CANTO DECIMO

CANTO
DECIMO

[Lez.
XXXIX]

«Ora sen va per un
segreto calle», ecc. Seguendo il cominciato modo di procedere, dico
che il presente canto si continua al precedente in questo modo, che,
avendo l’autore nella fine del canto superiore discritta la qualitá
del luogo piena di sepolcri, e chi dentro a quegli è tormentato; nel
principio di questo mostra come dietro a Virgilio per lo detto luogo
si mettesse ad andare, e quello che nell’andar gli avvenisse. E fa
l’autore in questo canto quattro cose: primieramente ne dice il suo
procedere per lo luogo disegnato; appresso muove a Virgilio alcun
dubbio, il quale Virgilio gli solve; oltre a questo ne mostra come
con alcuna dell’anime dannate in quel luogo lungamente parlasse;
ultimamente dice come, tornato a Virgilio, dove con lui seguitandolo
pervenisse. La seconda comincia quivi: «O virtú somma»; la terza
quivi: – «O tosco»; la quarta quivi: «Indi s’ascose».

Dice adunque l’autore,
continuandosi al fine del precedente canto, che «Ora», cioè in
quel tempo che esso era in questo viaggio, «sen va per un segreto
calle». Chiamalo «segreto», a dimostrare che pochi per quello
andassero, avendo per avventura altra via coloro li quali dannati lá
giú ruinavano; e, per dimostrare quella via non essere usitata da
gente, la chiama «calle», il quale è propriamente sentieri li
quali sono per le selve e per li boschi, triti dalle pedate delle
bestie, cioè delle greggi e degli armenti, e per ciò son chiamati
«calle», perché dal callo de’ piedi degli animali son premute e
fatte. «Tra ‘l muro della terra», di Dite «e li martíri», cioè
tra’ sepolcri, ne’ quali martirio e pena sostenevano gli eretici, «Lo
mio maestro, ed io dopo le spalle», cioè appresso a lui,
seguendolo.

-«O virtú somma».
Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l’autore
muove a Virgilio alcun dubbio, e Virgilio gliele solve. Dice adunque:
– «O virtú somma», nelle quali parole l’autore intende qui per
Virgilio la ragion naturale, la quale tra le potenzie dell’anima è
somma virtú; «che per gli empi giri», cioè per i crudeli cerchi
dello ‘nferno, «Mi volvi», – menandomi, «cominciai, – com’a te
piace», percioché mai dal suo volere partito non s’era; «Parlami»,
cioè rispondimi, «e satisfammi a’ miei disiri», cioè a quello che
io disidero di sapere. Il che di presente soggiugne, dicendo: «La
gente, che per li sepolcri giace», cioè gli eretici, «Potrebbesi
veder?». E, volendo dire che si dovrebbon poter vedere, séguita:
«Giá son levati Tutti i coperchi», delle sepolture; e cosí mostra
che tutti erano aperti; e per questo segue: «e nessun», che ne’
sepolcri sia, «guardia face», – per non esser veduto. E in queste
parole par piú tosto domandar del modo da potergli vedere, che
dubitare se vedere si possono o no.

«Ed egli a me». Qui
comincia la risposta di Virgilio, la qual non pare ben convenirsi
alla domanda dell’autore, in quanto colui domanda se quegli che sono
dentro a’ sepolcri veder si possono, e Virgilio gli risponde che essi
saranno serrati tutti dopo il di del giudicio. Ma Virgilio gli dice
questo, accioché esso comprenda e il presente tormento degli eretici
e il futuro, il quale sará molto maggiore, quando serrati saranno i
sepolcri, che ora, che aperti sono, percioché, quanto il fuoco è
piú ristretto, piú cuoce. E nondimeno, mostratogli questo, e chi
sieno gli eretici che in quella parte giacciono, gli risponde alla
domanda. Dice adunque: – «Tutti saran serrati», questi sepolcri, li
quali tu vedi ora aperti, «Quando di Iosafá», cioè della valle di
Iosafá, nella qual si legge che, al dí del giudicio, tutti, quivi,
giusti e peccatori, rivestiti de’ corpi nostri, ci raguneremo ad udir
l’ultima sentenzia, e di quindi i giusti insieme con Gesú Cristo se
ne saliranno in cielo, e i dannati discenderanno in inferno; e
chiamasi quella valle di Iosafá, poco fuori di Gerusalem, da un re 
chiamato Iosafá, che
fu sesto re de’ giudei, il quale in quella valle fu seppellito; «qui
torneranno, co’ corpi che lassú hanno lasciati», quando morirono,
li quali, risurgendo, avranno ripresi. «Suo cimitero», cioè sua
sepoltura: ed è questo nome d’alcun luogo dove molte sepolture sono,
sí come generalmente veggiamo nelle gran chiese, nelle quali sono
alcuni luoghi da parte riservati per seppellire i corpi de’ morti; e
queste cotali parti si chiamano cimitero, quasi «
communis
terra
»,
percioché quella terra pare esser comune a ciascuno il quale in essa
elegge di seppellirsi; «da questa parte hanno Con Epicuro tutti i
suoi seguaci, Che l’anima col corpo morta fanno».

Epicuro fu solennissimo
filosofo, e molto morale e venerabile uomo a’ tempi di Filippo, re di
Macedonia e padre d’Alessandro. È il vero che egli ebbe alcune
perverse e detestabili opinioni, percioché egli negò del tutto
l’eternitá dell’anima e tenne che quella insieme col corpo morisse,
come fanno quelle degli animali bruti; e cosí ancora piú altri
filosofi variamente e perversamente dell’anima stimarono. Tenne
ancora che somma beatitudine fosse nelle dilettazioni carnali, le
quali sodisfacessero all’appetito sensibile: sí come agli occhi era
sommo bene poter vedere quello che essi disideravano e che lor
piaceva di vedere, cosí agli orecchi d’udire, e alle mani di
toccare, e al gusto di mangiare. Ed estiman molti che questo filosofo
fosse ghiottissimo uomo; la quale estimazione non è vera, percioché
nessun altro fu piú sobrio di lui; ma accioché egli sentisse quello
diletto, nel quale poneva che era il sommo bene, sosteneva lungamente
la fame, o vogliam piú tosto dire il disiderio del mangiare, il
qual, molto portato, adoperava che, non che il pane, ma le radici
dell’erbe selvatiche meravigliosamente piacevano e con disiderio si
mangiavano; e cosí, sostenuta lungamente la sete, non che i deboli
vini, ma l’acqua, e ancora la non pura, piaceva e appetitosamente si
beveva; e similmente di ciascuna altra cosa avveniva. E perciò non
fu ghiotto, come molti credono; né fu perciò la sua sobrietá
laudevole, in quanto a laudevol fine non l’usava. [Adunque per queste
opinioni, separate del tutto dalla veritá, sí come eretico mostra
l’autore lui in questo luogo esser dannato, e con lui tutti coloro li
quali le sue opinioni seguitarono].

