CANTO QUINTO, I, SENSO LETTERALE

CANTO
QUINTO

I

SENSO
LETTERALE

«Cosí discesi del
cerchio primaio», ecc. Nel presente canto, sí come negli altri
superiori, si continua l’autore alle precedenti cose: e, avendo nella
fine del precedente mostrato come Virgilio ed egli, partitisi dagli
altri quattro poeti, erano per altra via venuti fuori di quel luogo
luminoso, in parte dove alcuna luce non era; e quinci nel principio
di questo, continuandosi alle cose predette, ne mostra come nel
secondo cerchio dello ‘nferno discendesse. E fa l’autore in questo
canto sei cose: esso primieramente, come detto è, si continua alle
precedenti cose, mostrando dove divenuto sia; nella seconda parte
dimostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe de’
peccatori; nella terza dice qual peccato in quel cerchio si punisca e
in che supplicio; nella quarta nomina alquanti de’ peccatori in
quella pena puniti; nella quinta parla con alcuni di quegli spiriti
che quivi puniti sono; nella sesta ed ultima descrive quello che di
quel ragionar gli seguisse. La seconda comincia quivi: «Stavvi
Minos»; la terza quivi: «Ora incomincian»; la quarta quivi: «La
prima di color»; la quinta quivi: «Poscia ch’io ebbi»; la sesta e
ultima quivi: «Mentre che l’uno spirto». Comincia adunque in cotal
guisa: «Cosí discesi», cioè partito da que’ quattro savi,
seguitando per altra via Virgilio, «del cerchio primaio», cioè del
limbo, il quale è il primiero cerchio dello ‘nferno; e mostra
appresso dove discendesse, cioè «Giú nel secondo» cerchio, «che
men luoco cinghia», cioè gira. E davanti è mostrata la cagion
perché: la quale è percioché la forma dello ‘nferno è ritonda, e,
quanto piú in esso si discende, tanto viene piú ristrignendo, tanto
che ella diviene aguta in sul centro della terra. «E tanto ha piú
dolor», in questo cerchio che nel precedente, «che pugne», cioè
tormenta in sí fatta maniera, che egli costrigne i tormentati «a
guaio», cioè a trar guai: quello che nel superior cerchio, come
mostrato è, non avvenia; per che, s’egli è questo luogo minore di
circunferenza che il superiore, egli è molto maggior di pena.
«Stavvi Minos». Qui comincia la seconda parte, nella quale l’autor
mostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe de’ peccatori;
e in questo séguita l’autore lo stilo incominciato di sopra, cioè
di trovare ad ogni entrata di cerchio alcun demonio. Di sopra
all’entrare del primo cerchio trovò «Carón dimonio con occhi di
bragia»; qui trova Minos. E ciascuno con alcun atto o parola
terribile spaventa i peccatori che in quel luogo vengono, percioché
Carón, di sopra, forte quegli che alla sua nave vennero spaventò
con parole, gridando: – «Guai a voi, anime prave», ecc.; –
nell’entrata di questo cerchio, Minos gli spaventa ringhiando, in
quanto dice: «Stavvi Minos orribilmente, e ringhia»; e cosí ancora
ne’ cerchi seguenti troveremo. Dice adunque: «Stavvi Minos», cioè
in su l’entrata di quel cerchio secondo. Questo Minos dicono i poeti
ch’egli fu figliuolo di Giove e d’Europa, e ciò essere in tal
maniera avvenuto che, essendo Europa, figliuola d’Agenore, re de’
fenici, i quali abitarono il lito della Soría e fu la loro cittá
principale Tiro, piaciuta a Giove cretense; e con operazion di
Mercurio, secondo che da 
Giove gli era stato
imposto, fosse fatto che questa vergine, avendo egli gli armenti
reali dalle pasture della montagna vòlti e condotti alla marina,
seguíti gli avesse: quivi essendosi Giove trasformato in un tauro
bianchissimo e bello, e mescolatosi tra gli armenti reali, tanto
benigno e mansueto si mostrò a questa vergine, che essa, prendendo
della sua mansuetudine piacere, primieramente prese ardire di
toccarlo con la mano e pigliarlo per le corna e menarselo appresso;
poi, cresciuto l’ardire in lei, dal disiderio tratta, vi montò su.
La qual cosa sentendo Giove, soavemente portandola, a poco a poco si
cominciò a recare in su il lito del mare, e, quando tempo gli parve,
si gittò in alto mare. Di che la vergine, paurosa di non cader
nell’acqua, attenendosi forte alle corna, quanto piú poteva lo
strigneva con le ginocchia, e, in questa guisa notando, il toro da
quello lito di Soría ne la portò infino in Creti; e quivi, ripresa
la sua vera forma d’uomo, giacque con lei, e in processo di tempo
n’ebbe tre figliuoli, Minos e Radamanto e Sarpedone. Minos, divenuto
a virile etá, prese per moglie una bellissima giovane chiamata
Pasife, figliuola del Sole, e di lei gerrerò figliuoli e figliuole,
intra’ quali fu Androgeo, giovane di mirabile stificanza: il quale,
ne’ giuochi palestrici essendo artificioso molto, e di corporal forza
oltre ad ogni altro valoroso, percioché ogni uomo vincea, fu per
invidia dagli ateniesi e da’ megaresi ucciso. Per la qual cosa Minos,
avendo fatto grande apparecchiamento di navilio e d’uomini d’arme per
andare a vendicarlo, e volendo, avanti che andasse, sagrificare al
padre, cioè a Giove, il quale il bestiale error degli antichi crede
a essere iddio del cielo, il pregò che alcuna ostia gli mandasse, la
qual fosse degna de’ suoi altari. Per la qual cosa Giove gli mandò
un toro bianchissimo, e tanto bello quanto piú essere potesse. Il
quale come Minos vide, dilettatosi della sua bellezza, uscitogli di
mente quello per che ricevuto l’avea, il volle piú tosto preporre a’
suoi armenti, per averne allievi, che ucciderlo per ostia; e, fatto
il sacrificio d’un altro, andò a dare opera alla sua guerra. E,
assaliti prima i megaresi, e quegli per malvagitá di Scilla,
figliuola di Niso, re de’ megaresi, avendosi sottomessi; fatta poi
grandissima guerra agli ateniesi, quegli similmente vinse, e alla sua
signoria gli sottomise e a detestabile servitudine gli si fece
obbligati; tra l’altre cose imponendo loro che ogni anno gli dovesson
mandare in Creti sette liberi e nobili garzoni, li quali esso donasse
in guiderdone a colui che vincitor fosse ne’ giuochi palestrici, li
quali in anniversario d’Androgeo avea constituiti. Ma, in questo
mezzo tempo che esso gli ateniesi guerreggiava, avvenne, e per l’ira
conceputa da Giove contro a Minos, e per l’odio il quale Venere
portava a tutta la schiatta del Sole, il quale il suo adulterio e di
Marte aveva fatto palese, che Pasife s’innamorò del bel toro, il
qual Minos s’avea riservato, senza averlo sacrificato al padre che
mandato gliel’avea; e per opera ed ingegno di Dedalo giacque con lui,
in una vacca di legno contraffatta ad una della quale il toro
mostrava tra l’altre di dilettarsi molto; e di lui concepette e poi
partorí una creatura, la quale era mezzo uomo e mezzo toro. Della
quale ignominia fu fieramente contaminata la gloria della vittoria
acquistata da Minos. Nondimeno esso fece prendere Dedalo ed Icaro,
suo figliuolo, e fecegli rinchiudere nella prigione del laberinto, la
quale Dedalo medesimo aveva fatta. E questo laberinto non fu fatto
come disegnato l’abbiamo, cioè di cerchi e di ravvolgimenti di mura,
per li quali andando senza volgersi, infallibilmente si perveniva nel
mezzo, e cosí, tornando senza volgersi, se ne sarebbe l’uom senza
dubbio uscito fuori: ma egli fu, e ancora è, un monte tutto dentro
cavato, e tutto fatto ad abituri quadri a modo che camere, e ciascuna
di queste camere ha quattro usci, in ciascuna faccia uno, i quali
vanno ciascuno in camere simiglianti a queste, e cosí poco si puote
avanti andare, che l’uomo 
si
smarrisce entro senza saperne fuori uscire, se per avventura non è.
Poi ivi a certo tempo essendo ad Atene venuto per sorte che Teseo,
figliuolo del re Egeo, dovesse, con gli altri che per tributo eran
mandati, venire in Creti; e quivi venuto, secondo che Ovidio scrive,
con certe arti mostrategli da Adriana, figliuola di Minos, vinse il
Minotauro ed ucciselo, e da cosí vituperevol servigio liberò gli
ateniesi: e occultamente di Creti partendosi, seco ne menò Adriana
e Fedra, figliuole di Minos. E Dedalo d’altra parte, fatte alie a sé
e al figliuolo, di prigione uscendo se ne volò in Cicilia, e di
quindi a Baia: la qual cosa sentita da Minos, con armata mano
incontanente il seguitò: ma esso appo Camerino in Cicilia, secondo
che Aristotile scrive nella
Politica,
fu dalle figliuole di Crocalo ucciso. Dopo la morte del quale,
percioché esso avea leggi date a’ cretensi, e con giustizia
ottimamente gli avea governati, i poeti, fingendo, dissero lui
essere giudice in inferno. E di lui scrive cosí Virgilio:


