CANTO NONO, I, II, senso letterale, allegorico

CANTO NONO

I

SENSO LETTERALE
[Lez. XXXV]

«Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Continuasi l’autore in questo canto al precedente in cotal guisa: egli ha dimostrato davanti come Virgilio,
essendogli stata serrata la porta della cittá nel petto, egli
tornasse a lui con sospiri e con rammarichii; e dobbiam credere che,
per la turbazione presa di ciò, egli altro colore che l’usato avesse
nel viso; il qual colore nel principio di questo canto dice l’autore
che egli ristrinse dentro, veggendo lui per viltá aver similmente
mutato colore. E dividesi il presente canto in cinque parti: nella
prima delle quali, essendo l’autore per certe parole di Virgilio
entrato in pensiero, muove un dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele
solve; nella seconda discrive come sopra le mura di Dite vedesse le
tre furie e udissele gridare; nella terza pone la venuta del Gorgone,
e come da Virgilio gli fossero gli occhi turati, accioché nol
vedesse; nella quarta discrive la venuta d’un angelo, per opera del
quale scrive essere stata la porta della cittá aperta; nella quinta
e ultima pone come nella cittá entrassero, e quivi vedessero in
arche affocate punire gli eresiarche. La seconda comincia quivi: «E
altro disse»; la terza quivi: – «Volgiti indietro»; la quarta
quivi: «E giá veniva»; la quinta quivi: «E noi movemmo i piedi».

Dice adunque nella
prima parte cosí: «Quel color, che viltá», cioè la palidezza,
«di fuor», cioè nel viso, «mi pinse, Veggendo il duca mio tornare
in volta». Estimava l’autore che i demòni, per le parole di
Virgilio, dovessono liberamente dar loro l’entrata, sí come gli
aveano i demòni superiori lasciati scendere giú per quelle medesime
parole; ma, poi che vide Virgilio aver parlato invano e senza alcuno
effetto, quasí come vinto tornare in volta, invilí l’autore,
temendo non gli convenisse tornare indietro. E quando il cuore per
alcuna passione invilisce, ogni vigore esteriore ricorre a lui, e
perciò conviene che quelle cotali parti esteriori rimangano palide;
la qual palidezza vuole l’autor mostrare qui essere stata cagione di
ristrigner dentro il colore acceso, il quale Virgilio oltre all’usato
avea nel viso, per la turbazion presa: è questo, accioché il suo
sembiante turbato non fosse cagione all’autore di temere piú che
bisogno non era. E però dice: «Piú tosto», che fatto non avrebbe,
«dentro», da , «il suo nuovo», cioè nuovamente venuto per la
turbazion presa, «ristrinse», mostrandosi meno turbato che non era.

E quinci segue, e
discrive un atto di Virgilio, nel quale Virgilio, ancora in conforto
dell’autore, si sforza di dimostrare d’aspettare che venga chi’l
faccia venire al di sopra della sua impresa, e dice: «Attento si
fermò, com’uom ch’ascolta»; nelle quali parole si può comprendere
Virgilio dovere immaginare quivi non dover venire il divino aiuto
senza farsi alquanto sentir di lontano; e perciò si mise, oltre a
questo, ad ascoltare, per «Che l’occhio nol potea menare a lungo»,
discernendo; e discrive la cagione: «Per l’aer nero», cioè
tenebroso, per lo non esservi alcuna luce, percioché l’aere di sua
natura non è d’alcun colore comprensibile dagli occhi nostri, «e
per la nebbia folta», cioè spessa, la qual surgeva del padule.

E
cosí attendendo, cominciò a dire: – «Pure a noi converrá vincer
la punga» – d’entrar nella cittá,
«Cominciò el», poi che fermato si fu ad ascoltare: – «se…
non… tal ne s’offerse». E qui lascia Virgilio le sue parole
mozze, cioè senza aver compiuto d’esprimere la sentenza dell’orazion
cominciata, seguendo il costume di coloro, li quali
ardentissimamente, aspettando, disiderano alcuna cosa; li quali,
avendo incominciato a dire alcuna cosa, senza compier di dirla, e
talvolta senza avvedersene, saltano in altre parole, per le quali il
disiderio loro dimostrano. E perciò all’orazione mozza di Virgilio,
soggiugne esso medesimo il disiderio suo, dicendo: «Oh! quanto tarda
a me», cioè al parer mio (percioché a chi molto disidera, non vien
sí prestamente il desiderio suo, che non gli paia che egli indugi
molto), «ch’altri qui giunga» – il quale abbatta l’arroganza de’
dimòni che la porta serrarono, e a lor mal grado quella aprano.
Estimava Virgilio veramente dovere da Dio, per lo cui mandato egli
era in quel viaggio, venire alcuno, per la cui opera egli potessono
entrare nella cittá.

«Io vidi ben, sí
com’el ricoperse Lo ‘ncominciar», cioè le parole cominciate (quando
disse: – «Se… non… tal ne s’offerse» -), «con l’altro che poi
venne» (cioè col dire: – «Oh quanto tarda a me ch’altri qui
giunga!» -), «Che fûr parole alle prime diverse», in quanto non
seguivano a quelle. «Ma nondimen», comeché egli ricoprisse, «paura
il suo dir dienne», cioè il suo non continuato parlare; e mostra
l’autore perché di ciò prendesse paura, dicendo: «Perch’io traeva
la parola tronca» (cioè «se… non… tal ne s’offerse), «Forse»;
dice «forse» perché ancora certezza non aveva di ciò che Virgilio
s’avesse inteso per le parole mozze; «a piggior sentenzia», cioè
intendimento, «ch’e’ non tenne», il parlar mozzo. Estimava per
avventura l’autore Virgilio aver voluto intendere in quelle parole:
«Pure a noi converrá vincer la punga, Se… non… tal ne
s’offerse», che, dove essi vincer la punga non avesser potuto, che
il prencipe dello ‘nferno dovesse punire Carone, Cerbero e Pluto, che
sofferto aveano che essi infino quivi discendessero, e che per questo
turbati contro di loro i detti dimòni non gli dovesson lasciar
tornare a dietro, e cosí convenisse loro quivi rimanere dove erano.
E di questo entrò paura, per quelle parole, all’autore, il quale
credette Virgilio per ciò aver lasciato l’orazion mozza, per non
dargli materia di piú impaurire. Ma questa non era la ‘ntenzion di
Virgilio, sí come poi apparve, anzi era: dove noi non possiam
«vincer la punga» dell’entrar dentro alla cittá, «tal ne
s’offerse», cioè Iddio, di lasciarci quaggiú scendere, che egli
fará sí che, malgrado de’ dimòni, noi passerem dentro; ma per la
ragion di sopra detta non compie’ l’orazione, sí come disideroso di
quello che le sue seguenti parole sonarono. Nondimeno per le parole
dette da Virgilio: «Oh! quanto tarda a me ch’altri qui giunga»,
entrò l’autore in un dubbio, il quale egli muove a Virgilio dicendo:
«In questo fondo
della trista conca», dello ‘nferno, il quale nomina «conca»,
dalla similitudine che hanno alcune conche alla forma essenziale
dello ‘nferno, il quale, come detto è, è ampio di sopra e di sotto
vien ristrignendo; «Discende mai alcun del primo grado», cioè
cerchio, «Che sol per pena ha la speranza cionca?» – Pon qui
l’autore il contenente per la cosa contenuta; percioché il cerchio
non ha alcuna pena egli, ma quegli, che in esso posti sono, hanno
quella pena la quale discrive al cerchio; cioè che essi, come in
quella parte è stato detto, hanno per pena il disiderare senza
speranza, e cosí hanno cionca, cioè mozza e separata da , la
speranza. Ed è questo «cionca» vocabolo lombardo, il quale appo
noi non suona quello che appo loro, percioché noi diremmo d’uno che
molto bevesse: colui «cionca».

«Questa quistion
fec’io», a Virgilio, che detta è; «e quei: – Di rado Incontra», –
cioè avviene, «mi rispose, – che di nui», li quali nel primo
cerchio dimoriamo, «Faccia ‘l cammino alcun pel quale io vado»,
cioè discenda quinci giú. «Ver è, ch’altra fiata quaggiú fui»,
dove noi siamo, «Congiurato», cioè per congiurazion sforzato, «da
quella Eritón cruda», cioè da quella femmina crudele cosí
chiamata, «Che richiamava l’ombre a’ corpi sui», per forza di suoi
incantamenti.

Di
questa Eritón scrive fiere e meravigliose cose Lucano nel sesto suo
libro, dove dice:

Hos
scelerum ritus, haec dirae carmina gentis,

effera
damnarat nimiae pietatis Erictho,


inque novos ritus
pollutam duxerat artem,
ecc.;

dove dice costei essere
stata di Tessaglia, abitatrice di sepolcri, né mai, se non o essendo
il cielo turbato o di notte, essere usa d’uscire in publico;
dimostrando lei maravigliose forze avere intorno alle incantazion de’
demòni e in far tornar l’anime de’ morti ne’ corpi loro, e altre
cose assai; affermando, oltre a ciò, a costei essere andato Sesto
Pompeo, figliuolo di Pompeo magno, per sapere quello che esser
dovesse della cittadina guerra, la quale era tra ‘l padre di lui e
Cesare.

«Di poco», tempo
dinanzi, «era di me», la qual fui e sono l’anima di colui il quale
fu chiamato Virgilio, «la carne nuda» la quale, partendosi, avea
lasciato il corpo ignudo di ; «Ch’ella mi fece», questa Eritón,
per forza de’ suoi incantamenti, «entrar dentro a quel muro», della
cittá di Dite, «Per trarne un spirto del cerchio di Giuda», cioè
della Giudecca, dinominata da Giuda Scariotto.

Vogliono alcuni dire
che Cassio e Bruto, li quali furono de’ congiurati ad uccidere Giulio
Cesare, essendo seguiti da Ottavian Cesare, e dovendo combatter con
lui, andarono, o vero mandarono, a questa Eritón, per sapere quello
che dovesse lor seguire della battaglia; e che allora questa Eritón
costrinse per incantamenti l’anima di Virgilio ad andare a trar
quello spirito, che qui dice, del cerchio di Giuda. Ma ciò non può
esser vero; percioché a quei tempi Virgilio era vivo, e visse poi
molti anni, sí come chiaramente si comprende per Eusebio in
libro Temporum;
e, che istoria questa si fosse, non mi ricorda mai aver né letta né
udita, da quello in fuori che di sopra n’è detto. [Oltre a questo,
non pare a’ santi in alcuna guisa si debba credere che alcuna anima
dannata, e molto meno l’altre, per alcuna forza d’incantamento si
possa trarre d’inferno e rivocare per cagione alcuna in questa vita.
E se forse a questa veritá s’opponesse molte essercene state giá
rivocate per forza d’incantamenti, e tra l’altre quella di Samuel
profeta, il quale quella pitonessa, a’ prieghi di Saul re, gli fece
venire a rispondere di ciò che gl’intervenne, ovvero che intervenir
gli dovea; dico questo essere del tutto falso; percioché i santi
tengono quello non essere stato Samuel, ma alcuno spirito immondo, il
quale per la sapienzia, la quale hanno, e per la destrezza ad essere
in un momento dove vogliono, compose quel corpo aereo, simile a
Samuello, e, entratovi dentro, diede quel risponso, il quale Saul
credette aver da Samuello: e cosí essere di tutti gli altri corpi,
li quali si credono esser corpi stati d’alcuni morti, e che in essi
per forza d’incantamenti sieno rivocate l’anime. E di questa materia,
cioè degl’incantamenti, si dirá alquanto piú stesamente appresso
nel ventesimo canto, dove si chiariranno le spezie de’ vari
indovinamenti, che molti contro al mandato di Dio usano scioccamente
e in loro perdizione.]

