XX.
FATTEZZE
E COSTUMI DI DANTE
Fu adunque questo
nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura etá fu
pervenuto, andò alquanto curvetto, ed era il suo andare grave e
mansueto, d’onestissimi panni sempre vestito in quell’abito che era
alla sua maturitá convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso
aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e
dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era
bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella
faccia malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno in
Verona, essendo giá divulgata pertutto la fama delle sue opere, e
massimamente quella parte della sua Comedia, la quale egli
intitola Inferno, ed esso conosciuto da molti e uomini e
donne, che, passando egli davanti a una porta dove piú donne
sedevano, una di quelle pianamente, non però tanto che bene da lui e
da chi con lui era non fosse udita, disse all’altre donne: – Vedete
colui che va nell’inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca
novelle di coloro che lá giú sono? – Alla quale una dell’altre
rispose semplicemente: – In veritá tu déi dir vero: non vedi tu
com’egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo
fummo che è lá giú? – Le quali parole udendo egli dir dietro a sé,
e conoscendo che da pura credenza delle donne venivano, piacendogli,
e quasi contento ch’esse in cotale opinione fossero, sorridendo
alquanto, passò avanti.
Ne’ costumi domestici e
publici mirabilmente fu ordinato e composto, e in tutti piú che
alcun altro cortese e civile.
Nel cibo e nel poto fu
modestissimo, sí in prenderlo all’ore ordinate e sí in non
trapassare il segno della necessitá, quel prendendo; né alcuna
curiositá ebbe mai piú in uno che in uno altro: li dilicati lodava,
e il piú si pasceva di grossi, oltremodo biasimando coloro, li quali
gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e quelle
fare con somma diligenzia apparare; affermando questi cotali non
mangiare per vivere, ma piú tosto vivere per mangiare.
Niuno altro fu piú
vigilante di lui e negli studi e in qualunque altra sollecitudine il
pugnesse; intanto che piú volte e la sua famiglia e la donna se ne
dolfono, prima che, a’ suoi costumi adusate, ciò mettessero in non
calere.
Rade volte, se non
domandato, parlava, e quelle pesatamente e con voce conveniente alla
materia di che diceva; non pertanto, lá dove si richiedeva,
eloquentissimo fu e facundo, e con ottima e pronta prolazione.
Sommamente si dilettò
in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a ciascuno che a que’
tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico e ebbe sua usanza; e
assai cose, da questo diletto tirato compose, le quali di piacevole e
maestrevole nota a questi cotali facea rivestire.
Quanto ferventemente
esso fosse ad amor sottoposto, assai chiaro è giá mostrato. Questo
amore è ferma credenza di tutti che fosse movitore del suo ingegno a
dovere, prima imitando, divenir dicitore in volgare; poi, per
vaghezza di piú solennemente mostrare le sue passioni, e di gloria,
sollecitamente esercitandosi in quella, non solamente passò ciascuno
suo contemporaneo, ma in tanto la dilucidò e fece bella, che molti
allora e poi di dietro a sé n’ha fatti e fará vaghi d’essere
esperti.
Dilettossi similemente
d’essere solitario e rimoto dalle genti, accioché le sue
contemplazioni non gli fossero interrotte; e se pure alcuna che molto
piaciuta gli fosse ne gli veniva, essendo esso tra gente, quantunque
d’alcuna cosa fosse stato addomandato, giammai infino a tanto che
egli o fermata o dannata la sua imaginazione avesse, non avrebbe
risposto al dimandante: il che molte volte, essendo egli alla mensa,
ed essendo in cammino con compagni, e in altre parti, domandato, gli
avvenne.