Quaesitor Minos
urnam movet: ille silentum conciliumque vocat, vitasque et crimina
discit,
ecc.

Ma, percioché non pare
per le fizion sopra dette s’abbia la veritá dell’istoria di Minos,
par di necessitá di rimuover la corteccia di quella, e lasciare nudo
il senso allegorico, nel quale apparirá piú della veritá della
storia: dico piú, percioché tra le fizion medesime n’è parte
mescolata.

Vogliono adunque i
poeti sentir per Mercurio, mandato a far venire gli armenti d’Agenore
dalla montagna alla marina, alcuna eloquente persona mandata come
mezzana da Giove ad Europa; e, per la forza della eloquenza di questa
cotal persona, essere Europa condotta alla marina, dove Giove ciò
occultamente aspettando, la prese e portonnela in su una sua nave a
ciò menata, la quale o era chiamata «tauro», o avea per segno un
tauro bianco, come noi veggiamo fare a questi navicanti, li quali a
ciascun lor legno pongono alcun nome, e similmente alcun segno; e
cosí ne fu trasportata in Creti, dove essa partorí i detti
figliuoli di Giove. Sono nondimeno alcuni che dicono che, essendo
ella in Creti divenuta, e alcun tempo con Giove dimorata, che Giove
senza avere avuto alcun figliuolo di lei, la lasciò: e Asterio, in
que’ tempi re di Creti, secondo che scrive Eusebio
in
libro

Temporum,
la prese per moglie, ed ébbene quegli figliuoli, de’ quali di sopra
è detto. E, se cosí fu,

possiam
comprendere aver gli antichi ficto Minos esser figliuolo di Giove, o
per ampliar la gloria della sua progenie, o perché nelle sue
operazioni si mostrò simile a quel pianeto, il quale noi chiamiamo
Giove. Ed esso, tra l’altre sue condizioni, ebbe questa, che esso fu
a’ sudditi equale e diritto uomo, e servò severissimamente giustizia
in tutti, e diede leggi a’ cretensi, le quali mai piú avute non
aveano. E, accioché a rozzo popolo fossero piú accette, solo se
n’andava in una spelunca, e in quella, poi che composto avea ciò che
immaginava esser bene e utilitá de’ sudditi suoi, uscendo fuori,
mostrava al popolo sé, quello che scritto o composto avea, avere
avuto da Giove suo padre: donde per avventura seguí, per questa
astuzia, che esso fu reputato figliuolo di Giove e le leggi da lui
composte furono avute in grandissimo pregio. Ma lui essere stato
figliuolo d’Asterio non pare che in alcun modo il conceda il tempo,
conciosiacosaché egli apparisca Asterio aver regnato in Creti ne’
tempi che Danao regnò in Argo, che fu intorno degli anni del mondo
tremilasettecentotré, e la guerra, la quale ebbe Minos contro agli
ateniesi, fu regnante Egeo in Atene, che fu intorno agli anni del
mondo tremilanovecentosessanta. Ed è Minos per ciò stato detto da’
poeti esser giudice in inferno, percioché noi mortali, avendo
rispetto a’ corpi superiori, ci possiam dire essere in inferno: ed
esso, come detto è, appo i mortali compose le leggi, e rendé
ragione a’ domandanti; nelle quali cose esso esercitò uficio di
giudice.

Le vestigie de’ quali
imitando l’autore, qui per giudice ed esaminatore delle colpe il pone
appo quegli d’inferno, dicendo che egli sta quivi «orribilmente»;
e, a dimostrare il suo orrore dice: «e ringhia». Ringhiare suole
essere atto dei cani, minaccianti alcuno che al suo albergo
s’appressi. «Esamina le colpe» dell’anime di coloro che laggiú
caggiono. E qui comincia l’autore a discrivere l’uficio di questo
Minos, in quanto dice che «esamina»: e cosí appare lui in questo
luogo esser posto per giudice, percioché a’ giudici appartiene
l’esaminare delle cose commesse. E séguita: «nell’entrata». E qui
discrive il luogo conveniente a quell’ufizio, accioché alcuna non
possa passare, senza esser sottentrata alla sua esaminazione.
«Giudica». Séguita qui l’autore l’ordine giudiciario; percioché
primieramente conviene che il discreto giudice esamini i meriti della
quistione, e dopo la esaminazione giudichi quello che la legge o
talora l’equitá vuole; e, dopo il giudicio dato, quello mandi ad
esecuzione che avrá giudicato. E però segue: «e manda» ad
esecuzione, o comanda che ad esecuzion sia mandato. E qui discrive, a
questo demonio posto per giudice, essere una dimostrazione assai
strana in dichiarare quello che vuole che ad esecuzion si mandi, in
quanto dice: «secondo ch’avvinghia», cioè secondo il numero delle
volte ch’egli dá dintorno alla persona la coda sua.