«Quell’è il piú
basso luogo», il cerchio dove è Giuda, «e ‘l piú oscuro», in
quanto è piú lontano alla luce, «E il piú lontan dal ciel, che
tutto gira»: percioché alcuna parte non è, che tanto sia lontana
alla circunferenza, quanto è il centro; e il centro della terra, nel
quale è il cerchio dove è Giuda, sí tiene che sia il centro de’
cieli, e cosí i cieli sono da intendere in luogo di circunferenza al
centro della terra, e cosí è il detto centro piú lontano che altra
parte dal cielo. E mostra voglia qui l’autore intender del cielo
empireo, il quale con la sua ampiezza contiene ciascun altro cielo.

«Ben so il cammin;
però ti fa’ sicuro». Vuol qui l’autor mostrare, per questa istoria
da Virgilio raccontata, l’abbia Virgilio voluto mettere in buona e
sicura speranza di , della qual per paura pareva caduto; e, oltre
a questo, accioché l’aspettare ciò che esso Virgilio aspettava, non
paia grave all’autore, e per quello accresca la sua paura, continua
Virgilio il suo ragionamento, dicendo:

«Questa palude», di
Stige, «che ‘l gran puzzo spira», cioè esala: e in questo dimostra
la natura universale de’ paduli, li quali tutti putono per l’acqua,
la quale in essi per lo star ferma si corrompe, e corrotta pute; e
cosí faceva quella, e tanto piú quanto non avea aere scoverto, nel
quale il puzzo si dilatasse e divenisse minore. «Cinge d’intorno la
cittá dolente», cioè Dite, piena di dolore; e dice «d’intorno»,
onde si dee comprendere le mura di questa cittá tanto di circúito
prendere, quanto in quella parte ha di giro la ritonda forma dello
‘nferno, la quale, come piú volte di sopra è detto, è fatta come
un baratro; e cosí stando, può essere intorniata dalla detta
padule, percioché non será il
luogo pendente, ma equale, e cosí vi si può l’acqua del padule
menare intorno.

«U’ non potemo entrare
omai senz’ira», – di coloro li quali contrariare n’hanno voluta
l’entrata.

«E altro disse». Qui
comincia la seconda parte del presente canto, nella quale discrive
come sopra le mura di Dite vedesse le tre furie infernali e udissele
gridare. Dice adunque: «E altro disse», che quello che infino a qui
ho detto, «ma non l’ho a mente», quello che egli dicesse altro. E
pone la cagione perché a mente non l’abbia, la quale è: «Peroché
l’occhio», cioè il senso visivo, «m’avea tutto tratto», cioè
avea tratto l’animo mio, il quale veramente è il tutto dell’uomo;
«Ver’l’alta torre», la quale era in su le mura della cittá di
Dite, «alla cima rovente», di quella torre, la quale dimostra, per
avere ella la cima, cioè la sommitá, rovente, esser tutta dentro
affocata; «Ove», cioè in su la cima, «in un punto furon dritte
ratto», cioè in un momento, «Tre furie infernal, di sangue tinte,
Che membra femminili aveano ed atto», cioè sembiante, «E con idre
verdissime eran cinte».

«Idra» è una spezie
di serpenti li quali usano nell’acqua, e però sono chiamati «idre»
percioché l’acqua in greco è chiamata «ydros»;
e queste non sogliono essere velenose serpi, percioché la freddezza
dell’acqua rattempera l’impeto e il riscaldamento della serpe; nel
quale riscaldamento si suole aprire un ventriculo piccolo, il quale
le serpi hanno sotto il palato, e l’umiditá che di quello esce,
venendo sopra i denti della serpe, è quella che gli fa velenosi. Ma
l’autore pon qui la spezie per lo genere, volendo che per «idra»
s’intenda qualunque velenosissimo serpente.

«Serpentelli e ceraste
avean per crine», cioè per capelli. E sono «ceraste» una spezie
di serpenti, li quali hanno o uno o due cornicelli in capo; e da
questo son dinominati «ceraste», peroché «ceras»
in greco tanto vuol dire quanto «corno» o «corna» in latino;
«Onde», cioè di ceraste, «le fiere tempie», di queste furie,
«erano avvinte», cioè circundate, in quella maniera che talvolta
le femmine si circundano il capo de’ capelli loro.

«E quei», cioè
Virgilio, «che ben conobbe le meschine», cioè le damigelle, «Della
regina», cioè di Proserpina, «dell’eterno pianto», cioè
d’inferno, dove sempre si piagne e sempre si piagnerá; – «Guarda, –
mi disse, – le feroci Erine», cioè le feroci tre furie.

E susseguentemente
gliele nomina, e dice: «Questa è Megera, dal sinistro canto»,
della torre; «Quella che piange dal destro», canto della torre, «è
Aletto», cioè quella furia cosí chiamata; «Tesifone», la terza
furia,«è nel mezzo» – delle due nominate di sopra; «e tacque a
tanto», cioè poi che nominate me l’ebbe e fattelemi conoscere.

«Con l’unghie si
fendea», cioè si graffiava, «ciascuna il petto; Batteansi a
palme», come qui fanno le femmine che gran dolor sentono o mostran
di sentire, «e gridavan sí alto, Ch’io mi strinsi», temendo, «al
poeta per sospetto».

E quello, che esse
gridavano, era: – «Venga Medusa», quella femmina la quale i poeti
chiamano Gorgone, «e sí ‘l farem di smalto», – cioè di pietra. È
lo smalto, il quale oggi ne’ pavimenti delle chiese piú che altrove
s’usa, calcina e pietra cotta, cioè mattone, e pietre vive mescolate
e solidate con molto batterle insieme, quasi non men duro che sia la
pietra. «Dicevan tutte e tre gridando in giuso», o nella padule, o
verso lui; – «Mal non vengiammo in Teseo l’assalto», il
qual ne fe’, quando venne insieme con Peritoo per volere rapire
Proserpina. E dicono aver mal fatto a non vengiarlo, percioché,
se vengiato l’avessono, non si sarebbe poi alcun messo ad andare in
inferno per alcun lor danno; e cosí mostrano gridare e dire queste
parole per l’autore, il quale quivi vedevano vivo volere entrar
nella cittá loro.

Ma chi sieno queste
furie, chi sia Medusa, e che facesse Teseo, del quale si dolgono non
aver vengiato l’assalto, si discriverá pienamente dove il senso
allegorico si racconterá; fuor che di Teseo, il senso della cui
favola non ha a fare con la presente materia, e però di lui qui
diremo. Teseo fu figliuolo d’Egeo, re d’Atene, giovane di
maravigliosa virtú, e fu singularmente amico di Peritoo, figliuolo
d’Issione, signore de’ lapiti in Tessaglia; ed essendo amenduni senza
moglie, si disposero di non tôrne alcuna, se figliuola di Giove non
fosse. Ed essendo giá Teseo andato in Oebalia, e quivi rapita Elena, ancora
piccola fanciulla, non sapendosene in terra alcuna altra, se non
Proserpina, moglie di Plutone, iddio dell’inferno, a dovere rapir
questa scese con Peritoo in inferno; e, tentando di rapir Proserpina,
secondo che alcuni scrivono, Peritoo fu strangolato da Cerbero, cane
di Plutone, e Teseo fu ritenuto. Altri dicono che Peritoo fu lasciato
da Plutone, per amore d’Issione, suo padre, il quale era stato amico
di Plutone; ed essendo in sua libertá, e sentendo che Ercule tornava
vittorioso di Spagna con la preda tolta a Gerione, gli si fece
incontro e dissegli lo stato di Teseo; per la qual cosa tantosto
Ercule scese in inferno e liberò Teseo. E, percioché Cerbero avea
fieramente morso Carone, perché Carone aveva nella sua nave passato
Ercule, la cui venuta Cerbero s’ingegnava d’impedire; fu Cerbero da
Ercule preso per la barba, e da lui gli fu tutta strappata; e, oltre
a ciò, incatenato, ne fu menato quassú nel mondo da Teseo liberato
da Ercule.

«Volgiti indietro»,
ecc. Qui comincia la terza parte di questo canto, nella quale, poi
che l’autore ha dimostrato il romor fatto dalle furie, e l’essere
stata da loro chiamata Medusa, pone l’autore la venuta di lei, e
come gli occhi gli fossero da Virgilio turati, accioché non la
vedesse. Dice adunque: – «Volgiti indietro», accioché tu non
guardi verso le mura della cittá; e, oltre a ciò, «e tieni il
viso chiuso»; pon qui il tutto per la parte, in quanto, volendo
Virgilio che egli si chiudesse gli occhi, disse: – Tieni chiuso il
viso, – e dicegli la cagion perché: «Ché se ‘l Gorgon», cioè
Medusa chiamata da queste furie, «si mostra» (dove esso si debba
mostrare nol dice), «e tu ‘l vedessi. Nulla sarebbe del tornar mai
suso», – nel mondo, percioché subitamente diventeresti sasso, e
cosí non potresti tornare né partirti di qui.

«Cosí disse ‘l
maestro», come detto è, «ed egli stessi Mi volse», indietro, «e
non si tenne», cioè non si affidò, «alle mie mani», che io con
esse ben mi chiudessi, «Che con le sue ancor non mi chiudessi»,
accioché io per niuna cagione potessi vedere il Gorgone. Puossi per
le prescritte parole comprendere che il Gorgone si mostrasse, dove
che si mostrasse, o vero che Virgilio suspicasse non si mostrasse,
essendo stato dalle furie chiamato, e perciò avere cosí chiuso il
viso all’autore; e, se si mostrò, che egli insieme con le tre furie
subitamente sparisse, sentendo venir quello che appresso si scrive
che venne.

«O voi, ch’avete
gl’intelletti sani». Apostrofa qui l’autore, e, lasciata la
principal materia, interpone, parlando a coloro li quali hanno
discrezione e senno, e dice loro: «Mirate alla dottrina, che
s’asconde Sotto ‘l velame degli versi strani», la quale per certo è
grande e utile; e dove il senso allegorico si racconterá di questo
canto, apparirá manifestamente. [E fanno queste parole dirittamente
contro ad alcuni, li quali, non intendendo le cose nascoste sotto il
velame di questi versi, non vogliono che l’autore abbia alcuna altra
cosa intesa se non quello che semplicemente suona il senso litterale;
li quali per queste parole possono manifestamente comprendere
l’autore avere inteso altro che quello che per la corteccia si
comprende.] E chiama l’autore questi suoi versi «strani», in quanto
mai per alcuno davanti a lui non era stata composta alcuna fizione
sotto versi volgari, ma sempre sotto litterali, e però paiono
strani, in quanto disusati a cosí fatto stile.