Ne’ suoi studi fu
assiduissimo, quanto è quel tempo che ad essi si disponea, in tanto
che niuna novitá che s’udisse, da quegli il poteva rimuovere. E,
secondo che alcuni degni di fede raccontano di questo darsi tutto a
cosa che gli piacesse, egli, essendo una volta tra l’altre in Siena,
e avvenutosi per accidente alla stazzone d’uno speziale, e quivi
statogli recato uno libretto davanti promessogli, e tra’ valenti
uomini molto famoso, né da lui stato giammai veduto, non avendo per
avventura spazio di portarlo in altra parte, sopra la panca che
davanti allo speziale era, si pose col petto, e, messosi il libretto
davanti, quello cupidissimamente cominciò a vedere. E comeché poco
appresso in quella contrada stessa, e dinanzi da lui, per alcuna
general festa de’ sanesi si cominciasse da gentili giovani e facesse
una grande armeggiata, e con quella grandissimi romori da’
circustanti (sí come
in cotal casi con istrumenti vari e con voci applaudenti suol farsi),
e altre cose assai v’avvenissero da dover tirare altrui a vedersi, sí
come balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani; mai non fu
alcuno che muovere quindi il vedesse, né alcuna volta levare gli
occhi dal libro: anzi, postovisi quasi a ora di nona, prima fu
passato vespro, e tutto l’ebbe veduto e quasi sommariamente compreso,
che egli da ciò si levasse; affermando poi ad alcuni, che il
domandavano come s’era potuto tenere di riguardare a cosí bella
festa come davanti a lui s’era fatta, sé niente averne sentito; per
che alla prima maraviglia non indebitamente la seconda s’aggiunse a’
dimandanti.
Fu ancora questo poeta
di maravigliosa capacitá e di memoria fermissima e di perspicace
intelletto, intanto che, essendo egli a Parigi, e quivi sostenendo in
una disputazione de quolibet che nelle scuole della teologia
si facea, quattordici quistioni da diversi valenti uomini e di
diverse materie, con gli loro argomenti pro e contra fatti dagli
opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e ordinatamente, come
poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo quello medesimo
ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli argomenti contrari.
La qual cosa quasi miracolo da tutti i circustanti fu reputata.
D’altissimo ingegno e
di sottile invenzione fu similmente, sí come le sue opere troppo piú
manifestano agl’intendenti che non potrebbono fare le mie lettere.
Vaghissimo fu e d’onore
e di pompa per avventura piú che alla sua inclita virtú non si
sarebbe richiesto. Ma che? qual vita è tanto umile, che dalla
dolcezza della gloria non sia tócca? E per questa vaghezza credo che
oltre a ogni altro studio amasse la poesia, veggendo, comeché la
filosofia ogni altra trapassi di nobiltá, la eccellenzia di quella
con pochi potersi comunicare, e esserne per lo mondo molti famosi: e
la poesia piú essere apparente e dilettevole a ciascuno, e li poeti
rarissimi. E perciò, sperando per la poesí allo inusitato e pomposo
onore della coronazione dell’alloro poter pervenire, tutto a lei si
diede e istudiando e componendo. E certo il suo disiderio veniva
intero, se tanto gli fosse stata la fortuna graziosa, che egli fosse
giammai potuto tornare in Firenze, nella quale sola sopra le fonti di
San Giovanni s’era disposto di coronare; accioché quivi, dove per lo
battesimo aveva preso il primo nome, quivi medesimo per la
coronazione prendesse il secondo. Ma cosí andò che, quantunque la
sua sufficienzia fosse molta, e per quella in ogni parte, ove
piaciuto gli fosse, avesse potuto l’onore della laurea pigliare (la
quale non iscienzia accresce, ma è dell’acquistata certissimo
testimonio e ornamento); pur, quella tornata, che mai non doveva
essere, aspettando, altrove pigliar non la volle; e cosí, senza il
molto disiderato onore avere, si morí. Ma, percioché spessa
quistione si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che il
poeta, e donde sia questo nome venuto e perché di lauro sieno
coronati i poeti, e da pochi pare essere stato mostrato; mi piace qui
di fare alcuna transgressione, nella quale io questo alquanto
dichiari, tornando, come piú tosto potrò, al proposito.