Ora, percioché
all’autore pare aver molto succintamente discritto l’uficio di questo
Minos, per farlo piú chiaro, reassume e dice: «Dico», reassumendo,
«che, quando l’anima mal nata», cioè del peccator dannato («
quia
melius fuisset illi, si natus non fuisset homo ille
»),
«Gli vien dinanzi», a 
questo giudice, «tutta
si confessa», cioè tutta s’apre, senza alcuna riservazion fare
delle sue colpe. La qual cosa, cioè riservarsi e nascondere delle
sue colpe, eziandio volendo, non potrebbe fare, percioché non
veggiono i giudici spirituali con quegli occhi che veggiam noi, ma
prestamente e senza alcun velame veggion ciò che al loro uficio
appartiene. «E quel cognoscitor delle peccata», cioè Minos;
dimostrando in lui essere, tra l’altre, una delle condizioni
opportune a coloro che preposti sono al giudicio delle colpe
d’alcuno, cioè che essi sieno discreti e cognoscano gli effetti e le
qualitá di quelle cose, le quali possono occorrere al suo giudicio;
«Vede qual luogo d’inferno è da essa», cioè quale supplicio
infernale sia conveniente alla sua colpa.

«Cingesi con la coda
tante volte, Quantunque gradi vuol che giú sia messa». È qui da
sapere lo ‘nferno, secondo che al nostro autor piace, esser distinto
in nove cerchi, e quanto piú si discende verso il centro, cioè
verso il profondo dell’inferno, piú sono i cerchi stretti e i
tormenti maggiori. E, percioché la faccenda di costui è grande
intorno all’esaminare e al giudicar che fa singularmente di ciascuna
anima; per dar piú spaccio alle sue sentenze, ha quel modo trovato
di doversi cingere con la coda tante volte, quanti gradi, cioè
cerchi, esso vuole che l’anima da lui esaminata sia infra l’inferno
messa: e, mentre fa con la coda questa dimostrazione, nondimeno con
le parole attende alla esaminazione.

«Sempre dinanzi a lui
ne stanno molte»; peroché, come giá dimostrato è, la quantitá di
quegli che muoiono nell’ira di Dio è molta: e queste cotali «Vanno
a vicenda», cioè ordinatamente l’una appresso all’altra, come
venute sono, «ciascuna al giudizio», che di loro dee esser dato; e
quivi, «Dicono», le lor colpe, «e odono», la sentenza data di
loro, «e poi son giú vòlte», in inferno ne’ luoghi diterminati
da’ ministri di questo giudice.

«O
tu che vieni». Qui dimostra l’autore questo Minos, sotto spezie di
parole amichevoli, averlo voluto spaventare, dicendo: «O tu, che
vieni al doloroso ospizio» dello ‘nferno, – «Disse Minos a me,
quando mi vide», esser vivo, «Lasciando l’atto», cioè
l’esercizio, «di cotanto offizio», quanto è l’avere ad esaminare
e a giudicare tutte l’anime de’ dannati: – «Guarda com’entri»,
quasi voglia dire che chi entra in questo luogo non ne può mai poi
uscire, «e di cui tu ti fide»: volendo che l’autore per queste
parole intenda non esser discrezione il mettersi per sua salute
dietro ad alcuno che se medesimo non abbia saputo salvare. Quasi
voglia dire: – Virgilio non ha saputo salvar sé, dunque come credi
tu che egli salvi te? – Sentiva giá questo dimonio per la natura
sua, la quale, come che per lo peccato da lui commesso fosse di
grazia privata, non fu però privata di scienza, che l’autor non
doveva quel cammin far vivo se non per sua salute, dal quale esso
dimonio l’avrebbe volentieri frastornato. «Non t’inganni l’ampiezza
dell’entrare», – la quale è libera ed espedita a tutti quegli che
dentro entrar ci vogliono, ma l’uscire non è cosí. E par qui che
questo dimonio amichevolmente e con fede consigli l’autore; il che
non suole esser di lor natura, e nel vero non è. Non dico perciò
che essi alcuna volta non deano de’ consigli che paiono buoni e
utili; ma essi non sono, né furon mai, né buoni né utili,
percioché da loro non son dati a salutevol fine, ma, per farsi piú
ampio luogo, nella mente di chi crede loro, a potere ingannare, gli
dánno talvolta. E perciò è con somma cautela da guardarsi da’
consigli de’ malvagi uomini, percioché, quanto miglior paiono, piú
è da suspicare non vi sia sotto nascosa fraude ed inganno.

Poi séguita: «E ‘l
duca mio a lui: – Perché pur gride?» Non poté sostener Virgilio di
lasciargli compiere l’orazione, conoscendo che egli non consigliava
l’autore a buon fine; ma sentendo l’autore, forse per ostupefazione,
non aver pronto che rispondere, disse egli con parole alquanto
austere: O Minos, «perché pur gride», ingegnandoti di spaventarlo?
«Non impedire», con questo tuo sgridare, «il suo fatale andare»,
cioè il suo andare da divina disposizion procedente.

E questo vocabolo
«fatale» e come si debba intendere «fato», si dichiarerá
appresso nel nono canto sopra quelle parole: «Che giova nelle fata
dar di cozzo?» Ma nondimeno, brievemente alcuna cosa dicendone, dico
che è da sapere, secondo che Boezio
in
libro De consolatione

ditermina, fato non è altro che disposizione della divina mente
intorno alle cose presenti e future. E questo medesimo par sentire
santo Agostino nel quinto
De
civitate Dei
;
il quale, poi che in questa


conclusione è venuto,
dice queste parole: «
Sententiam
tene, linguam comprime
»;
volendo che noi tegnamo la sentenza, ma schifiamo il vocabolo, cioè
di chiamar «fato» la divina disposizione. E questo non fu ne’ suoi
tempi senza cagione: la qual fu, percioché allora venendo
moltitudine di gentili alla fede cattolica, e però ancor tenera
surgendo la cristiana religione, accioché ogni cosa in quanto si
potesse si togliesse via (dico di quelle che alcuna forza paressero
avere in rivocare negli errori lasciati i gentili, ancora non molto
fermati nella cattolica veritá), e questo e molti altri vocaboli, li
quali i gentili usavano, si guardavano di usare nelle loro
predicazioni e nelle loro scritture. Ma oggi, per la grazia di Dio, è
sí radicata e sí ferma ne’ petti nostri la dottrina evangelica, che
senza sospetto si può tra’ savi ogni vocabolo usare.

«Vuolsi cosí», cioè
che questi entri qua entro vivo, e vegga la miseria di te e degli
altri dannati. E dove si vuole? Vuolsi «colá dove si puote Ciò che
si vuole», cioè nella mente divina, la qual sola puote ciò che
ella vuole; «e piú non dimandare»; – quasi dica: – A te non
s’appartiene di sapere che si muova la divinitá a voler questo. –

«Ora incomincian».
Qui comincia la terza parte di questo canto, nella qual dissi si
conteneva qual peccato in questo secondo cerchio si punisca e in qual
supplicio; alla quale mostra l’autore, avendo Virgilio posto silenzio
a Minos, d’esser pervenuto. E, percioché infino a questo luogo era
venuto per tutto quasi il primo cerchio, senza udire alcun rumore di
pianti o di lamenti, dice: «Ora incomincian le dolenti note A
farmisi sentire», cioè le varietá de’ pianti, le quali si facevano
al suo audito sentire; «or son venuto Lá dove molto pianto mi
percuote», gli orecchi. E dice «percuote», percioché, essendo
l’aere percosso dalle voci dolenti de’ tormentati, è di necessitá
che egli si muova, e col suo moto percuota quelle cose le quali
movendosi truova, delle quali era la sensualitá dell’autore che
quivi vivendo si trovava.