[Lez.
XXXVI]

«E giá venía». Qui
rientra l’autore nella materia principale, e comincia qui la quarta
parte di questo canto, nella quale discrive l’autore la venuta d’un
angelo, per opera del quale scrive essere stata la porta della cittá
aperta, e dice cosí: «E giá venía», avendomi egli chiusi gli
occhi, «su per le torbid’onde», di Stige, «Un fracasso», cioè un
rompimento, «d’un suon pien di spavento, Per cui tremavano amendue
le sponde», della padule. Ed era questo fracasso, «Non altrimenti
fatto, che d’un vento, Impetuoso» [da , come è il turbo o la
bufera, de’ quali è detto di sopra, dove vi dimostrai, secondo
Aristotile, come questi venti impetuosi si generano, li quali vi
dissi essere due, cioè typhon
e enephias,
e però qui reiterare non bisogna. Ed era questo vento sonoro] «per
gli avversi ardori», cioè vapori o esalazioni, li quali surgono
della terra; [li quali chiama «ardori», percioché son caldi e
secchi; e se cosí non fossero, non farebbon suono. Ma era questo
suono in tanto pieno di spavento, in quanto si movea velocissimo con
l’impeto del vento] «Che fier», questo vento, «la selva», alla
quale s’abbatte [le cui frondi percosse il fanno ancora piú sonoro,]
«e senza alcun rattento», [e,
oltre a ciò] per la forza del suo impeto, «li rami», degli alberi
della selva, «schianta, abbatte e porta fuori» della selva
talvolta. E, oltre a questo, «Dinanzi», cioè in quella parte che
precede, «polveroso va superbo», cioè rilevato, «E fa fuggir le
fiere», che nella selva sono, «e li pastori» con le lor greggi.

«Gli occhi mi
sciolse», dalla chiusura delle sue mani, «e disse: – Drizza il
nerbo Del viso», cioè il vigore del senso visivo, «su per quella
fiamma antica». Qual questa fiamma si fosse, per la quale egli gli
dimostra inverso qual parte riguardar debba, o alcuna di quelle che
all’entrar della nave di Flegiás vide, o altra, non si può assai
chiaramente comprendere. Creder’io che ella fosse alcuna fiamma usa
continuo d’essere in quel luogo nel quale allora era; e questo credo,
percioché egli la chiama «antica», forse a differenza di quelle
delle quali dissi che nuovamente eran fatte. «Per indi onde quel
fummo è piú acerbo», – cioè piú folto, sí come nuovamente
prodotto.

«Come le rane». Qui
dimostra l’autore, per una brieve comparazione, quello che, guardando
in quella parte, la quale Virgilio gli dimostrava, facessero l’anime
de’ dannati che quivi erano, e dice che «Come le rane innanzi alla
nimica Biscia per l’acqua si dileguan tutte», fuggendo, «Fin
ch’alla terra ciascuna s’abbica», cioè s’ammonzicchia l’una sopra
l’altra, ficcandosi nel loto del fondo dell’acqua, nella qual
dimorano. Dice qui l’autore la «nimica biscia», usando questo
vocabol generale quasi di tutte le serpi, per quello della idra, la
quale è quella serpe che sta nell’acqua, e che inimica le rane, sí
come quella che di loro si pasce. «Vid’io piú di mille anime»,
cioè infinite, «distrutte», perdute, «Fuggir cosí», come le
rane ha mostrato che fuggono, «dinanzi ad un» (nol nomina,
percioché ancora nol conosceva, ma si vedea), «ch’al passo», di
Stige, dove esso era passato nella nave di Flegias, «Passava Stige
con le piante asciutte», cioè senza immollarsi i piedi.

E poi segue: «Dal
volto rimovea quell’aer grasso», per li fummi e per le nebbie che
v’erano, le quali hanno a far l’aere grosso e spesso, «Menando la
sinistra» mano, percioché nella destra portava una verga, sí come
appresso si comprende; «innanzi», da , «spesso». E in questo
dimostra l’autore quello aer grosso dovergli essere assai noioso; e
ciò non ci dee parer meraviglia, considerando chi egli era, e onde
venía. «E sol di quell’angoscia parea lasso», stanco e vinto.

«Ben m’accors’io
ch’egli era da ciel messo». E di questo s’accorse quando gli fu piú
vicino, presumendolo ancora per l’anime de’ dannati, che, nel venir
suo, fuggendo si nascondevano, sí come quelle che temevano di
maggior pena, o che avevano in orrore di riguardarlo sí come nemico;
o ancora per lo fracasso, il quale davanti a lui avea sentito venire,
per lo qual poté conoscere tutto lo ‘nferno commuoversi alla venuta
d’un messo di Dio. E, perché egli conobbe questo, dice: «E volsimi
al maestro», per sapere quello che io dovessi fare, appressandosi
questo messo da cielo; «e quei», cioè il maestro, «fe’ segno», a
me, «Ch’io stessi cheto», passando egli, «ed inchinassi ad esso»,
facendogli reverenza.

«Ahi quanto mi parea
pien di disdegno!» nello aspetto suo. E questo meritamente,
percioché, come creatura perfetta e beata, non poteva far senza
sdegnare ciò che i demòni contro alla volontá di Dio attentavano.
[E qui assai manifestamente si può comprendere l’uomo potersi senza
peccare adirare, poiché l’angelo di Dio, il quale peccar non puote,
era commosso.]

«Giunse alla porta»,
serrata, «e con una verghetta», la quale nella destra man portava,
per la quale si disegna l’uficio del messo e l’autoritá di colui che
‘l manda. [E, secondo che i santi vogliono, questo uficio commette
Iddio a qualunque s’è di quelle gerarchie celesti, fuorché a’
cherubini non si legge essere stato commesso: e mentre che quello
beato spirito è nell’esercizio dell’uficio commesso, si chiama
«angelo»; percioché «angelo» si dice da «aggelos»
graece,
che in latino viene a dire «messaggiere»; poi, fornita la
commessione, non si chiama piú «angelo», ma reassume il suo nome
principale, cioè «vertú», o «potestá», o «troni» o qual
altro s’abbia.]


«L’aperse, che non
ebbe alcun ritegno». In questo si mostra la potenzia di Dio, la
quale, non che aprire una porta, quantunque forte, col percuoterla
con una verghetta, ma con un picciol cenno può commuovere tutto il
mondo.

«O
cacciáti». Qui pone l’autore le parole dette dall’angelo a’ nimici
di Dio, li quali si dee credere che quivi presenti non erano, sí
come quegli che per paura, sentendo la venuta di questo angelo,
s’erano fuggiti e dileguati: ma non potevano in quella parte essere
andati, che bene non udissono e intendessono ciò che questo angelo
diceva contro a loro. Dice adunque: – «O cacciáti dal ciel» per
la lor superbia, «gente dispetta», – cioè avuta in dispetto da
Dio, «Cominciò egli in su l’orribil soglia», della porta la quale
era aperta, – «Onde», cioè da qual autoritá, «esta
oltracotanza», di non aver riguardo a quello che voi fate, «in voi
s’alletta?», cioè si chiama e si ritiene. «Perché ricalcitrate»,
col perverso vostro adoperare, «a quella voglia», di Dio, «A cui
non puote il fin mai esser mozzo»; per ciò non può esser «mozzo»,
cioè terminato, perché ad esso non si può pervenire,
conciosiacosaché Iddio sia infinito; «E che piú volte v’ha
cresciuta doglia?», rilegandogli nell’aere tenebroso, nel profondo
dello ‘nferno, sí come è rilegato il Lucifero, il quale, perché
volesse, non si può muover quindi. «Che giova», a voi o ad
altrui, «nelle fate dar di cozzo?»

Altra volta è stato
detto di sopra il «fato» doversi intendere la divina disposizione,
contro alla quale volere adoperare non è altro se non voler cozzare
col muro, ché si rompe l’uomo la testa, e ‘l muro non si muove. [Né
è però da credere che Domeneddio col suo provedere ponga necessitá
ad alcuno, come pienamente si tratterá nel decimosettimo canto del
Paradiso.
Ma, percioché qui, poeticamente parlando, l’autore dice «fate» in
plurali, è da sapere, secondo che i poeti scrivono, che queste fate
son tre, delle quali la prima è nominata Cloto, la seconda Lachesis,
la terza Atropos; e, secondo che dice Teodonzio, elle furon figliuole
di Demogorgone e di Caos. (Vuolsi qui recitare la favola di Pronapide
dell’origine di queste fate, e la sposizion di quella). Ma Tullio, il
quale le chiama Parche, in
libro De natura deorum,
scrive queste essere state figliuole d’Erebo e della Notte; ma io
m’accosto piú con l’opinione di Teodonzio, il quale vuole queste
esser create insieme con la natura naturata, il che par piú conforme
alla veritá. Queste medesime nel preallegato libro chiama Tullio
«fato», quel medesimo dicendo essere stato figliuolo d’Erebo e
della Notte. Seneca, in una epistola a Lucillo, le chiama «fate»,
dicendo nondimeno quello che scrive essere stato detto d’un filosofo
chiamato Cleante, il qual dice: «i fati (o le fate), menano chi
vuole andare, e chi non vuole andare tirano». Ma questa è malvagia
sentenza e da non credere, percioché, se cosí fosse, noi saremmo
senza il libero arbitrio; il che è falso. E questa medesima sentenza
par molto piú apertamente sentire Seneca tragedo, in quella tragedia
la quale è intitolata Edipo,
dove dice:

Fatis
agimur, credite Fatis:

non
sollicitae possunt curae

mutare
rati stamina fusi.

Quidquid
patimur mortale genus,

quidquid
facimus, venit ex alto,

servatque
sua decreta colus

Lachesis.
Dura revoluta manu,

omnia
certo tramite vadunt,

primusque
dies dedit extremum.

Non
illa deo vertisse licet,

quae
nexa suis currunt causis.


It cuique ratus,
prece non ulla

mobilis,
ordo; multis ipsum

timuisse
nocet: multi ad fatum

venere
suum, dum Fata timent, ecc.

E
questo medesimo mostra Ovidio d’aver sentito nel suo maggior volume,
dove introduce Giove
cosí parlante a Venere:

…tu
sola insuperabile Fatum,

nata,
movere putas? Intres licet ipsa sororum

tecta
trium: cernes illic molimine vasto

ex
aere, et solido rerum tabularia ferro:

quae neque concursum
caeli, neque fulminis iram, nec metuunt ullas, tuta atque aeterna,
ruinas. Invenies illic incisa adamante perenni Fata tui generis,
ecc.

Nelle quali autoritá
predette si può manifestamente comprendere queste tre sirocchie
chiamarsi «fate» e «fato». E ch’elle sieno state da’ poeti
nominate tre, credo essere addivenuto piú per mostrare la diversitá
delle operazioni del fato che per intendere che piú che un fato sia.
Scrivono, oltre a questo, queste tre fate essere state attribuite al
servigio d’un iddio, chiamato Pan. È vero che Fulgenzio dice, nelle
sue Mitologie,
queste essere attribuite al servigio di Plutone, iddio dello ‘nferno,
e questo, credo, accioché noi sentiamo l’opere di queste solamente
intorno alle cose terrene esercitarsi, secondo una significazion di
quelle.]