Poi séguita l’autore:
«Però», cioè per quello che detto t’ho, che da questa parte son
gli epicúri, «alla dimanda che mi faci», cioè se veder si possono
quelle anime che nelle sepolture sono, «Quinc’entro», cioè tra
queste sepolture, «satisfatto sarai tosto»; quasi voglia Virgilio
dire: percioché tra questi epicúri sono de’ tuoi cittadini, li
quali, sentendoti passare, ti si faranno vedere, di che fia
satisfatto al disiderio tuo; «Ed al disio ancor, che tu mi taci». –
Il qual disio, taciuto dall’autore, vogliono alcuni che fosse di
sapere perché l’anime dannate mostrano di sapere le cose future, e
le presenti non par che sappiano; la qual cosa gli mostra appresso
messer Farinata. Ma io non so perché questo disiderio gli si dovesse
esser venuto, conciosiacosaché niun altro vaticinio per ancora
avesse udito se non quello che detto gli fu da Ciacco; salvo se dir
non volessimo essergli nato da questo, che Ciacco gli disse le cose
future, e Filippo Argenti nol conobbe, essendo egli presente: ma
questa non pare assai conveniente cagione da doverlo aver fatto
dubitare, conciosiacosaché, come Ciacco il vide, il conoscesse, come
davanti appare; e però, che che altri si dica, io non discerno assai
bene qual si potesse essere quel disio, il quale Virgilio dice qui
che l’autor gli tace.

«Ed io: – Buon duca,
non tegno nascosto A te mio dir, se non per dicer poco», per non
noiarti col troppo; «E tu m’hai non pur mò a ciò disposto», –
ammonendomi di non dir troppo.

«O
tosco, che per la cittá». Qui comincia la terza parte del presente
canto, nella quale con alcune dell’anime dannate in questo
lungamente parla l’autore. Nella qual terza parte l’autore fa sette
cose: primieramente discrive le parole uscite d’una di quelle arche;
appresso come Virgilio gli nominasse e mostrasse messer Farinata e a
lui il sospignesse; susseguentemente come con lui parlasse; oltre a
questo, come un’altra anima il domandasse d’alcuna cosa ed egli gli
rispondesse; poi mostra come messer Farinata, continuando le sue
parole, gli predicesse alcuna cosa; dopo questo, scrive come movesse
un dubbio a messer Farinata ed egli gliele solvesse; ultimamente
come imponesse a messer Farinata quello che all’anima caduta
dicesse. La seconda comincia quivi: «Ed el mi disse: – Volgiti»;
la terza quivi: «Com’io al piè»; la quarta quivi: «Allor surse
alla vista»; la 
quinta quivi: «Ma
quell’altro»; la sesta quivi: – «Deh! se riposi»; la settima
quivi: «Allor come di mia».

Dice adunque nella
prima cosí: – «O tosco». Dinomina qui colui, che queste parole
dice, l’autore dalla provincia, forse ancora non avendo tanto
compreso di qual cittá lo stimasse, e chiamal «tosco», cioè
«toscano». [Intorno al qual nome se noi vorremo alquanto
riguardare, forse conosceremo avere a render grazie a Dio che
toscani, piú tosto che di molte altre nazioni, esser ci fece, se la
nobiltá delle province, come alcuni voglion credere, puote alcuna
particella di gloria aggiugnere a quegli che d’esse sono provinciali.
È adunque Toscana una non delle meno nobili province d’Italia, dal
levante terminata dal Tevero fiume, il qual nasce in Appennino, e
mette in mare poco sotto la cittá di Roma; e di verso tramontana e
di ponente è chiusa tutta dal monte Appennino, quantunque vicino al
mare le sieno da diversi posti diversi termini, percioché alcuni
dicono quella essere dalla foce della Macra divisa da Liguria, altri
la ristringono e dicono i suoi termini essere al Motrone sotto a
Pietrasanta, e sono ancor di quegli che vogliono lei finita essere da
un piccolo fiumicello chiamato Ausere, propinquissimo a Pisa (e i
pisani medesimi, forse piú nobile cosa estimando esser galli che
toscani, hanno alcuna volta detto quella di ver’ponente essere chiusa
dal fiume nostro, cioè da Arno, il qual mette in mare poco sotto
Pisa); di verso mezzodí è tutta chiusa dal mare Mediterraneo, il
quale i greci chiamano Tirreno. E questa terminazione è secondo il
presente tempo; percioché anticamente essa si stendeva, passato il
monte Appennino, infino al mare Adriano: ma di quindi i galli, li
quali seguir Brenno, cacciarono i toscani, e mutaron nome alla
provincia, e chiamaronla Gallia.]

[E fu Toscana, secondo
che alcuni antichi scrivono, primieramente abitata da certi popoli li
quali si chiamarono lidi, li quali, partendosi d’Asia minore, di
dietro a due fratelli, nobili giovani, chiamati l’uno Lido e l’altro
Tireno, in quella vennero, e fu la provincia chiamata Lidia da Lido
ed il mare fu chiamato il mar Tireno dall’altro fratello. E non
solamente quello il quale bagna i termini di Toscana, ma,
cominciandosi dal Fare di Messina infino alla foce del Varo, tra
Nizza e Marsilia, tutto fu chiamato Tireno; e cosí ancora il
chiamano i greci. Poi cambiò la provincia il nome, dall’esercizio
generale di tutti quegli d’essa intorno all’atto del sacrificare alli
loro iddii, nel quale essi furono piú che altri popoli ammaestrati
(e perciò usaron lungo tempo i romani di mandare de’ lor piú nobili
giovani a dimorar con loro, per apprender da loro il rito del
sacrificare); e peroché essi quasi tutti li lor sacrifici facevano
con incenso, e lo ‘ncenso in latino si chiama «
thus»,
furon chiamati «
tusci»,
li quali per volgare son chiamati «toscani»: e da questo dirivò il
nome, il qual noi ancora serviamo. Ed è, come assai chiaro si vede,
Toscana piena di notabili cittá, in sé, tra l’altre, contenendo
tanto della cittá di Roma, quanto di qua dal Tevere se ne vede, e,
appresso, questa nostra cittá, cioè Fiorenza, la qual tanto sopra
ogni altra è eminente, quanto è il capo sopra gli altri membri del
corpo; e però meritamente poté l’autore, il quale di questa cittá
fu natio, esser da messer Farinata chiamato «tosco».]