«Io venni in luogo
d’ogni luce muto», cioè privato, «Che mugghia», cioè risuona,
questo luogo, per lo ravvolgimento delle strida e de’ pianti, il
suono de’ quali raccolto insieme, fa un rumore simile a quello che
noi diciamo che mugghia il mare ne’ tempi tempestosi, e però dice:
«come fa ‘l mar per tempesta, Se da contrari venti è combattuto»,
cioè infestato. Il che assai volte addiviene, che la contrarietá
de’ venti, che alcuna volta spirano, son cagione delle tempeste del
mare. E chiamasi questo romore del mare impropriamente «mugghiare»:
e, percioché da sé non ha proprio vocabolo, è preso un vocabolo a
discriver quel romore che piú verisimilmente gli si confaccia, e
questo è «mugghiare», il quale è proprio de’ buoi; ma percioché
è un suono confuso e orribile, par che assai convenientemente
s’adatti al romor del mare.

«La bufera infernal».
Bufera, se io ho ben compreso, nell’usitato parlar delle genti è un
vento impetuoso, forte, il qual percuote e rompe e abbatte ciò che
dinanzi gli si para; e questo, se io comprendo bene, chiama
Aristotile nella
Meteora
«
enephias»,
il quale è causato da esalazioni calde e secche levantesi dalla
terra e saglienti in alto; le quali, come tutte insieme pervengono in
aere ad alcuna nuvola, cacciate indietro dalla frigiditá della detta
nuvola con impeto, divengon vento, non solamente impetuoso, ma
eziandio valido e potente di tanta forza, che, per quella parte dove
discorre, egli abbatte case, egli divelle e schianta alberi, egli
percuote e uccide uomini e animali. È il vero che questo non è
universale, né dura molto; anzi vicino al luogo dove è creato, a
guisa d’una striscia discorre, e quanto piú dal suo principio si
dilunga, piú divien debole, infino a tanto che infra poco tempo si
risolve tutto. Questo adunque mi pare che l’autor voglia sentire per
questa «bufera»: e benché nella concavitá della terra questo
vento causar non si possa, de’si intendere in questo luogo non
causato, ma per divina giustizia essere posto e ordinato perpetuo.
Dice adunque: «che mai non resta», di soffiare, come fa quello che
quassú si genera, «Mena gli spiriti», dannati, «con la sua
rapina», cioè col suo rapinoso movimento; «Voltando e percotendo»:
per questi effetti si può comprendere, questa bufera esser quel
vento che detto è, cioè
enephias;
«gli molesta», cioè gli tormenta. E in questo, che qui è
dimostrato, si può comprendere qual sia il supplicio dato all’anime,
le quali in questo cerchio per li lor meriti ricevon pena.


Le quali anime, cosí
menate e percosse insieme da questo cosí impetuoso e forte vento,
«Quando giungon», mandate da Minos, «davanti alla ruina», che
dall’impeto di questo vento procede, «Quivi le strida», comincian
grandissime, «il compianto e ‘l lamento», de’ miseri; «Bestemmian
quivi la virtú divina». In questo bestemmiare si dimostra la
quantitá grandissima e acerba dell’afflizione de’ dolenti che questo
tormento ricevono, la quale a tanta ira gli commuove che essi
bestemmiano Iddio.

«Intesi ch’a cosí
fatto tormento». Qui, poi che l’autore ha posta la qualitá del
tormento, dichiara quali sieno i peccatori a’ quali questo tormento è
dato, e dice che intese, da Virgilio si dee credere, «che a cosí
fatto tormento», come disegnato è, «Eran dannati i peccator
carnali, Che la ragion sommettono al talento», cioè alla volontá.
E, come che questo si possa d’ogni peccatore intendere, percioché
alcun peccatore non è che non sottometta peccando la ragione alla
volontá; vuol nondimeno l’autore che, per quel vocabolo «carnali»,
s’intenda singularmente per li lussuriosi.

Séguita dunque: «E
come gli stornei». Qui intende l’autore per una comparazione
discrivere in che maniera in questo luogo. sieno i peccator carnali
menati e percossi dalla sopradetta infernal bufera, e dice che, come
«l’ali», volando, «ne portan» gli stornelli, «Nel freddo tempo»,
cioè nel mezzo dell’autunno, nel qual tempo usano gli stornelli e
molti altri uccelli, secondo lor natura, di convenirsi insieme e di
passare dalle regioni fredde nelle piú calde per loro scampo, e in
quelle ne vanno, «a schiera larga e piena», cioè molti adunati
insieme: «Cosí quel fiato», cioè quella bufera, ne porta «gli
spiriti mali», cioè dannati, li quali a grandi schiere per quel
cerchio, «Di qua, di lá, di giú, di su gli mena», senza servare
alcun modo o ordine, l’uno contro all’altro nello scontrarsi
crudelmente percotendo. E oltre a questo cosí faticoso tormento,
dice: «Nulla speranza gli conforta mai», questi cotali miseri e
percossi, «Non che di posa», cioè d’avere alcuna volta riposo,
«ma» ancora non gli conforta «di» dovere aver mai «minor pena»,
che quella la quale hanno percotendosi insieme.

«E come i grú». Qui
per un’altra comparazione ne discrive una brigata di quegli spiriti
dannati aver veduti venire verso quella parte, dove esso e Virgilio
erano; e dice quegli esser da quel vento menati in quella forma che
volano per aere i grú. «Van cantando lor lai», cioè lor versi. Ed
è questo vocabolo preso, cioè «lai», per parlar francesco, nel
quale si chiamano «lai» certi versi in forma di lamentazione nel
lor volgare composti. «Facendo in aer di sé», medesimi volando,
«lunga riga», percioché stendono il collo, il quale essi hanno
lungo, innanzi, e le gambe, le quali similmente hanno lunghe, e cosí
fanno di sé lunga riga. «Cosí vid’io venir» spirti, li quali
facevan lunga riga di sé, cioè di tutta la persona, «traendo guai,
Ombre portate dalla detta briga», cioè dalla detta bufera. «Per
ch’io dissi: – Maestro, chi son quelle Genti, che l’aura nera sí
gastiga?»- cioè tormenta, impetuosamente portandole.

«La
prima di color». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
nella qual dissi che l’autore nominava alquanti degli spiriti
dannati a questa pena. Dice adunque: – «La prima di color», che
cosí son portati, e «di cui novelle Tu vuo’ saper» -, cioè la
condizione e la cagione perché a questo supplicio dannata sia, «mi
disse quegli allotta – Fu imperadrice di molte favelle», cioè fu
donna di molte nazioni, nelle quali erano molti e diversi modi di
parlare. «A vizio di lussuria fu sí rotta», sí inchinevole «Che
il libito», cioè il beneplacito, intorno a ciò che a quel vizio
apparteneva, «fe’ licito», cioè concedette che lecito fosse in
tutte le nazioni che ella signoreggiava; e questo fece «in sua
legge», cioè per sua legge. E appresso dice la cagione perché
questa legge cosí abominevole fece, cioè, «Per tôrre», per
levar via «il biasmo», la infamia «in che era condotta», per le
sue disoneste operazioni in quel peccato. «Ella è Semiramis» (poi
che detto ha il vizio nel quale condotta fu, la nomina: Semiramis),
«di cui si legge», appo molti antichi istoriografi, «Che
succedette a Nino», suo marito, dopo la morte di lui nel regno, «e
fu sua sposa», mentre esso Nino visse.