[E dice il predetto
Fulgenzio che la interpetrazione di questo nome Cloto è tanto a dire
quanto «evocazione»; percioché a questa fata s’appartiene dare ad
ogni seme, nel debito luogo gittato, accrescimento, tanto che esso
sia atto a dover venire in luce. E, come esso medesimo dice, Lachesis
vien tanto a dire quanto «pertrazione» o vero «sorte»; percioché
quello, che Cloto ha composto e chiamato fuori in luce, Lachesis l’ha
a ricevere e trarlo avanti nella vita. Atropos è detta ab «a»,
quod
est
«sine»,
e «tropos»,
quod
est
«conversio»,
cioè «senza conversione»; percioché ogni cosa, la quale nasce,
incontanente che ella è pervenuta al termine postole, è di
necessitá che ella caggia nelle mani della morte, dalla quale per
opera naturale niuna conversione è indietro. E Apuleio madaurense,
filosofo di non piccola autoritá, del significato de’ nomi e
dell’opere di queste tre fate, in quel libro il quale egli compose e
chiama Cosmografia, scrive cosí: «Etiam
tria Fata
sunt,
numero cum ratione temporis faciente, si potestatem eorum ad eiusdem
similitudinem temporis referas: nam quod in fuso perfectum est,
praeteriti temporis habet speciem; et quod torquetur in digitis,
momenti praesentis indicat spatia; et quod nondum ex colo tractum est
subactumque curae digitorum, id futuri et consequentis saeculi
posteriora videtur ostendere. Haec illis conditio ex nominum eorumdem
proprietate contingit: ut sit Atropos praeteriti temporis fatum, quod
ne Deus quidem faciet infectum; futuri temporis Lachesis, a fine
cognominata, quod et illis, quae futura sunt, finem suum Deus
dederit; Clotho praesentis temporis habet curam, ut ipsis actionibus
suadeat, ne cura solers rebus omnibus desit»,
ecc. Son di quegli che vogliono che
Lachesis,
come altra volta è detto, sia quella cosa la qual noi chiamiam
«fortuna», e da lei essere ogni cosa, la quale a’ mortali avviene,
guidata e menata.]


[Ma, percioché della
favola non s’avrebbe quello che per bisogno fa, se il senso
allegorico non si ponesse, verrò a quello. Altra volta è stato
mostrato il causato potersi dir figliuolo del causante; e, peroché
queste fate sono dalla divina mente causate, dir si possono figliuole
di Dio, comeché Demogorgone, di cui Teodonzio dice che figliuole
sono, non sia quello iddio del quale io intendo, quantunque, secondo
la vana opinione e dannevole d’alcuni antichi, fosse iddio padre di
tutti gli altri iddii. E che esse fossero figliuole d’Erebo e della
Notte, come a Tullio piace, si dee cosí intendere. È Erebo, come
altra volta è detto, secondo la veritá, un luogo della terra
profondissimo e nascoso, la qual profonditá è qui da intendere la
profonditá della divina mente, la quale è tanta e sí nascosa, che
occhio mortale non può ad essa trapassare; e conciosiacosaché la
divina mente, sí come se medesima vedente e intendente quello che
far dovea, e quindi queste tre fate con la natura delle cose
attualmente producesse: assai bene possiam dire loro esser nate del
profondissimo e segreto luogo della divina mente. Che esse fossero
figliuole della Notte, si può dire cosí essere quanto è a noi:
percioché ciascuna cosa, alla quale l’acume del nostro vedere non
può trapassare, diciamo essere oscura e simile alla notte; e cosí
non potendo trapassare dentro alle segrete cose del divino
intelletto, essendo offuscati dalla mortal caligine, quantunque esse
in sieno splendidissime, a quelle attribuiamo il vizio della
debolezza del nostro intelletto, e chiamiamo notte quella cosa che è
chiarissimo dí: e cosí queste fate, da noi non intese, diciamo
essere state figliuole della Notte.]

[Sono, oltre a’ propri
nomi, chiamate queste fate da Tullio Parche; e credo le chiami cosí
per contrario, percioché esse non perdonano ad alcuno. «Fato» o
«fate» son nominate da «for
faris»,
il quale sta per parlare; e questo è, percioché pare ciò che
avviene essere stato prima parlato, prevedendo, da Dio. Il che pare
che santo Agostino senta nel libro De
civitate Dei:
ma, come altra volta è detto, pare che egli abbia in orrore il
vocabolo, ammonendone che se alcuno la volontá di Dio o la podestá
chiami fato, che esso tenga la sentenza, ma rifreni la lingua in non
nominarlo cosí. E questo al presente basti aver detto delle fate.]

Séguita adunque,
continuando le parole dell’angelo, l’autore: – «Cerbero vostro, se
ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e ‘l gozzo». – Perché
questo avvenisse è mostrato di sopra, dove di Teseo si ragionò.

«Poi», che queste
parole ebbe dette, «si rivolse», l’angelo, «per la strada lorda»,
del padule di Stige, «E non fe’ motto a noi», percioché l’uno era
dannato, e l’altro non era ancora in tanta grazia di Dio, che
meritasse o saluto o altro dall’angelo. E se forse dicesse alcuno:
esso parlò verso i diavoli, come non poteva egli far motto a
costoro, che erano assai men colpevoli? Puossi cosí rispondere: esso
aver parlato a’ diavoli in loro confusione e danno; il che costoro
non meritavano, percioché non avean commesso quello che i demòni.
«Ma fe’ sembiante D’uomo, cui altra cura stringe e morda, Che quella
di colui che gli è davante»: e cosí trapassò oltre.

«E noi movemmo». Qui
comincia la quinta e ultima parte di questo canto, nella quale
l’autor pone come nella cittá entrassono, e quivi vedessono in arche
affocate punire gli eresiarci. Dice adunque: «E noi movemmo i piedi
inver’la terra», cioè verso Dite, «Sicuri appresso le parole
sante», dette dall’angelo contro a que’ demòni che contrastavano,
le quali quanto a noi furono sonore, ma quanto a color, contro a’
quali furon dette, furon dolorose e piene d’amaritudine. «Dentro
v’entrammo»; e cosí del quinto cerchio, qui discende l’autore nel
sesto, quantunque alcuna piú aperta menzion non ne faccia; «senza
alcuna guerra», cioè senza alcuno impedimento o contrasto.

«Ed io, ch’avea di
riguardar disio», sí come universalmente abbiam tutti di veder cose
nuove, «La condizion», de’ peccatori, «che tal fortezza serra»;
percioché aveva, come di sopra è mostrato, le mura di ferro, ed era
guardata da tanti demòni, quanti in su la porta trovarono, e ancora
dalle tre furie; «Com’io fu’ dentro, l’occhio intorno invio», sí
come investigatore delle cose che da vedere e da notar vi fossono; «E
veggio ad ogni man», a destra e a sinistra, «grande campagna»,
cioè grandi spazi in forma di campagna, «Piena di duolo e di
tormento rio». [Dice «rio» essere il tormento de’ dannati, per
rispetto a quello che la giustizia di Dio dá a coloro li quali de’
loro peccati si purgano; e percioché amenduni
cocentissimi sieno, quello de’ dannati sará eterno, dove quello di
coloro che si purgano avrá alcuna volta fine.]

E come questa campagna
sia fatta, il mostra per due comparazioni, dicendo primieramente esse
campagne esser fatte «Sí come ad Arli». Arli è una cittá antica
in su il Rodano in Provenza, assai vicina alla foce del mare, cioè
lá dove il Rodano mette in mare, «ove il Rodano stagna». È il
Rodano un grandissimo fiume il quale esce, secondo che Pomponio Mela
nel secondo libro della sua Cosmografia
scrive, di quella medesima montagna della quale escono il Danubio e
‘l Reno, né è la sua origine guari lontana a quella de’ predetti
due; e quindi ne viene in un lago chiamato Lemanno, volgarmente detto
Losanna, nel quale alquanto raffrena l’impeto suo; e nondimeno quale
egli entra in questo lago, tale se n’esce, cioè di quella grandezza,
e quindi per alcuno spazio corre verso occidente, dividendo l’una
Gallia dall’altra; e poi, rivolto il corso verso mezzodí, e ricevuto
Arari, e ancora Isara e Durenza, correntissimi fiumi, e altri assai,
e divenuto grandissimo, corre intra popoli anticamente chiamati i
volchi e’ cavari; oltre a’ quali sono gli stagni de’ volchi, e un
fiume secondo l’antico nome chiamato Ledu, e un castello chiamato
Letara; e quindi diviso mette in mare. E, secondo che scrive Plinio
nel libro terzo De
historia naturali,
nella sua foce fu una terra chiamata Eraclea, oltre alla fossa fatta
del Rodano cento passi, da Mario fatta, e quivi essere un
ragguardevole stagno, per lo quale l’autor dice: «ove ‘l Rodano
stagna», cioè fa il predetto stagno; ed estimo io Arli essere
quella terra la qual Plinio dice si chiamava Eraclea.

E, oltre a ciò,
soggiugne l’autore la comparazion seconda, dicendo: «Sí com’a
Pola». Pola è una cittá in Istria, la quale, secondo che Giustino
dice, fece Medea moglie di Giasone, capitata quivi con lui quando di
Colcos veniva, e abitolla di colchi. Il come quivi capitasse, venendo
nel mar maggiore, e volendo venire in Tessaglia, sarebbe lunga
istoria, e però la lascio. «Presso del Quarnaro, Ch’Italia chiude,
e suoi termini bagna». È il Quarnaro un seno di mare, il qual nasce
del mare Adriano, e va verso tramontana, e quivi divide Italia dalla
Schiavonia; e chiamasi Quarnaro da’ popoli li quali sopr’esso
abitarono, che si chiamarono Carnares.
«Fanno i sepolcri», li quali in quel luogo sono, «tutto ‘l loco
varo», cioè incamerellato, come veggiamo sono le fodere de’ vai, il
bianco delle quali, quasi in quadro, è attorniato dal vaio grigio,
il quale vi si lascia accioché altra fodera che di vaio creduta non
fosse da chi la vedesse. È il vero che ad Arli, alquanto fuori della
cittá, sono molte arche di pietra, fatte ab antico per sepolture, e
quale è grande e quale è piccola, e quale è meglio lavorata e qual
non cosí bene, per avventura secondo la possibilitá di coloro li
quali fare le fecero; e appaiono in alcune d’esse alcune scritture
secondo il costume antico, credo a dimostrazione di chi dentro v’era
seppellito. Di queste dicono i paesani una lor favola, affermando in
quel luogo essere giá stata una gran battaglia tra Guiglielmo
d’Oringa e sua gente d’una parte, o vero d’altro prencipe cristiano,
e barbari infedeli venuti d’Affrica; ed essere stati uccisi molti
cristiani in essa; e che poi la notte seguente, per divino miracolo,
essere state quivi quelle arche recate per sepoltura de’ cristiani, e
cosí la mattina vegnente tutti i cristiani morti essere stati
seppelliti in esse. La qual cosa, quantunque possa essere stata, cioè
che l’arche quivi per li morti cristiani recate fossero, io nol
credo. Credo bene essere a Dio possibile ciò che gli piace, e che
forse quivi fosse una battaglia, e che i cristiani morti fossero
seppelliti in quelle arche: ma io credo che quelle arche fossero
molto tempo davanti fatte da’ paesani per loro sepolture, come in
assai parti del mondo se ne truovano; e quello che di questo credo,
quel medesimo credo di quelle che si dice sono a Pola.

