

XXII. DIFESA
DELLA POESIA.

Se noi vorremo por giú
gli animi e con ragion riguardare, io mi credo che assai leggiermente
potremo vedere gli antichi poeti avere imitate, tanto quanto a lo
‘ngegno umano è possibile, le vestigie dello Spirito santo; il
quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la bocca di
molti, i suoi altissimi secreti revelò a’ futuri, facendo loro sotto
velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza alcuno velo,
intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noi ragguarderemo ben
le loro opere, accioché lo imitatore non paresse diverso dallo
imitato, sotto coperta d’alcune fizioni, quello che stato era, o che
fosse al loro tempo presente, o che disideravano o che presumevano
che nel futuro dovesse avvenire, discrissono; per che, come che ad
uno fine l’una scrittura e l’altra non riguardasse, ma solo al modo
del trattare, al che piú guarda al presente l’animo mio, ad amendune
si potrebbe dare una medesima laude, usando di Gregorio le parole. Il
quale della sacra Scrittura dice ciò che ancora della poetica dir si
puote, cioè che essa in un medesimo sermone, narrando, apre il testo
e il misterio a quel sottoposto; e cosí ad un’ora coll’uno gli savi
esercita e con l’altro gli semplici riconforta, e ha in publico donde
li pargoletti nutrichi, e in occulto serva quello onde essa le menti
de’ sublimi intenditori con ammirazione tenga sospese. Percioché
pare essere un fiume, accioché io cosí dica, piano e profondo, nel
quale il piccioletto agnello con gli piè vada, e il grande elefante
ampissimamente nuoti. Ma da procedere è al verificare delle cose
proposte.

Intende la divina
Scrittura, la qual noi «teologia» appelliamo, quando con figura
d’alcuna istoria, quando col senso d’alcuna visione, quando con lo
‘ntendimento d’alcun lamento, e in altre maniere assai, mostrarci
l’alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vita di
quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione
vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo atto, per lo
quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale
Egli e morendo e resurgendo ci aperse, lungamente stata serrata a noi
per la colpa del primiero uomo. Cosí li poeti nelle loro opere, le
quali noi chiamiamo «poesia», quando con fizioni di vari iddii,
quando con trasmutazioni d’uomini in varie forme, e quando con
leggiadre persuasioni, ne mostrano le cagioni delle cose, gli effetti
delle virtú e de’ vizi, e che fuggire dobbiamo e che seguire,
accioché pervenire possiamo, virtuosamente operando, a quel fine, il
quale essi, che il vero Iddio debitamente non conosceano, somma
salute credevano. Volle lo Spirito santo mostrare nel rubo
verdissimo, nel quale Moisé vide, quasí come una fiamma ardente,
Iddio, la verginitá di Colei che piú che altra creatura fu pura, e
che dovea essere abitazione e ricetto del Signore della natura, non
doversi, per la concezione né per lo parto del Verbo del Padre,
contaminare. Volle per la visione veduta da Nabucodonosor, nella
statua di piú metalli abbattuta da una pietra convertita in monte,
mostrare tutte le preterite etá dalla dottrina di Cristo, il quale
fu ed è viva pietra, dovere summergersi; e la cristiana religione,
nata di questa pietra, divenire una cosa immobile e perpetua, sí
come gli monti veggiamo. Volle nelle lamentazioni di Ieremia,
l’eccidio futuro di Ierusalem dichiarare.

