XXI. DIGRESSIONE SULL’ORIGINE DELLA POESIA

XXI. DIGRESSIONE
SULL’ORIGINE DELLA POESIA.


La prima gente ne’
primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse, ardentissima fu di
conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamo ancora
naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il cielo
muoversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene avere certo
ordine e diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitá
dovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose
procedessero, e che tutte l’altre ordinasse, sí come superiore
potenzia da niun’altra potenziata. E, questa investigazione seco
diligentemente avuta, s’immaginarono quella, la quale «divinitá»
ovvero «deitá» nominarono, con ogni cultivazione, con ogni onore e
con piú che umano servigio esser da venerare. E perciò ordinarono,
a reverenza del nome di questa suprema potenzia, ampissime ed egregie
case, le quali ancora estimarono fossero da separare cosí di nome,
come di forma separate erano, da quelle che generalmente per gli
uomini si abitavano; e nominaronle «templi». E similmente
avvisarono doversi [ordinar] ministri, li quali fossero sacri e, da
ogni altra mondana sollecitudine rimoti, solamente a’ divini servigi
vacassero, per maturitá, per etá e per abito, piú che gli altri
uomini, reverendi; gli quali appellarono «sacerdoti». E oltre a
questo, in rappresentamento della immaginata essenzia divina, fecero
in varie forme magnifiche statue, e a’ servigi di quella vasellamenti
d’oro e mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai
pertinenti a’ sacrifici per loro istabiliti. E, accioché a questa
cotale potenzia tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve
loro che con parole d’alto suono essa fosse da umiliare e alle loro
necessitá rendere propizia. E cosí come essi estimavano questa
eccedere ciascuna altra cosa di nobilitá, cosí vollono che, di
lungi da ogni plebeio o publico stilo di parlare, si trovassero
parole degne di ragionare dinanzi alla divinitá, nelle quali le si
porgessero sacrate lusinghe. E oltre a questo, accioché queste
parole paressero aver piú d’efficacia, vollero che fossero sotto
legge di certi numeri composte, per li quali alcuna dolcezza si
sentisse, e cacciassesi il rincrescimento e la noia. E certo, questo
non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa ed esquisita e
nuova convenne che si facesse. La qual forma li greci appellano
«poetes»; laonde nacque, che quello che in cotale forma
fatto fosse s’appellasse «poesis»; e quegli, che ciò
facessero o cotale modo di parlare usassono, si chiamassero «poeti».

Questa adunque fu la
prima origine del nome della poesia, e per consequente de’ poeti,
comeché altri n’assegnino altre ragioni, forse buone: ma questa mi
piace piú.

Questa buona e
laudevole intenzione della rozza etá mosse molti a diverse
invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e dove i primi una
sola deitá onoravano, mostrarono i seguenti molte esserne, comeché
quella una dicessono oltre ad ogni altra ottenere il principato; le
quali molte vollero che fossero il Sole, la Luna, Saturno, Giove e
ciascuno degli altri de’ sette pianeti, dagli loro effetti dando
argomento alla loro deitá; e da questi vennero a mostrare ogni cosa
utile agli uomini, quantunque terrena fosse, deitá essere, sí come
il fuoco, l’acqua, la terra e simiglianti. Alle quali tutte e versi e
onori e sacrifici s’ordinarono. E poi susseguentemente cominciarono
diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno, chi con un altro, a
farsi sopra la moltitudine indòtta della sua contrada maggiori;
diffinendo le rozze quistioni, non secondo scritta legge, ché non
l’aveano ancora, ma secondo alcuna naturale equitá, della quale piú
uno che un altro era dotato; dando alla loro vita e alli loro costumi
ordine, dalla natura medesima piú illuminati; resistendo con le loro
corporali forze alle cose avverse possibili ad avvenire; e a
chiamarsi re; e mostrarsi alla plebe e con servi e con ornamenti non
usati infino a que’ tempi dagli uomini a farsi ubbidire; e
ultimamente a farsi adorare. Il che, solo che fosse chi ‘l
presumesse, sanza troppa difficultá avvenia; percioché a’ rozzi
popoli parevano, cosí vedendogli, non uomini ma iddii. Questi
cotali, non fidandosi tanto delle lor forze, cominciarono ad
aumentare le religioni, e con la fede di quelle a impaurire i
suggetti e a strignere con sacramenti alla loro obbedienza quegli li
quali non vi si sarebbono potuti con forza costrignere. E oltre a
questo diedono opera a deificare li lor padri, li loro avoli e li
loro maggiori, accioché piú fossero e temuti e avuti in reverenzia
dal vulgo. Le quali cose non si poterono comodamente fare senza
l’oficio de’ poeti, li quali, sí per ampliare la loro fama, sí per
compiacere a’ prencipi, sí per dilettare i sudditi, e sí per
persuadere il virtuosamente operare a ciascuno; quello che con aperto
parlare saria suto della loro intenzione contrario, con fizioni varie
e maestrevoli, male da’ grossi oggi non che a quel tempo intese,
facevano credere quello che li prencipi volevan che si credesse;
servando negli nuovi iddii e negli uomini, gli quali degl’iddii nati
fingevano, quello medesimo stile che nel vero Iddio solamente e nel
suo lusingarlo avevan gli primi usato. Da questo si venne allo
adequare i fatti de’ forti uomini a quegli degl’iddii; donde nacque
il cantare con eccelso verso le battaglie e gli altri notabili fatti
degli uomini mescolatamente con quegli degl’iddii; il quale e fu ed è
oggi, insieme con l’altre cose di sopra dette, uficio ed esercizio di
ciascuno poeta. E percioché molti non intendenti credono la poesia
niuna altra cosa essere che solamente un fabuloso parlare, oltre al
promesso mi piace brievemente quella essere teologia dimostrare,
prima ch’io vegna a dire perché di lauro si coronino i poeti.