Dice adunque l’autore,
continuandosi al primo detto, che come ad Arli e a Pola la
moltitudine delle sepolture fanno il luogo varo, «Cosí facevan
quivi d’ogni parte», cioè a destra e a sinistra, «Salvo», cioè
eccetto, «che ‘l modo v’era piú amaro», qui, che ad Arli o a Pola.

E poi discrive come piú
amaro v’era il modo, dicendo: «Che tra gli avelli», cioè tra le
sepolture le quali quivi erano, chiamate in fiorentin volgare
«avelli»; e credo vegna questo vocabolo da «evello
evellis»,
percioché la terra s’evelle del luogo dove l’uom vuole seppellire
alcun corpo morto; «fiamme erano sparte, Per le quali eran sí del
tutto accesi», quegli avelli, «Che ferro piú»,


acceso, cioè rovente,
«non chiede verun’arte», la quale di ferro lavori, il quale
lavorare non si può né riducere in quella forma la quale altri
vuole, se egli non è molto rovente. «Tutti li lor coperchi», di
quelle arche, «eran sospesi», cioè levati in alto, «E fuor
n’uscivan sí duri lamenti», per lo grieve martiro fatti da’ miseri
che dentro vi giaceano, «Che ben parean di miseri e d’offesi».

E però l’autore si
mosse a domandar Virgilio, dicendo: «Ed io: – Maestro, quai son
quelle genti, Che seppellite dentro da quell’arche», cioè affocate,
«Si fan sentir con gli sospir dolenti.»? – la qual cosa dice
l’autore, percioché veder non si lasciano, e non si possono.

[Lez.
XXXVII]

«Ed egli a me: – Qui
son gli eresiarche». «Eresiarche» si chiamano i prencipi
dell’eretica pravitá, e dicesi questo nome ab
«haeresis»
et
«arce»,
quod
est
«princeps»,
quasi «principe d’eresi». «Eresi», secondo che dice Papia, son
quegli li quali di Dio o delle creature o di Cristo e della chiesa
diversamente sentono; e cosí, avendo conceputa alcuna perfidia di
nuovo errore, quella pertinacissimamente difendono. E di questi dopo
la resurrezione di Cristo furon molti che diversamente opinarono, e
perversamente credettero e insegnarono. E per quello che appaia in un
libretto il quale sant’Agostino scrive Degli
eresiarci,
e delle qualitá de’ loro errori, mostra che infino a’ tempi suoi ne
fossero novantaquattro, cioè prencipi d’eresie, li quali tutti
diversamente l’uno dall’altro errarono, ed ebbero uditori e fautori
della loro eresia: tra’ quali egli annovera Simon mago, Macedonio,
Manicheo, Arrio, Nestoriano, Celestino e altri assai, li quali
l’autore qui dice esser puniti. E mostra ancora l’autor sentire esser
con questi, che dopo la resurrezion di Cristo furono, certi filosofi
gentili, comeché di quegli non nomini che Epicuro solo; e dice non
solamente costoro quivi esser puniti, ma esservi «Co’ lor seguaci»,
ed esservi «d’ogni setta» d’eretici. E chiamale «sètte», il qual
nome viene da «seco
secas»,
il qual vuol dire «dividere»; percioché essi primieramente son
divisi dalla cattolica fede, e poi son divisi infra , sí come
coloro li quali niuno crede quello che l’altro. E poi segue: «e
molto Piú che non credi son le tombe carche», cioè piene;
percioché stati ne sono di quegli che hanno avuto grandissimo
séguito, e tra gli altri Arrio, il cui errore tenne molti imperadori
e altri principi e popoli, in tanto che quasi non eran piú cristiani
cattolici che fossero gli arriani: e durò lungo tempo questa
perfidia.

«Simile qui con simile
è sepolto»: e cosí pare che i seguaci sieno in una medesima arca
col prencipe loro.

«E’ monimenti», cioè
le sepolture. Le quali per molti nomi chiamate sono; e averne alcuna
volta fatta menzione in ammaestramento di coloro che nol sanno, non
sará altro che utile. E qui viene in destro, perché in luogo di
supplicio son date agli eretici. Chiamale adunque in questo canto
l’autore: «sepolcri», «avelli», «arche», «tombe»,
«monimenti»; nominansi ancora: «locelli», «tumuli», «sarcofagi»
e «mausolei», «busti», «urne». Chiamasi adunque «sepolcro»,
quasi «seorsum
a pulchro»,
percioché è da cosa bella separato, conciosiacosaché i corpi
corrotti, li quali in essi sono, siano turpissima cosa a vedere.
Perché «avello» si chiami, è detto davanti. Chiamasi «arca»,
percioché assai, essendo di pietra e di marmo, hanno quella forma
che hanno l’arche del legno, nelle quali molti conservano il grano e
le cose loro; ed è detta questa «arca», percioché ella ha a
rimuovere il vedere delle cose che dentro vi sono, o il ladro da
poterle tôrre, e di quinci viene «arcano», la cosa segreta.
Chiamansi «tombe», percioché, essendo sotterra luoghi concavi, par
che risuonino o rimbombino; e perciò si dice «tumba»,
quasi «tumulus
bombans»,
cioè cosa rilevata che rimbombi. Chiamasi «monimento», percioché
«ammoniscono» la mente de’ riguardanti, recando loro a memoria la
morte o il nome di colui che in esso è seppellito. Chiamasi ancora
«locello», quasi «piccol luogo», per rispetto del grande, il
quale vivi vogliamo occupare e occupiamo, e poi, morti, in
picciolissimo luogo capiamo. Chiamasi «tumulo», quasi «terra
gonfiata e rilevata», sí come talvolta veggiamo sopra i corpi che
nuovamente sono seppelliti in terra; e, oltre a ciò, solevano gli
antichi fare sopra i corpi de’ nobili uomini alcuno edificio alquanto
rilevato, il quale avesse a dimostrare il luogo dove quel cotale
fosse stato seppellito; de’ quali noi veggiamo ancora oggi per lo
mondo assai. Chiamasi «sarcofago», percioché in esso si consuma la
carne di chi v’è dentro seppellito, e
dicesi da «sarca»,
graece,
che tanto vuol dire quanto «carne», e «paghos»,
che tanto vuol dire quanto «mangiare»; e in essi i vermini mangiano
la carne del seppellito. Chiamansi ancora «mausolei», e questa è
nobile spezie di sepolcri, sí come son quegli de’ re e de’ gran
principi; e chiamansi cosí da Mausolo, re di Caria, al quale, morto,
Artemisia reina, sua moglie, fece una mirabile sepoltura. La quale,
secondo che l’antiche storie testimoniano, fu di spesa e di grandezza
e d’artificio maravigliosa; percioché Artemisia, ogni femminile
avarizia posta giú, fece chiamare a i quattro maggiori maestri
d’intaglio e di edificare che al mondo avesse a’ suoi tempi, i nomi
de’ quali furono Scopas, Bryaxes, Timoteo e Leochares; e fuori
d’Alicarnasso, sua real cittá, comandò loro che ordinassero, senza
avere riguardo ad alcuna spesa, il piú nobile e il piú magnifico
sepolcro che far si potesse. Li quali, preso uno spazio quadro, la
cui lunghezza fu sessantatré piedi, la larghezza non fu tanta,
l’altezza fu centoquaranta, il circúito del quale cinsero di
trentasei maravigliose colonne; e quella parte, la quale era vòlta a
levante, dicono che intagliò Scopas, e quella che era a tramontana
Bryaxes, e quella che vòlta era in ponente lavorò Leochares, e la
quarta Timoteo; li quali in intagliare istorie e immagini, ovvero
statue, posero tanto studio e tanta arte, per dover ciascuno apparere
il migliore, che, molti secoli poi, assai agevolmente apparve
agl’intendenti questi maestri avere lavorato per disiderio di gloria,
e non per guadagno; e cosí infino al disiderato fine il produssero.
Appresso a’ quali vi venne un quinto artefice, di non minore ingegno
che i quattro primi, chiamato Yteron, il quale per ventiquattro gradi
ragguagliò la piramide, cioè la punta quadra superiore; e poi vi
s’aggiunse il sesto, chiamato Pythis, il quale nella sommitá di
tutto il dificio fece una quadriga, cioè un carro con quattro ruote,
tirato da quattro cavalli, con maraviglioso artificio composta. E in
questo finí il lavorio di tanta bellezza e sí magnifico, che lungo
tempo fu annoverato l’uno de’ sette miracolosi lavorii, li quali in
tutto il mondo essere allora si ragionavano. E da Mausolo fu
«mausoleo» nominato; e cosí, come detto è, ancora si nominano le
maravigliose sepolture de’ re. Chiamansi ancora i sepolcri, «busti»,
e questi son detti da’ corpi «combusti», cioè arsi, sí come
anticamente far si soleano. E chiamansi «urne», le quali erano
certi vasi di terra e d’ariento e d’oro, secondo che color potevano
che ciò facevano, nelle quali, con diligenzia ricolta, la cenere
d’alcun corpo arso dentro vi mettevano. E questo basti aver de’
sepolcri detto. Séguita: «son piú e men caldi», secondo la
gravezza maggiore e minore del peccato della eresia di quegli eretici
che dentro vi son tormentati.

E detto questo degli
eretici, mostra come avanti procedessero, pur tra le sepolture,
dicendo: «E poi ch’alla man destra si fu vòlto», Virgilio,
«Passammo tra i martiri», cioè tra quelle sepolture, «e gli alti
spaldi». «Spaldo» in Romagna è chiamato uno spazzo d’alcun
pavimento espedito; e perciò dice che tra’ martiri passò, e tra’
luoghi che quivi espediti erano.