Ma, accioché piú
pienamente si comprenda chi costei fosse, e quali fossero le sue
operazioni, è da dire alquanto piú pienamente la sua istoria. Dico
adunque che, chi che Semiramis si 
fosse per nazione, non
si sa, quantunque alcuni poeti antichissimi fingano lei essere stata
figliuola di Nettuno; ma che essa fosse moglie di Nino, re degli
assiri, per lo testimonio di molti istoriografi appare. Concepette
costei di Nino, suo marito, un figliuolo, il quale nato nominaron
Ninia; ed avendosi giá Nino per forza d’arme soggiogata quasi tutta
Asia, ed ultimamente ucciso Zoroastre e’ battri, suoi sudditi,
avvenne che, fedito nella coscia d’una saetta, si morí. Per la qual
cosa la donna, temendo di sottomettere alla tenera etá del figliuolo
cosí grande imperio, e di tanta e cosí strana gente e nuovamente
acquistato, pensò una mirabile malizia, estimando con quella dover
potere reggere i popoli, li quali Nino, ferocissimo uomo, s’aveva con
armi sottomessi e alla sua obbedienza costretti. E, avendo riguardo
che essa in alcune cose era simile al figliuolo, e massimamente in
ciò che esso ancora non avea barba, e che nella voce puerile era
simile a lei, e similmente nella lineatura del viso; estimò potere
sé, in persona del figliuolo, presentare agli eserciti del padre. E,
per poter meglio celare l’effigie giovanile, si coperse la testa con
una mitra, la quale essi chiamavan «tiara», e le braccia e le gambe
si nascose con certi velamenti. E, accioché la novitá dell’abito
non avesse a generare alcuna ammirazione di lei in coloro che da
torno le fossero, comandò a tutti che quello medesimo abito
usassero. E in questa forma, dicendo sé esser Ninia, se medesima
presentò agli eserciti; e cosí, avendo acquistata real maestá,
severissimamente servò la disciplina militare, e con virile animo
ardí non solamente di servare lo ‘mperio acquistato da Nino, ma
ancora d’accrescerlo; e a niuna fatica, che robusto uomo debba poter
sofferire, perdonando, si sottomise Etiopia, e assalí India, nella
quale alcun altro mortale, fuor che il marito, non era stato insino a
quel tempo ardito d’entrar con arme. Ed essendole in molte cose ben
succeduto del suo ardire, non dubitò di manifestarsi esser
Semiramis, e non Ninia, a’ suoi eserciti. Essa, oltre alle predette
cose, pervenuta in Babillonia, antichissima cittá da Nembrot
edificata, e veggendola in grandissima diminuzione divenuta, a quella
tutte le mura riedificò di mattoni, e quelle rifece di mirabile
grossezza, d’altezza e di circúito. E, parendole aver molto fatto, e
posto tutto il suo imperio in riposo, tutta si diede alla lascivia
carnale, ogni arte usando che usar possono le femmine per piacere. E,
tra l’altre volte, facendosi ella con grandissima diligenza le
trecce, avvenne che, avendo ella giá composta l’una, le fu
raccontato che Babillonia le s’era ribellata e venuta nella signoria
d’un suo figliastro. La qual cosa ella sí impazientemente ascoltò,
che, lasciato stare il componimento delle sue trecce, e i pettini e
gli specchi gittati via, prese subitamente l’armi, e, convocati i
suoi eserciti, con velocissimo corso n’andò a Babillonia, e quella
assediò; né mai dall’assedio si mosse, infino a tanto che presa
l’ebbe e rivocata sotto la sua signoria: ed allora si fece la
treccia, la quale ancora fatta non avea, quando la ribellione della
cittá le fu detta. E questa cosí animosa operazione, per molte
centinaia d’anni testimoniò una statua grandissima fatta di bronzo,
d’una femmina la quale dall’un de’ lati avea i capelli sciolti, e
dall’altro composti in una treccia, la quale nella piazza di
Babillonia fu elevata. E, oltre a questa cosí laudabile operazione,
molte altre ne fece degne di loda, le quali tutte bruttò e disonestò
con la sua libidine. La quale ancora, secondo che l’antichitá
testimonia, crudelmente usò; percioché, come alquanti dicono,
quegli giovani, li quali essa eleggeva al suo disonesto servigio, poi
che quello aveva usato, accioché occulto fosse, quegli faceva
uccidere. Ma nondimeno, quantunque ella crudelmente occultasse gli
adultèri, i parti conceputi di loro non poté occultare. E sono di
quegli che affermano, lei in questo scellerato servigio aver tirato
il figliuolo: e, accioché alcuna delle sue femmine non gli potesse
lui col suo servigio sottrarre, dicono sua invenzione essere stata
quel vestimento, il quale gli uomini fra noi usano a ricoprire le
parti inferiori, e di quello aver le sue femmine vestite, e ancora
con chiave fermatolo. Dicono ultimamente alcuni che, avendo ella a
questa disonestá richiesto il figliuolo, che il figliuolo, avendo
ella giá regnato trentadue anni, l’uccise. Alcuni altri dicono esser
vero che il figliuolo l’uccidesse, ma non per questa cagione: anzi o
perché esso se ne vergognasse, o perché egli temesse non forse ella
partorisse figliuolo, che con opera di lei il privasse del regno.
Appresso,
pur di lei seguendo, dice l’autore: «Tenne la terra, che ‘l soldan
corregge», la quale 
Egitto;
e chiamasi soldano di Babillonia, non da Babillonia di Caldea, la
qual Semiramis fece restaurare, ma da una Babillonia la quale è
quasi nella estremitá meridionale d’Egitto, la quale 
edificò Cambise, re di
Persia. Leggesi nondimeno che ella assalí Egitto. Se ella l’occupò
o no, non so.

«L’altra», che segue
nella predetta schiera Semiramis, «è colei che s’ancise amorosa»,
cioè amando, «E ruppe fede», congiugnendosi con altro uomo, «al
cener di Sicheo», suo marito stato.