Séguita poi: «che per
la cittá del foco», cioè per la cittá di Dite, ardente tutta
d’eterno fuoco, «Vivo ten vai, cosí parlando onesto», cioè
reverentemente, come poco avante faceva parlando a Virgilio;
«Piacciati di ristare in questo loco»; quasi voglia dire: tanto che
io ti possa vedere e possati parlare. «La tua loquela ti fa
manifesto» esser «Di quella nobil patria», cioè di Fiorenza,
«natio, Alla qual forse fui troppo molesto». – Guarda, colui che
parla, di dover per queste parole potere piú tosto ritenere
l’autore, come davanti il priega; conciosiacosaché volentieri ne’
luoghi strani sogliano l’un cittadino l’altro voler vedere, e ancora
volere udire, quando da alcuna singular cosa son soprapresi, come qui
faceva quella anima, dicendo forse essere stato alla cittá
dell’autore troppo molesto. E dice avvedutamente qui questo spirito
«forse», percioché, se assertive avesse detto sé essere stato
troppo molesto alla sua cittá, si sarebbe fieramente biasimato, in
quanto alcuno non dee contro alla sua cittá adoperare se non tutto
bene, conciosiacosaché noi nasciamo al padre e alla patria; e il
biasimare se medesimo è atto di stolto; e perciò disse lo spirito
«forse», suspensivamente parlando, volendo questo «forse»
s’intenda per l’esser paruto a molti lui esser molesto, al giudicio
de’ quali per avventura non era da credere: sí come al giudicio de’
guelfi, sí come di nemici, non parea da dover 
credere contro al
ghibellino. Nondimeno come molesto fosse alla patria sua e nostra
costui, nelle cose seguenti apparirá.

«Subitamente questo
suono», cioè questa voce; e pone questo vocabolo «suono»
improprie,
percioché propriamente «suono» è quello che procede dalle cose
insensate, come è quello della campana, del tuono e simiglianti:
«uscío D’una dell’arche», le quali eran quivi: «però m’accostai,
Temendo, un poco piú al duca mio».

«Ed el mi disse». Qui
comincia la seconda particella della parte terza principale, nella
quale Virgilio gli mostra messer Farinata, e sospignelo ad esso. Dice
adunque: «Ed el mi disse: – Volgiti», inverso l’arca onde uscí il
suono, «che fai?», cioè come fuggi tu? «Vedi lá Farinata», cioè
l’anima di messer Farinata degli Uberti, «che s’è dritto», nella
sepoltura nella qual giacea; «dalla cintola in su», cioè da quella
parte della persona sopra la quale l’uom si cigne, [La quale non era
tanta parte quanta 
quella
che oggi si vedrebbe; percioché gli uomini soleano andar cinti
sopra i lombi, oggi vanno cinti sopra le natiche; e soleva essere la
cintura istrumento opportuno a tenere ristretta la larghezza de’
vestimenti, ove ne’ giovani d’oggi è ornamento superfluo d’assai
vil parte del corpo loro, percioché, in luogo di cinture, essi
fanno ricchissime corone, e, come per addietro delle corone si solea
ornar la fronte, cosí delle presenti si coronan le natiche.] «Tutto
il vedrai». – Per le quali parole di Virgilio, l’autore,
prestamente verso quel luogo rivoltosi, cominciò a riguardare
questo messer Farinata.

E però segue: «Io
avea il mio viso», cioè la mia virtú visiva, «nel suo», viso,
cioè negli occhi suoi, «fitto», fiso riguardando: «Ed el», cioè
messer Farinata, il quale io riguardava, «s’ergea», cioè surgea,
levandosi da giacere; ed ergevasi «col petto e con la fronte», li
quali l’uomo levandosi mette innanzi; il che messer Farinata faceva,
«Come avesse l’inferno in gran dispitto», cioè a vile e per
niente: e in questo vuole l’autore mostrare messer Farinata essere
stato uomo di grande animo, né averlo potuto, vivendo, piegare né
rompere alcuna fatica, pericolo o avversitá.

«E l’animose man»:
diciamo allora le mani essere «animose», quando elle son pronte e
destre all’oficio il quale esse vogliono o debbon fare; «del duca e
pronte Mi pinser tra le sepolture a lui». Non è da credere che
violentemente il sospignessero, ma fecero un atto, il quale colui,
che bene intende, prende per sospignere, cioè per essere animato da
colui che fa sembiante di sospignere ad andare; «Dicendo», in
quell’atto: – «Le parole tue sien cónte», – cioè composte e
ordinate a rispondere; quasi voglia dire: tu non vai a parlare ad
ignorante.

[Lez.
XL]

«Com’io al piè». Qui
comincia la terza particula di questa terza parte principale, nella
quale dimostra l’autore come con messer Farinata parlasse: dove,
avanti che piú oltre si proceda, è da mostrare chi fosse messer
Farinata. Fu adunque messer Farinata cittadino di Firenze, d’una
nobile famiglia chiamata gli Uberti, cavaliere, secondo il temporal
valore, da molto, e non solamente fu capo e maggiore della famiglia
degli Uberti, ma esso fu ancora capo di parte ghibellina in Firenze,
e quasi in tutta Toscana, sí per lo suo valore, e sí per lo stato,
il quale ebbe appresso l’imperadore Federigo secondo, il quale quella
parte manteneva in Toscana, e dimorava allora nel Regno; e sí ancora
per la grazia, la quale, morto Federigo, ebbe del re Manfredi, suo
figliuolo, con l’aiuto e col favore de’ quali teneva molto oppressi
quegli dell’altra parte, cioè i guelfi. E, secondo che molti
tennero, esso fu dell’opinione d’Epicuro, cioè che l’anima morisse
col corpo, e per questo tenne che la beatitudine degli uomini fosse
tutta ne’ diletti temporali; [ma non seguí questa parte nella forma
che fece Epicuro, cioè di digiunare lungamente, per avere poi
piacere di mangiare del pan secco, ma fu disideroso di buone e di
dilicate vivande, e quelle, eziandio senza aspettar la fame, usò.] E
per questo peccato è dannato come eretico in questo luogo,

Dice adunque l’autore:
«Com’io al piè della sua tomba fui»; appare qui che quelle arche
non erano in terra, ma levate in alto; «Guardommi un poco», forse
per vedere se il conoscesse, «e poi 
quasi sdegnoso»; è
questo atto d’uomini arroganti, li quali quasi, ogni altra persona
che sé avendo in fastidio, con isdegno riguardano altrui; «Mi
domandò: – Chi fûr li maggior tui?» – cioè gli antichi tuoi: e
questo per ricordarsi se cognosciuti gli avesse, posciaché lui non
ricognoscea.

«Io, ch’era d’ubbidir
disideroso, Non gliel celai, ma tutto gliele apersi», dicendo che
gli antichi suoi erano stati gli Alighieri, onorevoli cittadini di
Firenze, e antica famiglia, sí come piú distesamente si narrerá
nel canto decimoquinto del
Paradiso;
«Ond’ei levò le ciglia un poco in suso». Sogliono fare questo atto
gli uomini quando odono alcuna cosa, la quale non si conformi bene
col piacer loro, quasi, in quello levare il viso in su, di ciò che
odono si dolgano con Domeneddio o si dolgano di Domeneddio.

«Poi disse: –
Fieramente fûro avversi», cioè contrari e nemici, percioché
guelfi erano, «A me», in singularitá, «e a’ miei primi», cioè
a’ miei passati, «e a mia parte».