II

SENSO
ALLEGORICO

«Quel color, che viltá
di fuor mi pinse», ecc. Avendo l’autore ne’ precedenti canti,
secondo, la dimostrazion fattagli dalla ragione, dimostrato che
peccati sien quegli a’ quali noi naturalmente tirati siamo, e ne’
quali noi per incontinenzia vegnamo, e ancora quali supplíci ad essi
dalla divina giustizia sieno imposti; e restandogli a discriver
quegli li quali per bestialitá e per malizia si commettono,
accioché, cognosciutigli, meglio da essi guardar ci sappiamo, e
ancora, se in essi caduti fossimo, ce ne dogliamo, e per penitenzia
perdono meritiamo; e parendogli opportuno, a dover questo fare, di
dimostrare superficialmente dove questi peccati si piangono, e, in
parte, la cagione dalla quale par che provengano: primieramente
scrive come alla cittá di Dite pervenisse, e come in quella gli
fosse negata l’entrata; e appresso come da tre furie infernali fosse
provocato il Gorgone per doverlo far rimanere, e quinci perché
quello per opera della ragione non aveva potuto avere effetto, come e
per cui fosse la porta della cittá aperta, e come dentro seguendo la
ragione v’entrasse, disegna; e quale spezie di peccatori, entratovi,
primieramente in doloroso tormento trovasse. E percioché a lui
medesimo par sotto molto artificioso velame aver queste cose nascose (come nel testo
appare), rende solleciti coloro li quali hanno sani gl’intelletti, a
dovere agutamente riguardare ciò che esso ha riposto sotto i versi
suoi.

adunque
primieramente da vedere quello che esso abbia voluto che s’intenda
per la cittá di Dite. Il che se perspicacemente riguarderemo, assai
ben potremo comprendere lui voler sentire questa cittá niuna altra
cosa significare, che il luogo dello ‘nferno nel quale si puniscono
gli ostinati. E ciò dimostra in due cose, delle quali discrive
questo luogo essere circundato, cioè dalla padule di Stige, della
quale dice i fossi di questa cittá esser pieni, e impedire ogni
entrata, fuori che quella alla quale Flegiás dimonio con la sua
nave perducesse altrui; e, appresso, essa cittá aver le mura di
ferro, le quali non si posson leggiermente rompere o spezzare. Per
le quali due cose sono da intendere due singulari proprietá degli
spiriti maladetti che in esso luogo tormentati sono, o vogliam dire
dell’anime ostinate, le quali in quello luogo in diversi supplici
punite sono: ed è la prima «tristizia», significata per Stige,
percioché la tristizia si può dire essere la prima radice della
ostinazione, si come appresso apparirá; la seconda è la
«inflessibile fermezza» del malvagio proponimento, nel quale senza
mutarsi consiste l’ostinato, e questa è significata per le mura del
ferro, la cui durezza è tanta e tale, che per forza di fuoco, non
che d’altra cosa, non si può liquefare, come tutti gli altri
metalli fanno: e perciò per esso ferro assai ben si dimostra la
seconda qualitá degli animi degli ostinati, li quali né caldo
alcuno di caritá, né dimostrazione o ragione alcuna puote
ammollire, né riducere in alcuna laudevole forma.

E chiama l’autore
questo luogo Dite, cioè «ricco» e «abbondante»; ed esso medesimo
mostra di che ricco e abbondante sia, cioè di «gravi cittadini», e
di «grande stuolo», cioè moltitudine: percioché, per lo
trasandare nelle colpe, li piú de’ peccatori da’ peccati naturali
trasvanno ne’ bestiali o ne’ fraudolenti; e cosí questa ultima e piú
profonda parte dello ‘nferno è molto piú piena che la superiore. E
pare che questa pestilenza entri negli animi, come detto è, per lo
trasandar nelle colpe o per bestialitá o per malizia, delle quali
l’una non lascia cognoscer la misericordia di Dio, e l’altra non la
vuol cognoscere; e però, trascorsi con abbandonate redine ne’ vizi e
in quegli per lungo trasandare abituati, gli s’hanno ridutti in
costume; e quando il vizio è convertito in costume, niuna speranza
di poterlo rimuovere si puote avere; e cosí indurati e sassei
divenuti, caggiono in questo miserabile luogo. Nel quale per ciò è
vietata l’entrata alla ragione e all’autore: alla ragione, percioché
il costume degli ostinati è non volere, come detto è, alcuna
ragione udire incontro alla loro sassea e dannosa opinione;
all’autore fu vietata, percioché nel vizio della ostinazione non era
venuto. E cosí, parendo a’ ministri del doloroso luogo lui non dover
venire per rimanere, come gli altri facevano che v’entravano, non fu
voluto ricevere, ma essere alla ragione e a lui stata serrata la
porta non di Dite, ma de lo ‘ntelletto, da’ loro avversari, li quali
con ogni lor forza e con tutto il loro ingegno adoperano che alcuno
conoscer non possa quello, che, conosciuto, gli sia cagione di
schifare la sua perdizione, e quel seguire che sua salute sia. Ché
per altro non si curerebbe il demonio che l’uomo conoscesse il vizio
e ancora la pena apparecchiata a quello, se non fosse che vede che,
per lo conoscere, l’uomo si guarda di non cadere, e diviene piú
costante contro alle sue tentazioni; e non conoscendolo ancora, e non
essendo tanto pienamente informato, quanto bisogno fa a ciascuno che
intera contrizion vuole avere, e per conseguente pervenire ben
disposto alla confessione; s’ingegna di doverlo far cadere nella
ostinazione, accioché piú avanti non vada a quello che sua salute
può essere. E percioché negli animi, li quali sono in pendulo e
spaventati, piú leggiermente s’imprieme questa maladizione, cioè
l’ostinazione, vegnono le tre furie infernali orribili a vedere, e
con pianti e con rumore è da loro chiamato il Gorgone, cioè la
ostinazione, cioè per quegli rumori s’ingegnano d’occupare con
questo vizio il petto dell’autore: ma per l’opera e dimostrazione
della ragione ciò non avviene, anzi piú tosto è da lui la sua
origine conosciuta e dimostrata a noi.

[Alla qual
dimostrazione voler con minor difficultá comprendere, è da vedere
chi fossero queste tre furie infernali, i nomi loro e’ loro effetti,
secondo che sentirono gli antichi poeti. Furono dunque, le furie,
tre, e, secondo che pare che tutti tengano, furono figliuole
d’Acheronte, fiume infernale, e della
Notte; e che esse fossono figliuole d’Acheronte il testimonia
Teodonzio; e che esse fossero figliuole della Notte, appare per
Virgilio, il quale, cosí scrivendo, il dimostra:

Dicuntur
geminae pestes, cognomine Dirae,

quas
et Tartaream nox intempesta Megaeram

uno
eodemque tulit partu, ecc.

E, secondo che essi
vogliono, queste son diputate al servigio di Giove e di Plutone, sí
come per Virgilio appare, dove scrive:

Hae
Iovis ad solium, saevique in limine regis

apparent,
acuuntque metum mortalibus aegris

si
quando lethum horrificum morbosque deûm rex

molitur
meritis, aut bello territat urbes,
ecc.

E i loro nomi sono
Aletta, Tesifone e Megera, come nel testo dimostra l’autore. E, oltre
a questi, hanno altri piú nomi, e massimamente in diversi luoghi,
percioché chiamate sono «cani infernali», sí come per li versi di
Lucano si comprende, quando dice:

Iam
vos ego nomine vero

eliciam,
Stygiasque canes in luce superna

destituam,
ecc.

Sono, oltre a questo,
appo noi chiamate «furie» dallo effetto loro, sí come per Virgilio
appare, dove dice:


caeruleis unum de crinibus anguem

coniicit,
inque sinum praecordia ad intima subdit,

quo
furibunda domum monstro permisceat omnem.

E
ancora appo noi son chiamate «eumenide», sí come ne dimostra
Ovidio dicendo:

Eumenides
tenuere faces de funere raptas,
ecc.

E questo è assai
chiaro essere intervenuto appo noi in uno sventurato matrimonio. Appo
i superiori iddii sono appellate «dire», come per Virgilio si può
vedere:

At
procul ut Dirae stridorem agnovit et alas,

infelix
crines scindit Iuturna solutos,
ecc.

Fu Iuturna dea, e
questo stridor di queste dire il cognobbe in cielo non in terra. Sono
appresso da Virgilio chiamate «uccelli» in questi versi:

Iam
iam linquo acies: ne me terrete timentem

obscoenae
volucres: alarum verbera nosco,
ecc.

Oltre a questo, dice
Teodonzio queste furie, appo coloro li quali abitano alle marine,
esser chiamate «arpie».]

[Discrivonle similmente
con orribili forme, le quali, percioché dall’autore discritte in
parte sono, lasceremo stare al presente.]


[Attribuiscono, oltre
alle cose dette, a ciascuna di queste furie singulare oficio e
spaventevole. E primieramente l’uficio attribuito ad Aletto appare
per questi versi di Virgilio:

Cui
tristia bella

iraeque
insidiaeque et crimina noxia cordi.

Odit
et ipse pater Pluton, odêre sorores

Tartareae
monstrum; tot sese vertit in ora,

tam
saevae facies, tot pullulat atra colubris.

E
un poco appresso séguita:

Tu
potes unanimes armare in praelia fratres

atque
odiis versare domos; tu verbera tectis

funereasque
inferre faces; tibi nomina mille,

mille
nocendi artes,
ecc.

A Tesifone dicono
quello appartenersi che per gl’infrascritti versi appare; e prima
Virgilio dice di lei:

Egrediturque
domo, luctus comitatur euntem,

et
pavor et terror trepidoque insania vultu,
ecc.

A’
quali aggiugne Stazio, dicendo:

Suffusa
veneno

tenditur,
ac sanie gliscit cutis: igneus atro

ore
vapor, quo longa sitis morbique famesque

et
populis mors una venit,
ecc.

A Megera similmente
aspetta quello che per gli infrascritti versi di Claudiano si può
comprendere, dove nel libro De
laudibus Stiliconis,
dice:

Quam
penes insani fremitus, animique prophanus

error,
et undantes spumis furialibus irae,

non
nisi quaesitum cognata caede cruorem,

illicitumque
bibit patrius, quem fuderat ensis,

quem
dederint fratres,
ecc.]

[Ma, accioché noi
possiam vedere quello che alla presente intenzione è di bisogno, si
vuol guardare ciò che sotto cosí mostruose favole sentissono i
poeti, e primieramente quel che volessero dire queste furie essere
state figliuole d’Acheronte e della Notte. Della qual cosa pare che
questa possa essere la ragione: pare che sia di necessitá che,
avendo noi separata la ragione e seguendo l’appetito, che, non
avvegnendo le cose secondo che noi disideriamo, ne debba turbazion
seguitare, la quale ha a tôrre da noi e a rimuovere allegrezza: la
qual perturbazion non si riceve se non per malvagio giudicio,
procedente da animo offuscato da ignoranza; e perseverando la
perturbazione, e, come il piú delle volte avviene, divegnendo, per
la perseveranza, maggiore, convien che proceda ad alcuno atto, sí come
quella che continuamente molesta il perturbato: e questo atto non
regolato dalla ragione sará di necessitá furioso. Per la qual cosa
assai convenevolmente si può comprendere questo atto furioso esser
nato dall’aver cacciata la letizia e la quiete della mente per la
turbazion presa: e questo primo atto potersi chiamare Acheronte, che
tanto vuol dire quanto «senza allegrezza». E appresso, avere la
perturbazion ricevuta, essere avvenuto per ignoranzia d’animo: e la
ignoranzia è similissima alla notte. E cosí, questa seconda
cagione, cioè la notte della ignoranza, aver causata la furia della
turbazion seguita. E cosí si può dire le furie esser figliuole
d’Acheronte e della Notte.]

[Esser queste furie
poste al servigio di Plutone, intendendo lui per lo ‘nferno,
attissimamente si può comprendere e concedere essere stato fatto,
percioché, sí come noi veggiamo per li loro effetti, infinite anime
traboccano in quello; ma che esse al servigio di Giove sieno, par da
maravigliare, conciosiacosaché Iddio sia in tutto contrario ad esse,
come colui che in tutte le sue operazioni è pieno d’ottimo
consiglio, di pace, di mansuetudine e di misericordia. Ma intorno a
questo si può cosí dire: i nostri peccati son tanti, che noi con la
nostra perfidia vinciamo la divina pazienza, e commoviamla a dovere
operare contra di noi; per la qual cosa esso Iddio (sí come egli
dice nel Vangelio: «Io pagherò il nimico mio col nimico mio»),
permette a queste furie, quantunque sue nemiche sieno, l’adoperare
contra di noi; per la qual cosa, per opera di quelle, le tempeste, le
fami, le mortalitá e le guerre vengono sopra di noi. E per questa
cosí fatta permissione si posson dire essere e star davanti a Giove
e al servigio suo.]