Vuole l’autore per
questa circunscrizione che noi sentiamo costei essere Didone,
figliuola che fu del re Belo di Tiro, la istoria della quale si
racconta in due maniere. Dido, il cui nome fu primieramente Elisa,
fu, secondo che Virgilio scrive, figliuola di Belo, re de’ fenici. Il
quale Belo, venendo a morte, Pigmaleone suo fratello e lei, ancora
fanciulli, lasciò nelle mani de’ suoi sudditi, li quali in loro re
sublimarono Pigmaleone; ed Elisa, cosí fanciulla come era, diêro
per moglie ad Acerba o Sicheo che si chiamasse, o vero Sicarba, il
quale era sacerdote d’Ercule, il quale sacerdozio era, dopo il reale,
il primo onore appo i tiri: li quali insieme santissimamente
s’amarono. Era oltre ad ogni uomo avaro Pigmaleone; per la qual cosa
Sicheo, il quale era ricchissimo, temendo l’avarizia del cognato,
ogni suo tesoro avea nascoso. Nondimeno, essendo ciò pervenuto
all’orecchie di Pigmaleone, cominciò quelle ricchezze ferventemente
a disiderare, e, per averle, fraudolentemente uccise Sicheo. La qual
cosa avendo Elisa sentito, e dolorosamente pianta la morte del
marito, temendo di sé, tacitamente prese consiglio di fuggirsi; e,
posta giú ogni feminea tiepidezza e preso virile animo, di che ella
fu poi chiamata Didone, avendo tratti nella sua sentenza certi nobili
uomini de’ fenici, li quali ella conoscea che odiavano Pigmaleone,
presi certi navili del fratello, e quegli senza alcuna dimora armati,
come se del luogo dove era andar se ne volesse al fratello,
nascosamente in quegli fece caricar tutti i tesori stati del suo
marito, e, oltre ad essi, quegli che aver poté del fratello; e
palesamente fece mettere nelle navi sacchi pieni di rena e guardarli
bene. Ed essendo con coloro, li quali sentivano il suo consiglio,
salita sopra le navi, come in alto mare si vide, comandò che questi
sacchi pieni di rena tutti fossero gittati in mare. E, come questo fu
fatto, convenuti tutti insieme i marinai e gli altri, lagrimando
disse: – Io, facendo gittare in mare tutti i tesori di mio marito, ho
trovato modo alla mia morte, la quale io ho lungamente disiderata. Ma
io ho compassione a voi, carissimi amici e compagni della mia colpa;
percioché io non dubito punto, che, come noi perverremo a
Pigmaleone, il quale sapete è avarissimo, egli fará crudelmente me
e voi morire. Nondimeno, se vi piacesse con meco insieme fuggirvi e
lontanarvi dalla sua potenza, io 
prometto
di non venirvi mai meno ad alcun vostro bisogno. – La qual cosa
udendo i miseri marinai, quantunque loro paresse grave cosa lasciar
la patria, nondimeno, temendo forte la crudeltá di Pigmaleone,
agevolmente s’accordarono a doverla seguire in qualunque parte ella
diliberasse di fuggire. Dopo il quale diliberamento, piegate le
prode delle navi a ponente, pervennero in Cipri, dove quelle vergini
che alla marina trovarono, persolventi secondo il costume loro li
primi gustamenti di Venere, a sollazzo ed eziandio a procrear
figliuoli de’ giovani che con lei erano, fece prendere e porre in su
le navi; e, similmente, ammonito nel sonno un sacerdote di Giove,
che in quella contrada era, con tutta la sua famiglia ne venne a
lei, annunziando grandissime cose dover seguire, in onore della loro
successione, di questa fuga. Poi quindi partitasi, e pervenuta nel
lito affricano, costeggiando la marina de’ massuli, in quel seno del
mare entrò con le sue navi, dove ella poco appresso edificò la
cittá di Cartagine. E quivi, estimando il luogo esser sicuro alle
navi, per dare alcun riposo a’ marinai faticati, prese terra: dove
venendo quegli della contrada, quale per disiderio di vedere i
forestieri, e quale per guadagnare recando delle sue derrate,
cominciarono a contrarre insieme amistá. E, apparendo la dimora
loro essere a grado a’ paesani, ed essendone ancora confortati da
quegli d’Utica, li quali similmente quivi di Fenicia eran venuti,
quantunque Didone udisse per alcuni, che seguita l’avevano,
Pigmaleone fieramente minacciarla; di niuna cosa spaventata, quivi
diliberò di fermarsi. E, accioché alcuno non sospicasse lei alcuna
gran cosa voler fare, non piú terreno che quanto potesse circundare
una pelle di bue mercatò da quegli della contrada, la quale in
molte parti minutissimamente fatta dividere, assai piú che alcuno
estimato non avrebbe, occupò di terreno. E, quivi fatti e’
fondamenti, fece edificare la cittá, la quale chiamò Cartagine. E,
accioché piú animosamente e con maggior speranza i compagni
adoperassono, a tutti fece mostrare i tesori, li quali essi credeano
aver gittati in mare. Per la qual cosa subitamente le 
mura della cittá, le
torri e’ templi, il porto e gli edifici cittadini saliron su, e
apparve non solamente la cittá esser bella, ma ancora potente e a
difendersi e a far guerra. Ed essa, date le leggi e il modo del
vivere al popol suo, onestamente vivendo, da tutti fu chiamata reina.
Ed essendo per Affrica sparta la fama della sua bellezza e della sua
onestá, e della prudenza e del valore, avvenne che il re de’
mussitani, non guari lontano da Cartagine, venne in disiderio
d’averla per moglie; e, fatti alcuno de’ principi di Cartagine
chiamare, la dimandò loro per moglie, affermando, se data non gli
fosse, esso disfarebbe la cittá fatta e caccerebbe loro e lei. Li
quali conoscendo il fermo proposito di lei di sempre servar castitá,
temetton forte le minacce del re, e non ardiron di dire a Didone,
domandantene, ciò che dal re avevano avuto, ma dissero che il re
disiderava di lasciare la vita e i costumi barbari e d’apprendere
quegli de’ fenici. Perciò voleva alquanti di loro che in ciò
l’ammaestrassero; e, dove questi non avesse, minacciava di muover
guerra loro e disfare la cittá. E però, conciofossecosaché essi
non sapessono chi di loro ad esser con lui andar si volesse, temevan
forte non quello avvenisse che il re minacciava. Non s’accorse la
reina dell’astuzia, la quale usavano coloro che le parlavano, e però,
rivolta a loro, disse: – O nobili cittadini, che miseria di cuore è
la vostra? Non sapete voi che noi nasciamo al padre e alla patria? né
si può direttamente dire cittadino colui, il quale non che altro
pericolo, ma ancora, se il bisogno il richiede, non si dispone con
grande animo alla morte per la salute della patria? Andate adunque, e
lietamente con piccolo pericolo di voi rimovete il minacciato
incendio dalla vostra cittá. – Come i nobili uomini udirono questa
riprensione fatta loro dalla reina, cosí parve loro avere da lei
ottenuto quello che essi disideravano, e iscoperserle la veritá di
ciò che il re domandato avea. La qual cosa come la reina ebbe udita,
cosí s’accorse se medesima avere contro a sé data la sentenzia e
approvato il maritaggio; e seco medesima si dolse, né ardí
d’opporsi allo ‘nganno che i suoi uomini aveano usato. Ma subitamente
seco prese quel consiglio che all’onestá della sua pudicizia le
parve di bisogno, e rispose che, se termine le fosse dato, che ella
andrebbe volentieri al marito. Ed essendole certo termine conceduto a
dovere andare al marito, e quello appressandosi, nella piú alta
parte della cittá fece comporre un rogo, il quale estimarono i
cittadini ella facesse per dovere con alcun sacrificio rendersi
benivola l’animo di Sicheo, alla quale le parea romper fede. E
compiuto il rogo, vestita di vestimento bruno, e servate certe
cerimonie e uccise, secondo la loro consuetudine, certe ostie, montò
sopra il rogo, e, aspettante tutta la moltitudine de’ cittadini
quello che essa dovesse fare, si trasse di sotto a’ vestimenti un
coltello, sel pose al petto, e, chiamato Sicheo, disse: – O ottimi
cittadini, cosí come voi volete, io vado al mio marito. – E, appena
finite le parole, vi si lasciò cader suso, con grandissimo dolore di
tutti coloro che la viddero: e invano aiutata, versando il castissimo
sangue, passò di questa vita.