[Era, come di sopra è
detto, la parte di costui quella che ancora si chiama «parte
ghibellina», della qual parte, e della opposita, e della loro
origine, par di necessitá di parlare alquanto diffusamente, accioché
poi, dovunque se ne tratterá in questo libro appresso, senza avere a
replicare, s’intenda. Sono adunque in Italia, giá è lungo tempo,
perseverate, con grandissimo danno e disfacimento di molte famiglie e
cittá e castella, due parti, delle quali l’una è chiamata parte
guelfa e l’altra ghibellina, e hannosi sí fervente odio portato
l’una all’altra, che né il gittar le proprie sustanze, né il perder
gli stati, né il metter se medesimi a pericolo e a morte, pare che
curati si sieno. E questi due nomi, secondo che recitava il
venerabile uomo messer Luigi Gianfigliazzi, il quale affermava averlo
avuto da Carlo quarto imperadore, vennero della Magna, lá dove dice
nacquero in questa forma. Fu in Italia, giá son passati dugento
anni, una nobile donna e di grande animo, e abbondantissima di
baronie e delle mondane ricchezze, chiamata la contessa Matelda,
delle cui laudevoli operazioni distesamente si dirá nel canto
vigesimottavo del
Purgatorio;
la quale, accioché alcun certo erede di lei rimanesse, cercò di
volersi maritare, e, non trovando in Italia alcuno che assai le
paresse conveniente a sé, mandò nella Magna; e qui trovatosi un
barone, il cui nome fu il duca Gulfo, ovvero Guelfo, e costui
parendole e per nobilitá di sangue e per grandigia convenirlesi,
fece con lui trattare il matrimonio. La qual cosa sentendo un parente
di questo Gulfo, il cui nome fu Ghibellino, e udendo la maravigliosa
dota che a costui dovea da questa donna esser data, divenne invidioso
della sua buona fortuna, e occultamente cominciò a cercar vie per le
quali questo potesse sturbare; e ultimamente s’avvenne ad alcuna
persona ammaestrata in ciò, il quale adoperò, con sue malie e con
sue malvagie operazioni, cose, per le quali questo Gulfo fu del tutto
privato del potere con alcuna femina giacere. Per lo qual malificio,
essendo dato opera alle sponsalizie, e Gulfo venuto in Italia, e
cercato piú volte di dare opera al consumamento del matrimonio, e
non avendo mai potuto; tenendosi la donna schernita da lui, con poco
onor di lui il mandò via, né poi volle marito giammai. Gulfo,
tornatosi a casa, o che Ghibellino sospicasse non questo gli venisse
che fatto avea, agli orecchi, o per altro odio che gli portasse, il
fece avvelenare, e cosí morí. Ma questa seconda malvagitá di
Ghibellino, conosciuta, manifestò ancor la prima: per le quali cose
assai nobili uomini della Magna si levarono a dover questa iniquitá
vendicare; e cosí molti ne furono in aiuto e in sussidio di
Ghibellino; e tanto procedette la cosa avanti, che quasi tutta
Alamagna fu divisa, e sotto questi due nomi, Guelfo e Ghibellino,
guerreggiavano. Né stette questa maladizione contenta a’ termini
della Magna, ma trapassò la fama d’essa in Italia; la quale udita
dalla contessa Matelda, e conoscendo la innocenzia di Gulfo e la
iniquitá di Ghibellino, in aiuto di quegli che vendicar voleano la
morte di Gulfo mandò grandissimo sussidio, nel quale furono molti
nobili uomini italiani. E, percioché per avventura in Italia erano
similmente delle divisioni, quantunque senza alcun notabile nome
fossero, assai di quegl’italiani, che d’altro animo erano che coloro
li quali erano andati a vendicar Guelfo, andarono dalla parte
avversa, mossi da questa ragione, che, se avvenisse agli avversari
loro d’aver bisogno d’aiuto contra di loro, pareva loro essi, con
l’avere aiutata la parte di Gulfo, aver dove ricorrere, e perciò,
accioché a loro similmente non fallasse ricorso, se bisognasse,
andarono nell’aiuto di Ghibellino: e poi l’una parte e l’altra
tornatisene di qua, ne recarono questi sopranomi; cioè quegli, che
in aiuto della parte di Gulfo erano andati, si chiamaron 
«guelfi», e gli altri
«ghibellini». Ed essendo questa pestilenza per tutta Italia
distesa, divenne nella nostra cittá potentissima: e per la uccisione
stata fatta d’un nobile cavaliere, chiamato messer Bondelmonte, mise
maravigliosamente le corna fuori, e quegli che co’ parenti del
cavaliere ucciso teneano, si chiamaron «guelfi», de’ quali furon
capo i Bondelmonti; e la parte degli ucciditori si chiamò
«ghibellina», e fúronne capo gli Uberti. E questa è quella parte
alla quale messer Farinata dice che gli antichi dell’autore furono
fieramente avversi, sí come uomini li quali erano guelfi, e con
quella parte teneano contro a’ ghibellini.]

«Sí che per due fiate
gli dispersi», cioè gli cacciai di Firenze insieme con gli altri
guelfi. E questo fu, la prima volta, essendo lo ‘mperador Federigo
privato d’ogni dignitá imperiale da Innocenzio papa e scomunicato, e
trovandosi in Lombardia, per abbattere e indebolire le parti della
Chiesa in Toscana mandò in Firenze suoi ambasciadori, per opera de’
quali fu racceso l’antico furore delle due parti guelfa e ghibellina
nella cittá, e cominciaronsi per le contrade di Firenze, alle sbarre
e sopra le torri, le quali allora c’erano altissime, a combattere
insieme e a danneggiarsi gravissimamente, e ultimamente in soccorso
della parte ghibellina mandò Federigo in Firenze milleseicento
cavalieri; la venuta de’ quali sentendo i guelfi, né avendo alcun
soccorso, a dí 2 di febbraio nel 1248, di notte s’usciron della
cittá, e in diversi luoghi per lo contado si ricolsono, di quegli
guerreggiando la cittá. È vero che poi, venuta in Firenze la
novella come lo ‘mperador Federigo era morto in Puglia, si levò il
popolo della cittá, e volle che i guelfi fossero rimessi in Firenze:
e cosí furono a dí 7 di gennaio 1250.

La seconda volta ne
furon cacciati quando i fiorentini furono sconfitti a Monte Aperti
da’ sanesi, per l’aiuto che’ sanesi ebbero dal re Manfredi per opera
di messer Farinata, il quale avea mandata la piccola masnada avuta da
Manfredi, con la sua insegna, in parte che tutti erano stati tagliati
a pezzi, e la ‘nsegna, ecc. La qual novella come fu in Firenze,
sentendo i guelfi che i ghibellini con le masnade del re Manfredi ne
venieno verso Firenze, senza aspettare alcuna forza, con tutte le
famiglie loro, a dí 13 di settembre 1260, se n’uscirono; e poi,
avendo il re Carlo primo avuta vittoria, e ucciso il re Manfredi,
tutti vi ritornarono, e i ghibellini se n’uscirono. De’ quali mai poi
per sua virtú o operazione non ve ne ritornò alcuno; per la qual
cosa dice l’autore: – «S’e’ fûr cacciati», i miei antichi da voi,
«e’ tornar d’ogni parte», – dove ch’e’ si fossero, «Risposi lui, –
e l’una e l’altra fiata», come di sopra è stato mostrato: «Ma’
vostri», cioè gli Uberti, li quali con gli altri ghibellini furon
cacciati quando la seconda volta vi ritornarono i guelfi, «non
appreser ben quell’arte», – cioè del ritornare: percioché, come
detto è, mai non ci ritornarono, né, per quel che appaia, sono per
ritornarci.