[Appresso è da vedere
quel che volesser gli antichi per li nomi di queste furie sentire: e
però la prima, la quale è chiamata Aletto, secondo che a Fulgenzio
piace, non vuole altro dire che «senza riposo», accioché per
questo s’intenda ogni furioso atto prender principio dal continuo e
noioso stimolo, il quale l’animo nostro riposar non lascia, quando in
perturbazione alcuna caduti siamo di cosa la quale appetisca
vendetta. La seconda è chiamata Tesifone, la quale, sí come
Fulgenzio medesimo dice, è detta cosí, quasi dicessimo
«tritonphones»,
il che in latino viene a dire «voce d’ira»; la qual voce d’ira
dobbiamo intendere esser quella, la quale l’animo perturbato e
inquietato, con contumelia e vituperio di chi è cagione della sua
perturbazione, manda fuori, come sono le villanie le quali gli
adirati si dicono insieme. La terza è chiamata Megera, e, secondo
che ancora Fulgenzio dice, questo nome vien tanto a dire, quanto
«gran litigio»; per lo quale dobbiamo intendere le vendette,
l’uccisioni e le guerre, nelle quali si dimostrano le contenzioni
grandi e pericolose e piene d’impeti furiosi e di danni inestimabili.
E cosí della perturbazion presa non giustamente séguita o nasce
l’inquietudine dell’animo; e dalla inquietudine dell’animo si viene
ne’ romori e nelle obiurgazioni; e da’ romori si viene nella zuffa e
nelle morti e nelle guerre e in ostinati odii.]

[Oltre a questi
principali nomi, son chiamate appo quegli d’inferno, cioè appo gli
uomini di bassa e infima condizione, «cani»; percioché,
pervegnendo essi, o per ingiuria o per altra cagione che ricevano o
paia loro ricevere non giustamente, in perturbazione, similmente, per
desiderio di vendetta, sono da rabbiosi pensieri angosciati
nell’animo; e, non potendo ad altro atto di vendetta procedere,
furiosamente gridando, abbaiano come fanno i cani, di quali contro a’
lor maggiori niuna altra cosa adoperano che l’abbaiare.]

[Appo noi, li quali
siamo in mezzo tra ‘l cielo e lo ‘nferno (e perciò si deono per noi
intendere gli uomini di mezzano stato), son chiamate «furie» ed
«eumenide»; e questo, percioché esse con piú focosa ira incendono
il perturbato, in quanto, essendo stimolato, percioché ricever gli
pare ingiuria da chi non gli par che piú di lui vaglia, e però,
parendogli equivalere e non potere, secondo l’appetito correndo,
pervenire alla vendetta, tutto in si rode; e ultimamente non
potendo a tanta passion sussistere, vergognandosi d’abbaiare come i
minor fanno, prorompe furioso all’esecuzion del suo appetito, e le
piú delle volte con suo gravissimo danno: e quinci si può dire le
furie esser chiamate «eumenide», che tanto viene a dire quanto
«buone»; percioché, essendo cosí chiamate per contrario, mai in
altro che in male non riescono a ciascun che ad esse si lascia
sospignere.]


[Sono queste medesime,
come detto è, appo gl’iddii, cioè appo gli eccelsi e grandi uomini,
chiamate «dire», cioè «crudeli», dalla crudeltá la quale essi,
sí come potenti, per ogni menoma perturbazione usano ne’ minori.]

[E sono ancora chiamate
«ucceli» dalla velocitá del furore, percioché velocissimamente da
ogni piccola perturbazione ci commoviamo, e fannoci dalla
mansuetudine trascorrere nel furore. «Arpie» son chiamate, quasi
«rapaci»; e percioché gli uomini di mare, e quegli ancora che alle
marine abitano, con tanto fervore prorompono alla preda, che in cosa
alcuna da’ superiori discordanti non paiono.]

[Gli ufici loro
attribuiti, percioché assai, per le molte cose dimostrate di loro e
ancora per i versi medesimi che gli discrivono, si possono
comprendere, senza altrimenti aprirgli, trapasseremo; e cosí ancora
gli abiti loro orribili.] E possiamo per tante cose comprendere
l’animo, nel quale le turbazioni sono, e per conseguente tanti e sí
orribili commovimenti, quanti hanno a suscitare e a conservare e
ancora ad accrescere li mal regolati appetiti, non potere in quello
trovare alcun luogo amore, né caritá di Dio o di prossimo, o
virtuoso pensiero: e per questo, sí come in luogo freddissimo e
terreo, essere ogni attitudine e opportuna disposizione a doversi
creare e imprimere il ghiaccio e la durezza dell’ostinazione: e per
questo artificiosamente fingere l’autore queste furie gridare,
accioché in lui, posto nel luogo dove ha la tristizia di Stige e il
furor degl’iracundi contemplato, possano col romor loro mettere, con
paura, perturbazione, accioché per gli stimoli di quella recati
nell’animo, esso divegna atto a dover ricevere quella impressione,
che pare il debbia fare perpetuo cittadino d’inferno, cioè
l’ostinazione. E quinci, discrive l’autore, essendo giá la
perturbazion venuta per la separazion della ragione, alquanto da lui
dilungata per l’andare a parlare, cioè a tentare l’entrata nel luogo
degli ostinati, e poi per lo invilimento di quella, per lo non potere
avere ottenuto quello che disiderava; che la ostinazione, chiamata
dalle furie, cioè provocata dalle misere sollecitudini dell’animo
suo, veniva. E deonsi queste perturbazioni e sollecitudini intendere
esser quelle che a ciascun peccatore possono intervenire nel mezzo
delle meditazioni delle lor colpe, e massimamente quando per falsa
credenza paion loro quelle esser maggiori che la misericordia di Dio,
come parve a Caino e a Giuda, e quinci, di quella disperandosi,
caggiono in ostinazione, e, se medesimi riputando dannati,
continuamente di male in peggio adoperando procedono.

[Lez. XXXVIII]

Ma, percioché l’autor
dice che questa ostinazione era dalle furie per lo nome di Medusa
chiamata, è da vedere quello che per questa Medusa sia da sentire,
cioè come s’adatti alla ‘ntenzione lei aver per l’ostinazione, piú
tosto che alcuna altra cosa, chiamata. [E primieramente è da vedere
quello che favolosamente ne scrivono i poeti, e poi quello che sotto
il favoloso parlare abbiano voluto sentire.]

[Scrivono adunque,
secondo che Teodonzio afferma, che Forco, figliuolo di Nettuno e dio
del mare, generò d’un mostro marino tre figliuole, delle quali la
prima fu chiamata Medusa, la seconda Steno, la terza Euriale, e tutte
e tre furon chiamate Gorgoni; e secondo che testimonia la fama
antica, non ebbero tra tutte e tre che uno occhio, il quale
vicendevolmente usavano; e, come scrive Pomponio Mela nella sua
Cosmografia, esse signoreggiarono l’isole chiamate Orcade, le quali si dicono
essere nel mare oceano etiopico, di rincontro a quegli etiopi che son
cognominati esperidi. La qual cosa par che testimoni Lucano, dove
scrive:

Finibus extremis Libyes, ubi fervida tellus accipit
Oceanum demisso sole calentem, squalebant late Phorcynidos arva Medusae,
ecc.

E dicesi queste sorelle avere avuta questa proprietá, che, chiunque le riguardava,
incontanente si convertiva in sasso. E di Medusa, la maggior delle
tre, sí come Teodonzio scrive, si dice che ella fu oltre ad ogni
altra femmina bella; e intra l’altre cose piú ragguardevoli della
sua bellezza, dicono essere stati i suoi capelli, li quali non
solamente avea biondi, ma gli aveva che parevan d’oro. Dallo
splendore de’ quali preso Nettuno, giacque con lei nel tempio di
Minerva; e di questo congiugnimento vogliono nascesse il cavallo
nominato Pegaso. Ma Minerva, turbata della ignominia nella qual
pareva il suo tempio venuto per questo adulterio, accioché non
rimanesse impunita, dicono che i capelli d’oro di Medusa trasformò
in serpenti; per la qual cosa Medusa, di bellissima femmina, divenne
una cosa mostruosa. La qual cosa essendo per fama divulgata per
tutto, pervenne in Grecia agli orecchi di Perseo, in quei tempi
valoroso e potente giovane; laonde egli, a dover questa cosa
mostruosa tôr via, venne di Grecia lá dove Medusa dimorava, e
quivi, armato con lo scudo di Pallade, la vinse e tagliolle la testa,
e con essa se ne ritornò in Grecia. E questo quanto alle fizioni
basti. E veggiamo quello che sotto questo voglian sentire coloro che
finsono, e poi al nostro proposito il recheremo.]

[Puossi adunque
leggiermente concedere queste sorelle essere state figliuole di
Forco; ma perché dette sieno figliuole d’un mostro marino, credo
preso fosse dalla loro singular bellezza, l’ammirazion della quale
non lasciava credere al vulgo ignorante lor potere esser nate di
femmina, come l’altre nascono: ma di questo sia la quistione
terminata. Che esse avessero tra tutte e tre solamente un occhio, par
che credano Sereno e Teognide, antichissimi istoriografi, per ciò
esser detto, perché esse tutte e tre fossero d’una medesima e igual
bellezza, e per questo fosse un medesimo il giudicio di tutti coloro
li quali le riguardavano. Altri voglion dire che esse tra tutte e tre
avessero un solo regno, e quello vicendevolmente reggessero, e per
quello vedessero, cioè valessono. L’esser giaciuta con Nettuno,
niuna altra cosa dimostra se non essersi dilettata dell’abbondanza
delle cose, e però nel tempio di Minerva, perché ella mostrò molte
lucrative arti, per le quali l’abbondanza diventa maggiore. I crini
esser convertiti in serpenti, niuna altra cosa vuole se non mostrare
le sustanze temporali, le quali per li capelli si dimostrano,
convertirsi in amare e mordaci sollicitudini di coloro che l’hanno,
percioché temono or di questa e or di quella cosa, ecc. Che esse
convertissono in sassi coloro li quali le riguardavano, credo essere
stato detto per ciò, che tanta e sí grande era la lor bellezza,
che, come da alcuno veduta era, cosí diventava stupido e attonito, e
quasi mutolo e immobile per maraviglia, non altrimenti che se sasseo
divenuto fosse.]