Virgilio non dice cosí,
ma scrive nello
Eneida
che, avendo Pigmaleone occultamente ucciso Sicheo, e tenendo la sua
morte nascosa a Didone, Sicheo l’apparve una notte in sogno, e
revelolle ciò che Pigmaleone avea fatto; ed insegnatole dove i suoi
tesori erano ascosi, la confortò che ella si partisse di quel paese.
Per la qual cosa ella prese i tesori, e, fuggitasi, avvenne che,
facendo ella far Cartagine, Enea, dopo il disfacimento di Troia
partitosi, per tempesta arrivò a Cartagine, dove egli fu ricevuto e
onorato da lei; e, con lei avuta dimestichezza per alcun tempo,
lasciatala malcontenta, si partí per venire in Italia: di che ella
per dolore s’uccise. La quale opinione per reverenza di Virgilio io
approverei, se il tempo nol contrariasse. Assai manifesta cosa è,
Enea, il settimo anno dopo il disfacimento di Troia, esser venuto,
secondo Virgilio, a Didone: e Troia fu distrutta l’anno del mondo,
secondo Eusebio, quattromilaventi. E il detto Eusebio scrive essere
opinione d’alcuni, Cartagine essere stata fatta da Carcedone tirio: e
altri dicono, Tidadidone sua figliuola, dopo Troia disfatta,
centoquarantatrè anni, che fu l’anno del mondo
quattromilacentosessantatré. E in altra parte scrive essere stata
fatta da Didone l’anno del mondo quattromilacentoottantasei. E ancora
appresso, senza nominare alcun facitore, scrive alcun tenere
Cartagine essere stata fatta l’anno del mondo
quattromilatrecentoquarantasette. De’ quali tempi, alcuno non è
conveniente co’ tempi d’Enea: e perciò non credo che mai Enea la
vedesse. E Macrobio
in
libro Saturnaliorum

del tutto il contradice, mostrando la forza dell’eloquenza esser
tanta, che ella aveva potuto far sospettar coloro che sapevano la
storia certa di Dido, e credere che ella fosse secondo che scrive
Virgilio. Fu 
adunque Dido onesta
donna, e, per non romper fede al cener di Sicheo, s’uccise. Ma
l’autore séguita qui, come in assai cose fa, l’opinion di Virgilio,
e per questo si convien sostenere.

«Poi è Cleopatras
lussuriosa». Credo l’autore aver posto questo aggettivo a costei, a
differenza di piú altre Cleopatre che furono, delle quali alcuna non
ne fu, per quel che si legge, cosí viziata di questo vizio, come
costei, della qual qui intende.

Cleopatras fu reina
d’Egitto e, per molti re medianti, trasse origine da Tolomeo,
figliuolo di Lagio di Macedonia: e piace ad alcuni lei essere stata
figliuola di Tolomeo Dionisio, re d’Egitto. Altri dicono il padre di
lei essere stato Tolomeo Mineo, similmente re d’Egitto, il quale,
essendo amicissimo del popolo di Roma, e avendo quattro figliuoli,
due maschi e due femmine, venendo a morte, lasciò, al tempo del
primo consolato di Giulio Cesare, per testamento che il maggior de’
figliuoli, il quale fu nominato Lisania, presa per moglie Cleopatra,
sua sirocchia, e di piú dí che l’altra, insieme dopo la morte
regnassero: la qual cosa per li romani fu mandata ad esecuzione. Ma,
ardendo Cleopatra di disiderio di regnar sola, il suo marito e
fratello fece morir di veleno, e sola tenne il reame. Ma, avendo giá
Pompeo magno quasi tutta l’Asia costretta ad ubbidire a’ romani,
venendo in Egitto, privò Cleopatra del reame, e fecene re il minor
fratello, ancora assai giovinetto. Della qual cosa indegnata
Cleopatra, come piú tosto poté, gli mosse guerra; e, perseverando
in essa, avvenne che Pompeo, vinto da Cesare in Tessaglia, e dal
giovane Tolomeo fatto uccidere in Egitto, e seguitandolo Cesare,
pervenuto in Alessandria, e trovando Cleopatra in guerra contro al
fratello, amenduni gli fece davanti da sé chiamare per udir le
ragioni di ciascuna parte. Davanti al quale dovendo venir Cleopatra,
avendo della sua formositá gran fidanza, percioché bella femmina
fu, ornata di reali vestimenti comparí: e assai leggiermente le
venne fatto di prender con gli occhi e con gli atti suoi il
libidinoso prencipe. Di che seguí che, avendo Cesare piú notti
comuni avute con lei, ed essendo giá il giovane Tolomeo annegato a
Delta, dove contro a Mitridate pergameno, che in aiuto di Cesare
veniva, andato era; Cesare le concedette il reame d’Egitto, menatane
Arsinoe, sirocchia di Cleopatra, accioché per lei alcuna novitá non
fosse suscitata nel regno. Essendo dunque Cleopatra reina, e in
istato tranquillo, in tutte quelle lascivie si diede che dar si possa
disonesta femmina: e, disiderosa di ragunar tesori e gioie, quasi di
tutti i re orientali disonestamente divenne amica. Né le fu questo
assai, ma tutti i templi d’Egitto e le sagre case spogliò di
vasellamenti, di statue e di tesori. Apresso questo, essendo giá
stato ucciso Cesare, e Bruto e Cassio vinti da Ottaviano e da
Antonio, al detto Antonio, vegnente in Siria, si fece incontro in
forma d’onorario: e lui, non altrimenti che Cesare aveva fatto, prese
e inretí del suo amore, e lui indusse innanzi ad ogni altra cosa,
accioché senza alcuna suspizione del regno rimanesse, a fare
uccidere Arsinoe, sua sirocchia, non ostante che essa per sua salute
rifuggita fosse nel tempio di Diana efesia. E, avendo giá invescato
nella sua dilezione Antonio, ardí di chiedergli il reame di Siria e
d’Arabia, li quali col suo terminavano. La qual domanda parendo
troppo grande ad Antonio, non gliele diede, ma, per soddisfarla
alquanto, le diede di ciascuno alcuna particella. Poi, avendo ella
accompagnato Antonio, il quale andava in Partia, infino al fiume
d’Eufrate, e tornandosene, ne venne per Siria, dove magnificamente fu
ricevuta da Erode, re poco davanti per opera d’Antonio stato coronato
di quel reame: lá dove ella non dubitò di fare per interposita
persona tentare Erode della sua dimestichezza, sperando, se a quella
il potesse inducere, di dovergli sottrarre il reame di Siria. Di che
accorgendosi Erode, per levare da dosso ad Antonio l’ignominia di
costei, diliberò d’ucciderla; ma, dagli amici da ciò ritratto,
donatole grandissimi doni, la lasciò tornare in Egitto. Dove dopo
alquanto ricevuto Antonio, il quale in fuga da’ parti s’era tornato,
essendo in lei l’ardor cresciuto del signoreggiare, fu di tanta
presunzione, che ella gli chiese lo imperio di Roma, e Antonio fu
tanto bestiale che egli gliele promise. Ed essendo giá alcuna
cagione nata di guerra tra Antonio e Ottaviano, per l’avere egli
repudiata Ottavia, sua moglie e sirocchia d’Ottaviano, e presa per
moglie Cleopatra, prepararono una grande armata navale, ornata con
vele di porpore e con altri assai arredi preziosissimi, e, sú
montátivi, n’andarono in Epiro: dove venuto giá Ottaviano, e avendo
combattuto in terra e vinta la gente di Antonio, si recarono a volere
provare la fortuna del mare. Nel quale parendo giá Ottaviano dover
vincere, prima a tutti gli altri fuggí Cleopatra, la cui nave aveva
la vela 
d’oro, e lei
seguitarono sessanta delle sue navi. La quale incontanente Antonio,
gittati via della sua nave tutti gli ornamenti pretoriani, seguitò:
e, pervenuti in Alessandria, e ogni sforzo fatto a dover resistere ad
Ottaviano, lui vegnente aspettarono. Il quale avendo molto le lor
forze diminuite, domandò Antonio le condizioni della pace, le quali
non potendo avere, disperatosi entrò nel luogo dove erano usati di
seppellirsi i re, e quivi se medesimo uccise. Ed essendo poi presa
Alessandria, estimando Cleopatra con quelle medesime arti poter
pigliare Ottaviano, con che primieramente Cesare e Antonio presi
avea, e trovandosi del suo pensiero ingannata; udendo che servata era
da Ottaviano al triunfo, turbata e con difficultá d’animo sofferendo
di dover divenire spettaculo de’ romani, vestendosi i reali
ornamenti, lá se n’entrò dove il suo Antonio giaceva morto, e,
postasi a giacere allato a lui, e fattesi aprire le vene delle
braccia, a quelle si pose una spezie di serpenti, chiamati «ypnali»,
il veleno de’ quali ha ad inducer sonno, e a far dormendo morire il
trafitto: e cosí addormentata si morí, quantunque, avendo ciò
udito Ottaviano, si sforzasse di ritenerla in vita, fatti venir
alcuni di que’ popoli che si chiamano «psilli», e fatto lor porre
la bocca alle pugniture del braccio, e tirar fuori l’avvelenato
sangue da’ serpenti; ma ciò fu fatica perduta, percioché la forza
del veleno aveva giá ucciso il cuor di lei.