«Allor surse». Qui
comincia la quarta particella di questa terza parte principale, nella
quale l’autore mostra come un’altra anima surgesse e dimandasselo
d’alcuna cosa, ed egli le rispondesse; e però dice: «Allor»,
mentre io rispondea, come detto è, a messer Farinata, «surse», si
levò, «alla vista scoperchiata», cioè infino a quella parte della
sepoltura non coperchiata, della qual si poteva veder di fuori;
«Un’ombra, lungo questa, insino al mento»: non si levò diritta in
piè, come s’era levato messer Farinata, ma tanto che dal mento in su
si vedea; «Credo che s’era inginocchion levata»; e cosí dovea
essere, poiché piú non se ne vedea. «D’intorno mi guardò, come
talento», cioè volontá, «Avesse di veder s’altri era meco; Ma,
poi che’l sospicciar fu tutto spento», cioè poi che vide che io era
solo. «Piangendo disse: – Se per questo cieco Carcere», dello
‘nferno, il quale meritamente chiama «carcere», percioché alcuno
che v’entri mai uscir non ne puote; e chiamal «cieco», non perché
cieco sia, percioché il luogo non ha attitudine niuna di poter
vedere né d’esser cieco, ma percioché ha a far cieco chi v’entra,
in quanto egli è tenebroso, e ne’ luoghi tenebrosi non si può veder
lume; «vai per altezza d’ingegno», avendo per quella saputo trovar
via e modo, per lo quale, senza ricevere offesa o doverci rimanere,
tu ci vai; «Mio figlio ov’è? e perché non è el teco?» – quasi
voglia dire: conciosiacosaché egli sia cosí di maraviglioso ingegno
dotato, come siè tu. «Ed io a lui:
Da me stesso non
vegno»; cioè per l’altezza d’ingegno che in me sia; «Colui che
attende lá», e mostrò Virgilio, «per qui mi mena», cioè per
questo luogo, «Forse cui Guido vostro», figliuolo, «ebbe a
disdegno». –


«Le sue parole»
(cioè: se tu vai per altezza d’ingegno, come non è mio figlio
teco?) «e ‘l modo della pena», cioè vederlo dannato tra gli
epicurei, «M’avevan di costui», che mi parlava, «giá detto il
nome», cioè m’avevan fatto conoscere chi egli era: «Però fu la
risposta», mia a lui, «cosí piena», senza mostrare in alcuna cosa
di non intenderlo.

qui
adunque da sapere che costui, il quale qui parla con l’autore, fu un
cavalier fiorentino chiamato messer Cavalcante de’ Cavalcanti,
leggiadro e ricco cavaliere, e seguí l’opinion d’Epicuro in non
credere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse, e che il nostro
sommo bene fosse ne’ diletti carnali; e per questo, sí come
eretico, è dannato. E fu questo cavaliere padre di Guido
Cavalcanti, uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe
molte leggiadre cose fare meglio che alcun nostro cittadino; e,
oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon
filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore, sí come esso
medesimo mostra nella sua
Vita
nuova
,
e fu buon dicitore in rima: ma, percioché la filosofia gli pareva,
sí come ella è, da molto piú che la poesia, ebbe a sdegno
Virgilio e gli altri poeti. E percioché messer Cavalcante conosceva
lo ‘ngegno del figliuolo, e la singulare usanza la quale con
l’autore avea, riconosciuto prestamente l’autore, senza alcuna
premessione d’altre parole, nella prima giunta gli fece la domanda
che di sopra si disse.

Poi séguita l’autore e
dice che, attristatosi messer Cavalcante per la risposta udita, «Di
subito drizzato, gridò: – Come Dicesti, ‘egli ebbe’?», il che si
suol dire delle persone passate di questa vita, e però segue: «non
viv’egli ancora? Non fiere gli occhi suoi il dolce lome?» – del
sole; percioché gli occhi de’ morti non sono quanto i corporali
feriti, cioè illuminati da alcun lume.

«Quando s’accorse»,
aspettando, «d’alcuna dimora Ch’io faceva dinanzi alla risposta»,
cioè non rispondea cosí subitamente, «Supin ricadde»; segno di
pena è il cader supino, la quale assai bene si può comprendere
essergli venuta estimando che ‘l figliuolo fosse morto, poiché
l’autore non gli rispondea cosí tosto; percioché gli uomini
sogliono soprastare alla risposta, quando la conoscono dovere esser
tale che ella non debba piacere a colui che ha fatta la domanda: «e
piú non parve fuora». Puossi nelle predette cose comprendere quanto
sia l’amor de’ padri ne’ figliuoli, quando veggiamo che in tanta
afflizione, in quanta i dannati sono, essi non gli dimenticano, e
accumulano la pena loro quando di loro odono o suspicano alcuna cosa
avversa.

«Ma quell’altro
magnanimo». Qui comincia la quinta particella della terza del
presente canto, nella quale, poi che l’autore ha mostrato come quello
spirito, il quale s’era in ginocchie levato, era nella sepoltura
ricaduto, ne dice come messer Farinata, continuando le sue parole,
gli annunzia alcuna cosa di sua vita futura. Dice adunque: «Ma
quell’altro magnanimo», cioè messer Farinata, «a cui posta», cioè
a cui richiesta, «Restato m’era», in quel luogo, «non mutò
aspetto», per cosa che detta fosse, «Né mosse collo», volgendosi
in giú alle parole di messer Cavalcante, «né piegò sua costa»,
cioè suo lato.

«E
se, – continuando al primo detto», cioè a quello che di sopra avea
detto, d’avere due volte cacciati i passati dell’autore;-«Egli han
quell’arte», – del tornare donde cacciati sono, «disse, – male
appresa», in quanto non tornano in Firenze, «Ciò mi tormenta piú
che questo letto», cioè che questo sepolcro acceso, nel quale io
giaccio.

«Ma
non cinquanta volte fia raccesa La faccia della donna che qui regge».