[Gorgone furon
chiamate, percioché, secondo che Teodonzio dice, essendo dopo la
morte del padre loro rimase ricchissime, con tanta sollecitudine e
avvedimento curarono le cose, nelle quali consistevano le loro
ricchezze, le quali il piú erano in terre, che dalli loro uomini
furon chiamate Gorgoni, il qual nome suona «cultrici di terra». Ma
Fulgenzio, il quale intorno alle fizioni poetiche ebbe mirabile e
profondo sentimento, par che senta tutto altrimenti; percioché egli
scrive essere tre generazioni di paura, le quali per li nomi di
queste tre sorelle si dimostrano: e primieramente dice che Steno è
interpetrata «debilitá», cioè principio di paura, il qual
solamente debilita l’animo di colui in cui cade; appresso dice che
Euriale è interpetrata «lata profonditá», cioè stupore o
amenzia, la quale con un profondo timore sparge o disgrega l’animo
debilitato; ultimamente dice che Medusa significa «oblivione», la
qual non solamente turba l’avvedimento dell’animo, ma ancora mescola
in esso caligine e oscuritá.] Delle quali cose possiamo al nostro
proposito raccogliere sotto il nome di questa Medusa essere, come di
sopra è stato detto, chiamata la ostinazione, in quanto essa faceva
chi la riguardava divenir sasso, cioè gelido e inflessibile. Ma son
molti, i quali per avventura non s’accorgono quando questo Gorgon
riguardano; e però è da sapere che sono alcuni li quali sempre
tengon gli occhi della mente fissi nella loro bella moglie, ne’ lor
figliuoli, ne’ lor be’ palagi, ne’ lor be’ giardini, e questi paion
loro da dover preporre ad ogni letizia di paradiso; altri tengono
l’animo fisso a’ lor cavalli, a’ lor fondachi, alle loro botteghe, a’
lor tesori; altri agli stati e agli onori publichi e a simili cose. E
non s’accorgono che questo cotal riguardare è riguardare il Gorgone,
cioè gli ornamenti terreni: da’ quali e’ traggono quella durezza che
gli convertisce in pietra, la quale è di complession fredda e secca:
per la qual possiamo intendere questi cotali esser freddi del divino amore e della caritá
del prossimo, e in tanto secchi, in quanto i terreni secchi né
ricevono alcun seme, né fanno alcun frutto.

Cosí adunque divenuti
e caduti nella perseveranza del peccare, quasi della divina
misericordia disperandosi, strabocchevolmente si lasciano andare in
qualunque colpa, dicendo sapere quel c’hanno, e non sapere quel
che avranno, e che se pure avviene che perdano i beni dell’altra
vita, non voler perdere quegli di questa. E puossi dire che a coloro
avviene li quali nel furore iracundo trascorrono, in quanto niun
altro giudicio che il loro seguir vogliono; o a coloro li quali oltre
ad ogni debito gli animi pongono a’ piaceri, li quali smisuratamente
procuran d’avere, delle cose terrene, e tanto in esse s’invescano,
che cosa, che contro a questo piacer faccia, udir non possono. E,
quantunque questo atto furioso non paia, egli è; percioché la
perturbazione si prende nell’animo dalla nostra insaziabilitá; e
però, non avendo né quello né tanto quanto vorremmo, ci turbiamo
in noi medesimi contro alla fortuna, e spesse volte contro a Dio, che
quello non ne concedono, di che a noi pare esser degni. E da questa
perturbazione nascono gli stimoli, li quali il dí e la notte ne
infestano a dover trovar modo come pervenir possiamo a quello che noi
disideriamo; e da questi stimoli nascon le disposizioni, le quali
sempre dannose sono; e appresso a questo seguono gli atti e
l’operazioni, le quali pognamo ad avere quello che bisogno non era. E
questi, nel giudicio de’ savi uomini, piú tosto da furioso animo che
da composta mente procedono: e in questi intanto ci abituiamo, che né
salutevol consiglio, né altro ce ne può rivocare; e cosí come se
veduto avessimo il Gorgone, sassei diventiamo, cioè ostinati
cultivatori delle terrene cose.

Era adunque a questo
provocata Medusa, accioché veduta, cioè ricevuta nella mente
dall’autore, lui avesse fatto sasseo divenire, e per conseguente
ritenuto in inferno, cioè intorno agli esercizi terreni, e avesse
lasciata stare la buona disposizione nella quale era entrato dietro
alla ragione per acquistare i frutti celestiali. Ma ciò non poté
avvenire, percioché la ragione il fece volgere in altra parte che in
quella donde dovea mostrarsi il Gorgone, cioè il fece volgere ad
altro studio che a riguardare le vanitá temporali e a porvi l’animo.
Il che pregava il salmista quando diceva: «Averte
oculos meos, ne videant vanitatem»,
cioè con affetto riguardino le cose temporali; le quali son tutte
vane, come dice l’Ecclesiastes: «Vanitas
vanitatum et omnia vanitas».
E non solamente fu la ragion contenta d’avergli imposto che con le
mani gli occhi chiudesse, ma essa ancora con le sue proprie gliele
chiuse. E non dobbiamo qui intendere degli occhi corporali, ma delle
nostre affezioni mosse e sospinte da due potenze dell’anima, cioè
dall’appetito irascibile e dal concupiscibile. Questi son da chiuder
con le mani, cioè con l’operazioni della ragione, le quali quante
volte questi appetiti raffreneranno e adopereranno che l’uomo piú
che il dovere non s’adiri o concupisca, tante cesserá che il Gorgone
veder non si possa, cioè non si caggia nella ostinazione.

E séguita, di questo,
che a coloro, li quali con fermo animo seguitano la ragione, Iddio,
dovunque lor bisogna, manda il suo sussidio: il quale in questo luogo
l’autore figura per l’angelo, il quale aperse la porta. Ed è questo
divino aiuto di tanta virtú e di tanta potenzia, che ogni infernale
arroganza, i demòni, le Furie, il Gorgone e l’anime de’ dannati,
pieni di paura e di sbigottimento, impetuosamente gli fuggon davante,
lasciando aperta e spedita la via a dover poter vedere e conoscere
ciò che per la lor salute bisogna a coloro li quali sperano in lui.
E questo credo che sia quello, al quale vedere l’autore sollecita
gl’intelletti sani, entrando poi dietro alla ragione a discernere
distintamente le colpe de’ caduti nella ostinazione, e i tormenti
dati a quelle, accioché da esse, cauto divenutone, si sappia
guardare, [e dalla paura del divino giudicio compunto, proceda al
sacramento della penitenza, mediante il quale possa alla gloria
pervenire.]

Ma da vedere ne resta
quello che esso intenda per lo supplicio dato agli eresiarci. Sono
gli eresiarci, sí come assai chiaro si legge nel testo, in
sepolture, da eterno e cocentissimo fuoco tormentati; nel qual
supplicio io intendo disegnarsi l’apparenza degli eretici in questa
vita, e la pena loro attribuita nell’altra. Dico adunque che, per le
sepolture, l’autore vuol dimostrare di questi peccatori l’apparenza
in questa vita, accioché noi non siam troppo correnti a credere al
giudicio degli occhi nostri, il quale, essendo spesse volte falso, ne
‘nduce o può inducere in parte, della quale o non possiamo uscire,
o con difficultá n’usciamo. Possonsi adunque gli eretici simigliare
alle sepolture, le quali spessamente sono ornatissime di marmi,
d’intagli, d’oro, di dipinture e d’altre cose dilettevoli a
riguardare; e questo dalle parti esteriori; e poi, aprendole, si
truovano dentro piene d’ossa e di corpi morti, fetidi e orribili a
riguardare, senza senso, senza potenza o virtú alcuna in avere.
E cosí gli eretici, veggendo i loro atti esteriori, paiono persone
oneste, venerabili, mansueti e divoti, e da dovere essere da ciascun
buono uomo disiderata la loro amicizia e la loro conversazione; ma
come il discreto uomo gli apre e riguardagli dentro, cioè per i
ragionamenti loro comprende qual sia il loro stato intrinseco, esso
gli truova pieni di perverse e dannabili opinioni, di malvagia
dottrina, e d’intendimenti intorno a’ sensi della Scrittura di Dio
tanto discordanti dalla veritá, che assai manifestamente appare loro
esser pieni di cose troppo piú abominevoli che l’ossa o i corpi de’
morti non sono. Percioché l’ossa de morti, quantunque sieno orribili
a riguardare, non possono ad alcun nuocere; ma il puzzo del veneno
delle opinioni degli eretici è cosa la quale uccide l’anime che
dentro a il ricevono. E perciò gli eretici sono, ne’ lor
intrinseci sentimenti, molto piú sozzi e piú orribili ch’e’
sepolcri aperti, e per questo assai convenientemente si possono
assomigliare a’ sepolcri. E quinci estimo, percioché ne’ sepolcri,
a’ quali li lor corpi simiglianti furono, portarono la loro eretica
pravitá, e quella di quegli traendo seminarono e sparsono, e con
esso loro molti stolti nelli loro errori trassono; che l’autore
volesse che essi nell’altra vita ne’ sepolcri piagnessero insieme con
li lor seguaci. E, percioché essi le lor false e riprovate opinioni,
sí come freddi dell’ardore dello Spirito santo, ostinatamente
servarono, credo voglia l’autore che nel fuoco eterno senza pro si
riscaldino, e la lor freddezza maturino.

Ma potrebbesi qui
muovere un dubbio e dir cosí: e’ pare che l’autor voglia, nel canto
decimoprimo di questo libro, che dentro alla cittá di Dite si
punisca solamente la bestialitá e la malizia; e queste mostra
punirsi in diversi cerchi, li quali discrive essere di sotto al
luogo, dove allora si ritrova, e passato questo luogo dove gli
eretici son puniti; e di fuori della cittá mostra punirsi solamente
l’incontinenzia; e di questi eretici non fa in questa distinzione
menzione alcuna, e perciò pare che ella sia spezie singulare per
di peccato: che spezie dunque diremo che questa sia?

Al qual dubbio si può
cosí rispondere: la eresia spettare a bestialitá, e in quella
spezie inchiudersi; percioché bestial cosa è estimare di se
medesimo quello che estimar non si dee, cioè di vedere e di sapere
d’alcuna cosa piú che non veggono o sanno molti altri, che di tale o
di maggiore scienza son dotati, e volere, oltre a ciò, ostinatamente
tenere ferma la sua opinione contro alle vere ragioni dimostrate da
altrui. La qual cosa gli eretici sempre feciono e fanno, con tanta
durezza di cuore tenendo e difendendo quello che vero credono, che
avanti si lascerebbono e lasciano uccidere che essi di quella si
vogliano rimuovere (sí come noi al presente veggiamo in questi, li
quali tengono che da Celestino in qua alcun papa stato non sia, de’
quali oltre a seicento, in questa pertinacia perseverando, sono stati
arsi); e perciò meritamente reputar si posson bestiali.

Ma incontanente da questo surgerá un altro dubbio, e dirá alcuno: se gli eretici son bestiali, perché non sono essi puniti piú giú dove gli altri bestiali si puniscono?

E a questo ancora si può rispondere in questa guisa: pare che gli eretici abbiano meno
offeso Iddio che quegli bestiali che piú giú puniti sono; e perciò
qui e non piú giú si puniscono. E che essi abbiano meno offeso
Iddio che coloro, pare per questa ragione: il peccato, il quale gli
eretici hanno commesso, non è stato commesso da loro per dovere
offendere Dio, anzi è stato commesso credendosi essi piacere e
servire a Dio, in quanto estimavano le loro opinioni dovere essere
rimovitrici di quegli errori, li quali pareva loro che non ci
lasciassono debitamente sentir di Dio, e per conseguente non ce lo
lasciassono debitamente onorare e adorare: lá dove i bestiali, che
piú giú si puniscono, disiderarono e sforzaronsi in quanto
poterono, bestemmiando e maladicendo, d’offendere Iddio; e, oltre a
ciò, adoperando violentemente e bestialmente contro alle cose di
Dio. E però pare questi cotali debitamente piú verso il centro
esser puniti che gli eretici.

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