Similemente li nostri
poeti, fingendo Saturno avere molti figliuoli, e quegli, fuori che
quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per tale fizione
farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale ogni cosa si
produce, e come ella in esso è prodotta, cosí è esso di tutte
corrompitore, e tutte le riduce a niente. I quattro suoi figliuoli
non divorati da lui, è l’uno Giove, cioè l’elemento del fuoco; il
secondo è Giunone, sposa e sorella di Giove, cioè l’aere, mediante
la quale il fuoco quaggiú opera li suoi effetti: il terzo è
Nettuno, iddio del mare, cioè l’elemento dell’acqua; e il quarto e
ultimo è Plutone, iddio del ninferno, cioè la terra, piú bassa che
alcuno altro elemento. Similemente fingono li nostri poeti Ercule
d’uomo essere in dio trasformato, e Licaone in lupo: moralmente
volendo mostrarci che, virtuosamente operando, come fece Ercule,
l’uomo diventa iddio per participazione in cielo; e, viziosamente
operando, come Licaone fece, quantunque egli paia uomo, nel vero si
può dire quella bestia, la quale da ciascuno si conosce per effetto
piú simile al suo difetto: sí come Licaone per rapacitá e per
avarizia, le quali a lupo sono molt 
conformi, si finge in
lupo esser mutato. Similemente fingono li nostri poeti la bellezza
de’ campi elisi, per la quale intendo la dolcezza del paradiso; e la
oscuritá di Dite, per la quale prendo l’amaritudine dello ‘nferno;
accioché noi, tratti dal piacere dell’uno, e dalla noia dell’altro
spaventati, seguitiamo le virtú che in Eliso ci meneranno, e i vizi
fuggiamo che in Dite ci farieno trarupare. Io lascio il tritare con
piú particulari esposizioni queste cose, percioché, se quanto si
converrebbe e potrebbe le volessi chiarire, comeché elle piú
piacevoli ne divenissero e piú facessero forte il mio argomento,
dubito non mi tirassero piú oltre molto che la principale materia
non richiede e che io non voglio andare. E certo, se piú non se ne
dicesse che quello ch’è detto, assai si dovrebbe comprendere la
teologia e la poesia convenirsi quanto nella forma dell’operare, ma
nel suggetto dico quelle non solamente molto essere diverse, ma
ancora avverse in alcuna parte: percioché il suggetto della sacra
teologia è la divina veritá, quello dell’antica poesí sono
gl’iddii de’ gentili e gli uomini. Avverse sono, in quanto la
teologia niuna cosa presuppone se non vera; la poesia ne suppone
alcune per vere, le quali sono falsissime ed erronee e contra la
cristiana religione. Ma, percioché alcuni disensati si levano contra
li poeti, dicendo loro sconce favole e male a niuna veritá
consonanti avere composte, e che in altra forma che con favole
dovevano la loro sofficienzia mostrare e a’ mondani dare la loro
dottrina; voglio ancora alquanto piú oltre procedere col presente
ragionamento.

Guardino adunque questi
cotali le visioni di Daniello, quelle d’Isaia, quelle d’Ezechiel e
degli altri del Vecchio Testamento con divina penna discritte, e da
Colui mostrate al quale non fu principio né sará fine. Guardinsi
ancora nel Nuovo le visioni dell’evangelista, piene agl’intendenti di
mirabile veritá; e, se niuna poetica favola si truova tanto di lungi
dal vero o dal verisimile, quanto nella corteccia appaiono queste in
molte parti, concedasi che solamente i poeti abbiano dette favole da
non potere dare diletto né frutto. Senza dire alcuna cosa alla
riprensione che fanno de’ poeti, in quanto la loro dottrina in favole
ovvero sotto favole hanno mostrata, mi potrei passare; conoscendo
che, mentre che essi mattamente gli poeti riprendono di ciò,
incautamente caggiono in biasimare quello Spirito, il quale nulla
altra cosa è che via, vita e veritá: ma pure alquanto intendo di
soddisfargli.

Manifesta cosa è che
ogni cosa, che con fatica s’acquista, avere alquanto piú di dolcezza
che quella che vien senz’affanno. La veritá piana, percioch’è tosto
compresa con piccole forze, diletta e passa nella memoria. Adunque,
accioché con fatica acquistata fosse piú grata, e perciò meglio si
conservasse, li poeti sotto cose molto ad essa contrarie apparenti,
la nascosero; e perciò favole fecero, piú che altra coperta, perché
la bellezza di quelle attraesse coloro, li quali né le dimostrazion
filosofiche, né le persuasioni avevano potuto a tirare. Che
dunque direm de’ poeti? terremo ch’essi sieno stati uomini insensati,
come li presenti dissensati, parlando e non sappiendo che, gli
giudicano? Certo, no; anzi furono nelle loro operazioni di
profondissimo sentimento, quanto è nel frutto nascoso, e
d’eccellentissima e d’ornata eloquenzia nelle cortecce e nelle frondi
apparenti. Ma torniamo dove lasciammo.

Dico che la teologia e
la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il
suggetto; anzi dico piú, che la teologia niun’altra cosa è che una
poesia di Dio. E ch’altra cosa è che poetica fizione nella Scrittura
dire Cristo essere ora leone e ora agnello e ora vermine, e quando
drago e quando pietra, e in altre maniere molte, le quali voler tutte
raccontare sarebbe lunghissimo? che altro suonano le parole del
Salvatore nello evangelio, se non uno sermone da’ sensi alieno? il
quale parlare noi con piú usato vocabolo chiamiamo «allegoria».
Dunque bene appare, non solamente la poesí essere teologia, ma
ancora la teologia essere poesia. E certo, se le mie parole meritano
poca fede in sí gran cosa, io non me ne turberò; ma credasi ad
Aristotile, degnissimo testimonio a ogni gran cosa, il quale afferma
aver trovato li poeti essere stati li primi teologizzanti. E
questo basti quanto a questa parte; e torniamo a mostrare perché a’
poeti solamente, tra gli scienziati, l’onore della corona dell’alloro
conceduto fosse.