A dichiarazion di
queste parole è da sapere, come altra volta è stato detto,
Proserpina esser moglie di Plutone e reina d’inferno; e questa
Proserpina talvolta è da intendere per una cosa, e tal per un’altra.
E tra l’altre cose, per le quali i poeti la prendono, alcuna volta è
per la luna, la quale però si dice reggere in inferno, percioché la
sua potenza è grandissima appo questi corpi inferiori, i quali, per
rispetto delle cose superiori, si posson dire essere in inferno; e
però, intendendosi per la luna, è da sapere la luna di sua natura
non avere alcuna luce, sí come noi possiamo vedere negli ecclissi
lunari, ne’ quali ella non è veduta dal sole: per la interposizione
del corpo della terra tra ‘l sole e lei, rimane un corpo rosso senza
alcuna luce. E cosí, facendo il suo corso, quanto piú dal sol 
si dilunga, piú
veggiamo del corpo suo lucido, insino a tanto che perviene alla
quintadecima, e quivi allora veggiamo tutto il corpo suo luminoso e
bello; e cosí si mostra a noi essere «raccesa», cioè ralluminata
la faccia sua: poi dal luogo, dove tutta la veggiamo, partendosi, e
tornando verso il sole, continuamente par diminuisca il lume suo, in
quanto a’ nostri occhi apparisce meno di quello che dal sole è
veduto; e cosí se ne va continuamente diminuendo, infino a tanto che
entra sotto i raggi del sole; e di sotto a quegli uscendo, comincia,
come dinanzi ho detto, a divenire ognora piú luminosa, infino alla
quintadecima; e brievemente in trecentocinquantaquattro dí ella si
raccende, cioè si vede tutta accesa dodici volte, per che possiam
dire che in quattro anni, pochi di piú, ella si raccenda cinquanta
volte.

E però vuol qui,
vaticinando, dire messer Farinata: egli non saranno quattro anni,
«Che tu saprai», per esperienza, «quanto quell’arte», del tornare
chi è cacciato, «pesa», cioè è grave; volendo per queste parole
annunziargli che, avanti che quattro anni fossero, esso sarebbe
cacciato di Firenze: il che avvenne avanti che fossero due, o poco
piú.

«E
se tu mai nel dolce mondo», cioè in questo, il quale, quantunque
pieno d’amaritudine sia, 
«dolce»,
cioè dilettevole, a rispetto dello ‘nferno; «regge», cioè torni,
«Dimmi: perché quel popolo», cioè i cittadini di Firenze, «è
si empio», cioè crudele, «Incontr’a’ miei», cioè agli Uberti,
«in ciascuna sua legge»? – delle quali, poiché cacciati furono,
mai alcuna non se ne fece, nella quale alcun beneficio si concedesse
a’ cacciati di Firenze (se alcuna se ne fece mai), che da quel cotal
beneficio non fossero eccettuati gli Uberti generalmente tutti.

«Ond’io a lui»,
risponde l’autore e dice: – «Lo strazio e ‘l crudo scempio, Che fece
l’Arbia colorata in rosso, Tali orazion», cioè composizioni contro
alla vostra famiglia, «fa far nel nostro tempio», cioè nel nostro
senato, nel luogo dove si fanno le riformagioni e gli ordini e le
leggi: il quale chiama «tempio», sí come facevano i romani, li
quali chiamavano talvolta «tempio» il luogo dove le loro
diliberazioni facevano.

E accioché pienamente
s’abbia lo ‘ntelletto della risposta che l’autore fa, è da sapere
che, avendo il comun di Firenze guerra col comun di Siena, si fece
per opera di messer Farinata, il quale allora era uscito di Firenze,
che il re Manfredi mandò in aiuto del comun di Siena il conte
Giordano con ottocento tedeschi, li quali avendo, tenne messer
Farinata segreto trattato con piú cittadini ghibellini e altri, co’
quali compose quello che poi seguí, come si dirá appresso. Poi con
astuzia mandati frati minori, con falsa informazione data loro, agli
anziani di Firenze, e loro per parte di coloro, che luogo di comun
teneano in Siena, mostrando di dover dar loro una porta di Siena, se
ad oste v’andassero; trassero i fiorentini con ogni loro sforzo fuori
della cittá, sotto titolo di andare a fornire Monte Alcino, e
pervennero infino a Monte Aperti in Val d’Arbia: dove, contro
all’opinion di tutti, usciti loro allo ‘ncontro i sanesi co’ tedeschi
del re Manfredi, e molti dell’oste de’ fiorentini, secondo che con
messer Farinata erano in concordia, partitisi dell’oste de’
fiorentini, entrarono in quella de’ sanesi. Di che quantunque
sbigottissero i fiorentini, nondimeno, fatte loro schiere,
s’avvisarono con la gente de’ sanesi; ed essendo giá la battaglia
cominciata, messer Bocca Abati, il quale era di quegli che con messer
Farinata sentiva, accostatosi a messer Iacopo del Vacca de’ Pazzi di
Firenze, il qual portava l’insegna del comune, levata la spada, ferí
il detto messer Iacopo e tagliògli la mano, di che convenne la
‘nsegna cadesse; per la qual cosa i fiorentini del tutto rotti, senza
segno e senza consiglio, furono sconfitti, e molta gran quantitá di
loro e di loro amici furono in quella sconfitta uccisi; il sangue de’
quali n’andò infino in un fiume ivi vicino chiamato Arbia; e ciò fu
a dí 4 di settembre 1260. La qual cosa saputa poi pienamente per
tutti, fu ed è cagione che, tornati i guelfi in Firenze, mai della
famiglia degli Uberti alcuna cosa si volesse udire, se non in
disfacimento e distruzion di loro. E per queste cose state per opera
di messer Farinata fatte, dice l’autore che fece «l’Arbia colorata
in rosso» del sangue de’ fiorentini.

[Lez.
XLI]


E séguita: «Poi
ch’ebbe, sospirando, il capo scosso», come color fanno li quali
minacciano, – «A ciò non fu’ io sol – disse», cioè a far questi
trattati contro al comun di Firenze; quasi voglia dire: comeché
contro alla mia famiglia s’adoperi o procuri ogni disfacimento, e non
contro agli altri, che ad adoperar questo fûr meco; – «né certo,
Senza cagion con gli altri», che a ciò tennero, «sarei mosso», a
dover far quel che si fece: vogliendo per questo intendere che il
comun di Firenze, il quale il teneva fuori di casa sua, gli dava
giusta cagione d’adoperare ciò che per lui si poteva, per dover
tornare in casa sua. Poi segue: «Ma fu’ io sol colá, dove
sofferto», cioè acconsentito, «Fu per ciascun», fiorentino che a
quello ragionamento si trovò, «di tôrre via Fiorenza», cioè di
disfarla, «Colui che la difesi a viso aperto», che essa non fosse
disfatta: volendo per questo atto dire che egli e’ suoi dovrebbono
sempre esser cari e a grado al comun di Firenze, piú che alcuni
altri cittadini.

il
vero che, poi che i ghibellini furon tornati in Firenze per la
sconfitta ricevuta a Monte Aperti, e i guelfi partitisi di quella,
si ragunarono ad Empoli ambasciadori e sindachi di tutte le terre
ghibelline di Toscana, e molti altri nobili uomini ghibellini, e
cosí ancora piú gran cittadini di Firenze, per dovere riformare lo
stato di parte ghibellina, e far lega e compagnia insieme a dover
contrastare a chiunque contro a quella volesse adoperare; e tra
l’altre cose che in quello ragunamento furono in bene di parte
ghibellina ragionate, fu che la cittá di Firenze si disfacesse e
recassesi a borghi, accioché ogni speranza si togliesse a’ guelfi
di mai dovervi ritornare; e ciò era generalmente per tutti
consentito, e ancora per li fiorentini che v’erano, fuor solamente
per uno: e questi fu messer Farinata, il quale, levatosi ritto, con
molte e ornate parole contradisse a questo, dicendo, nella fine di
quelle, che, se altri non fosse che ciò vietasse, esso sarebbe
colui che con la spada in mano, mentre la vita gli bastasse, il
vieterebbe a chi far lo volesse. Per le quali parole, avendo
riguardo all’autoritá di tanto cavaliere, e ancora alla sua
potenza, fu il ragionamento di ciò lasciato stare.

«Deh!
se riposi mai». Qui comincia la sesta particella della terza parte
di questo canto, nella quale l’autor muove un dubbio a messer
Farinata, ed egli gliele solve. Dice adunque cosí: – «Deh! se
riposi mai vostra semenza», – cioè i vostri discendenti; e in
queste parole alquanto capta la benivolenza di messer Farinata,
accioché piú benivolmente gli sodisfaccia di quello di che intende
di domandarlo: «Prega’ io lui, – solvetemi quel nodo», cioè quel
dubbio, «Che qui ha inviluppata mia sentenza», cioè il mio
giudicio, in tanto che io non ne posso veder quello che io disidero.
«El par che voi», cioè anime dannate, «veggiate, se ben odo»
quello che voi m’avete detto, e comprendo quello di che messer
Cavalcante mi domandò; veggiate «Dinanzi», cioè preveggiate,
«quel che ‘l tempo seco adduce», nel futuro, «E nel presente»
tempo, «tenete altro modo», – in quanto non par che cognosciate né
veggiate le cose presenti. E questo dice, percioché messer Farinata
gli avea detto che, avanti che quattro anni fossero, egli sarebbe
cacciato di Firenze, in che si dimostra loro veder le cose future; e
messer Cavalcante l’avea domandato se il figliuolo vivea, in che si
dimostra che essi non conoscono le cose presenti.

E messer Farinata gli
risponde: – «Noi veggiam come quei c’ha mala luce, Le cose, – disse,
– che ne son lontano». Suole questo vizio avvenire agli uomini
quando vengono invecchiando, per omori li quali vengon dal cerebro,
ed essendo nell’occhio, per la vicinanza loro alla virtú visiva,
alquanto l’occupano intorno alla vista delle cose propinque; ma, come
la virtú visiva si stende piú avanti, e lontanasi dall’adombrazion
dell’omore, tanto men mal vede, e con piú sinceritá riceve le forme
obiette. Cosí adunque i dannati, offuscati dalla propinquitá della
caligine infernale, non posson le cose propinque vedere; ma, ficcando
con la meditazione l’acume dello ‘ntelletto per le cose superiori,
veggion le piú lontane. E come queste possan vedere o no, quello che
per Tullio se ne tiene è dimostrato nel precedente canto, dove
l’autore induce Ciacco a predire quello che esser deve della «cittá
partita». E séguita: «Cotanto», quanto odi, «ancor ne splende»,
cioè presta di luce, «il sommo Duce», cioè Iddio, senza la grazia
del quale alcuna cosa non si può fare. «Quando s’appressan», le
cose future, «n’è del tutto vano Nostro intelletto», in quanto
niuna cosa ne conosciamo; «e s’altri», o demonio o anima che tra
noi discenda, «non ci apporta», vegnendo dell’altra vita, e di
quella ci dica novelle, «Nulla sapem di vostro stato umano», cioè
di cosa che 
lassú si faccia. «Però
comprender puoi», da ciò ch’io ti dico, «che tutta morta, Fia
nostra conoscenza da quel punto, Che del futuro fia chiusa la porta»,
– cioè dal dí del giudicio innanzi; percioché allora seranno
serrate tutte quelle arche con i loro coperchi, e non saranno piú
uomini, se non o dannati o beati, de’ quali niuno fará transito
l’uno all’altro; né si faranno sopra la terra alcune operazioni, le
quali eziandio gli spiriti dannati possano laggiú riportare; [anzi,
secondo tengono i santi, gli spiriti maladetti, de’ quali tutto
questo caliginoso aere è pieno, saranno tutti rinchiusi e serrati
nel profondo dello ‘nferno.]

«Allor, come di mia».
Qui comincia la settima particula di questa terza parte principale,
nella quale l’autore scrive quello che a messer Farinata dicesse che
dicesse a quello spirito caduto, e dice: «Allor, come di mia colpa
compunto», cioè pentuto di ciò che io non aveva prestamente
risposto a messer Cavalcante, che il figliuol vivea; «Diss’io: – Or
dicerete a quel caduto», cioè a messer Cavalcante, «Che ‘l suo
nato», cioè Guido Cavalcanti, «è tra’ vivi», di questa mortal
vita, «ancor congiunto», e perciò ancora vive; «E s’io fu’
dianzi», quando me ne domandò, «alla risposta muto», cioè in
quanto tacendo non gli risposi, «Fat’ei saper che ‘l fe’, perché
pensava Giá nell’error che m’avete soluto», – qui poco di sopra.

«E giá il maestro mio
mi richiamava; per ch’io pregai lo spirito», di messer Farinata,
«piú avaccio», piú tosto, «Che mi dicesse chi con lui stava»,
in quell’arca.

«Dissemi: – Qui con
piú di mille giaccio», quasi voglia dire con infiniti. «Qua
dentro», in quest’arca, «è il secondo Federico».

Questo Federigo fu
figliuolo d’Arrigo sesto imperadore e nepote di Federigo Barbarossa.
Il quale Arrigo per introdotto d’alcuni suoi amici, essendo senza
donna, prese con dispensazion della Chiesa per moglie Gostanza,
figliuola che fu del buon re Guglielmo di Cicilia, la quale era
monaca e giá d’etá di cinquantasei anni, ed ébbene in dota il
reame di Cicilia, il quale allora teneva Tancredi (il quale fu de’
discendenti del re Ruggieri, ed era male in concordia con la Chiesa),
e dopo lui rimase ad un suo figliuolo chiamato Guglielmo, contro al
quale andò il detto Arrigo imperadore, e per tradimento il prese, e
rimase libero signor del reame. E della detta Gostanza generò un
figliuolo, il qual fu quel Federigo del qual diciamo. E, morendo la
detta Gostanza pochi anni appresso la nativitá del figliuolo, lui
lasciò nelle braccia e nella guardia della Chiesa, la quale con
diligenza l’allevò, e come ad etá perfetta divenne, gli diede la
possessione del reame di Cicilia, e non passò guari di tempo che,
fattolo eleggere, il coronò imperador di Roma.

Divenne costui
maraviglioso uomo e in molte cose eccellente e virtuoso, ma non durò
guari in concordia con la Chiesa, per lo volere usurpare le ragioni
di quella. Poi, venuto in concordia con lei, sí come ne’ patti della
pace par che fosse, fece il passaggio oltre mare; nel quale essendo
occupato, la Chiesa gli fece tutto il reame di Cicilia ribellare, e,
oltre a ciò, scrisse il papa al soldano la via la qual dovesse
tenere a farlo di lá morire. Le quali lettere il soldano, non per
amor che portasse allo ‘mperadore, ma per seminar zinzania e
malavoglienza tra lui e la Chiesa, accioché esso potesse piú sicuro
vivere dello stato suo, mostrò allo ‘mperadore. Le quali come egli
vide e conobbe, concordatosi col soldano, e sapendo ancora come la
Chiesa gli avea ribellato il reame, occultamente e con poca compagnia
se ne tornò di qua, e fu ricevuto, secondo che alcuni raccontano, in
Benevento, e brievemente in piccolissimo spazio di tempo recuperò
tutto senza alcuna arme il reame suo. E per dispetto della Chiesa
mandò a Tunisi per una gran quantitá di saracini, e diede loro per
istanza una cittá stata lungamente disfatta, chiamata Lucera,
comeché i volgari la chiamino Nocera, nel mezzo quasi di Puglia
piana; ed egli per sé dall’una delle parti, la quale è alquanto piú
rilevata che l’altra, vi fece un mirabile e bello e forte castello,
il quale ancora è in piè. I saracini nel compreso della terra
disfatta fecero le lor case, come ciascun poté meglio; ed essendo il
paese ubertoso, volentieri vi dimorarono, e moltiplicarono in tanta
quantitá, che essi correvano tutta la Puglia, quando voglia ne venía
loro. Oltre a ciò, in Lombardia e in Toscana indebolí forte i
sudditi e la parte della Chiesa, e gran guerra menò loro, e molti
danni fece, non lasciando nel suo regno usare alcuna sua ragione alla
Chiesa.


Fu gran litterato, e
nella Magna fu reputato da molto, e gl’infedeli avevan gran paura di
lui. Ebbe di diverse femmine piú figliuoli, de’ quali, cosí de’ non
legittimi, come de’ legittimi, fece da cinque o vero sei re. Ed
essendogli stato da un suo astrolago predetto che egli morrebbe in
Fiorenza, sempre si guardò di venire in questa cittá; poi,
avvenendo che egli infermò in Puglia, da Manfredi, allora prenze di
Taranto, suo figliuolo naturale, e da altri suoi baroni, ne fu cosí
infermo portato in una terra di Puglia, la quale ha nome Fiorenza. E
quivi, crescendo la ‘nfermitá, domandò dove egli fosse; ed
essendogli risposto che egli era in Fiorenza, si dolse forte, e
subitamente si giudicò morto, e cosí disse a’ suoi. Poi, comeché
la infermitá l’aggravasse forte, vogliono alcuni che l’ultima notte
che fece in terra, che ‘l prenze Manfredi, per disidèro d’avere il
mobile suo, gli ponesse un primaccio in su la bocca e facessel
morire; e cosí scomunicato e in contumacia di santa Chiesa finí in
Fiorenza i giorni suoi. E percioché egli, vivendo, in assai cose
aveva mostrato tenere che l’anima insieme col corpo morisse, il pone
l’autore in questo luogo esser dannato con gli epicúri, chiamandolo
Federigo «secondo», percioché fu il secondo imperadore che avesse
nome Federigo.

«E ‘l cardinale». Par
qui che tutti s’accordino che l’autore, il qual non nomina questo
cardinale, voglia intendere del cardinale Ottaviano degli Ubaldini: e
percioché egli fu uomo di singulare eccellenza, voglia che, dicendo
semplicemente «cardinale», s’intenda di lui. Il quale, secondo che
alcuni scrivono, tenne vita piú tosto signorile che chericile; né
fu alcuno altro che tanto fosse e si mostrasse ghibellino, quanto
egli, in tanto che, senza curarsi che papa o altri se ne avvedesse,
fieramente favoreggiò i ghibellini, nemici della Chiesa. E, avendo,
senza guardarsi innanzi, aiutati in ciò che potuto avea sempre i
ghibellini, e in suo bisogno trovandosi da loro abbandonato, e di ciò
dolendosi forte, tra l’altre parole del suo rammarichío disse: – Se
anima è, perduta l’ho per li ghibellini. – Nella qual parola fu
compreso per molti lui non aver creduto che anima fosse, la qual dopo
il corpo vivesse; per la qual cosa l’autore dice lui con gli altri
eretici epicúri essere in questo luogo dannato. «E degli altri mi
taccio» – quasi voglia dire: io te ne potrei molti altri contare.

«Indi s’ascose». Qui
comincia la quarta parte principale del presente canto, nella quale
l’autor dice come, tornato a Virgilio, dove con lui, seguitandolo,
pervenisse. Dice adunque: «Indi», cioè poi che cosí ebbe detto,
«s’ascose», nella sua arca, riponendosi a giacere, «ed io
inver’l’antico poeta volsi i passi», tornandomi a lui, «ripensando
A quel parlar che mi parea nimico», cioè a quel che messer Farinata
gli avea detto («Ma non cinquanta volte fia raccesa», ecc.).

«Elli», cioè
Virgilio, «si mosse», veggendo me tornare, «e poi, cosí andando,
Mi disse: – Perché se’ tu si smarrito»? – cioè sbigottito; «Ed io
gli satisfeci al suo dimando», dicendogli quello che del mio dovere
esser cacciato di Firenze aveva udito da messer Farinata.

«La
mente tua conservi quel ch’udito Hai contra te, – mi comandò quel
saggio, – Ed ora attendi qui», a quel ch’io ti vo’ dire, «e drizzò
il dito», quasi disegnando, come fanno coloro che piú vogliono le
lor parole impriemer nello ‘ntelletto dell’uditore. «Quando sarai
dinanzi al dolce raggio», cioè alla chiara luce, «Di quella»,
cioè di Beatrice, «il cui bell’occhio», cioè il santo e divino
intelletto, «tutto vede», cioè il preterito, il presente e il
futuro; «Da lei saprai di tua vita il viaggio», – cioè come ella
dee andare e a che riuscire. E vuole in queste parole Virgilio, per
confortar l’autore, mostrare non sempre dire il vero l’anime de’
dannati delle cose che sono a venire; e per questo vuole si
conforti, quasi dicendo esser possibile non dover cosí avvenire; ma
che, quando sará in cielo, da Beatrice, la quale in Dio vede la
veritá d’ogni cosa, saprá il vero di ciò che avvenir gli dee.

«Appresso volse a man
sinistra», piegandosi, «il piede; Lasciammo il muro», della terra,
dilungandocene, «e gimmo inver’lo mezzo», della cittá dolente,
«Per un sentier ch’ad una valle fiede», cioè riesce, «Che ‘nfin
lassú facea spiacer suo lezzo», cioè suo puzzo.

Questo
canto non ha allegoria alcuna.