Sono nondimeno alcuni
che dicono lei davanti a questo tempo morta, e d’altra spezie di
morte; dicendo che, avendo Antonio temuto non, nell’apparecchiamento
della guerra contro ad Ottaviano, Cleopatra con la morte di lui si
facesse benivolo Ottaviano, niuna cosa era usato di bere né di
mangiare, che primieramente non facesse assaggiare ad altrui: di che
essendosi Cleopatra avveduta, a farlo chiaro della sua fede verso di
lui, avvelenò i fiori delle ghirlande le quali il dí davanti
portate aveano: e postesi quelle in capo, mise in festa e in
trastullo Antonio, e tanto procedette col trastullo della festa, che
ella lo ‘nvitò a dover bere le loro ghirlande, e messe i fiori di
quelle in un nappo, dove era quello, o vino o altro, che ber si
dovea: e, volendolo Antonio bere, ella il ritenne, e vietò che nol
bevesse, e disse: – Antonio amantissimo a me, io son quella
Cleopatra, la quale con queste tue disusate pregustazioni tu mostri
d’aver sospetta: e però, se io potessi sofferire che tu bevessi
quello di che tu hai paura, e tempo n’ho, e tu me n’hai data cagione;
– e quindi mostratogli lo ‘nganno, il quale adoperato avea ne’ fiori,
dicono che Antonio la fece prendere e guardare, e costrinsela a bere
quel beveraggio, il quale ella aveva a lui vietato che non bevesse; e
cosí lei vogliono esser morta. La prima opinione è piú vulgata:
senza che, a quella s’aggiugne che, avendo Antonio ed ella cominciata
una magnifica sepoltura per loro. Ottaviano comandò che compiuta
fosse e che amenduni in essa fossero seppelliti.

«Elena vidi», in
questa schiera, «per cui», cioè per la quale, «tanto reo Tempo si
volse», cioè tanta lunga dimension di tempo, la quale per le
circunvoluzioni del cielo misurata passò: la quale lunga dimension
di tempo fu per ispazio di venti anni, cioè dal dí che Elena fu
rapita al dí che a Menelao fu restituita; percioché tanto stette
Elena in Troia, e alquanto piú, sí come Omero nell’ultimo libro
della sua
Iliade
dimostra, lá dove, lei piagnendo sopra il morto corpo di Ettore, fa
dire quasi queste parole, che, essendo ella stata venti anni appo
Priamo e’ figliuoli, mai Ettore non le avea detta una ingiuriosa
parola. È il vero che di questi venti anni non fu l’assedio
continuato intorno ad Ilione, se non i dieci ultimi anni: e però si
può intendere li dieci primi essersi consumati e nel raddomandare
Elena, il che piú volte per ambasceria fecero, e nel sommuovere
tutta Grecia alla impresa contro a’ troiani, e nel dar ordine e nel
fare l’apparecchio delle cose opportune a tanta guerra. E il vero che
gli ultimi dieci furono molto peggiori che i primi, percioché in
essi furono dintorno ad Ilione fatte molte battaglie, e in esse
furono uccisi molti valenti uomini e popolo assai.

Elena fingono i poeti
essere stata figliuola di Giove e di Leda, moglie di Tindaro, re
d’Oebalia, e lui dicono in forma di cigno, con lei bellissima donna e
madre d’Elena, esser giaciuto, narrando in questa forma la favola di
Giove, ecc. Ma le istorie vogliono lei essere stata figliuola di
Tindaro, re d’Oebalia, e di Leda, e sirocchia di Castore e di
Polluce. Fu la bellezza di costei tanto oltre ad ogni altra
maravigliosa, che ella non solamente a discriversi con la penna
faticò il divino ingegno d’Omero, ma ella ancora molti solenni
dipintori e piú intagliatori per maestero famosissimi stancò: e
intra gli altri, sí come Tullio nel secondo dell’
Arte
vecchia

scrive, fu Zeusis eracleate, il 
quale per ingegno e per
arte tutti i suoi contemporanei e molti de’ predecessori trapassò.
Questi, condotto con grandissimo prezzo da’ croteniesi a dover la sua
effigie col pennello dimostrare, ogni vigilanza pose, premendo con
gran fatica d’animo tutte le forze dello ‘ngegno suo; e, non avendo
alcun altro esemplo, a tanta operazione, che i versi d’Omero e la
fama universale che della bellezza di costei correa, aggiunse a
questi due un esempio assai discreto: percioché primieramente si
fece mostrare tutti i be’ fanciulli di Crotone, e poi le belle
fanciulle, e di tutti questi elesse cinque, e delle bellezze de’ visi
loro e della statura e abitudine de’ corpi, aiutato da’ versi
d’Omero, formò nella mente sua una vergine di perfetta bellezza, e
quella, quanto l’arte potè seguire l’ingegno, dipinse, lasciandola,
sí come celestiale simulacro, alla posteritá per vera effigie
d’Elena. Nel quale artificio, forse si poté abbattere l’industrioso
maestro alle lineature del viso, al colore e alla statura del corpo:
ma come possiam noi credere che il pennello e lo scarpello possano
effigiare la letizia degli occhi, la piacevolezza di tutto il viso, e
l’affabilitá, e il celeste riso, e i movimenti vari della faccia, e
la decenza delle parole, e la qualitá degli atti? Il che adoperare è
solamente oficio della natura. E, percioché queste cose erano in lei
esquisite, né vedeano i poeti a ciò poter bastare la penna loro, la
finsero figliuola di Giove, accioché per questa divinitá ne desser
cagione di meditare qual dovesse essere il fulgore degli occhi suoi,
quale il candore del mirabile viso, quanta e quale la volantile e
aurea chioma, da questa parte e da quella con vezzosi cincinnuli
sopra gli candidi ómeri ricadente; quanta fosse la soavitá della
dolce e sonora voce, e ancora certi atti della bocca vermiglia e
della splendida fronte e della gola d’avorio, e le delizie del
virginal petto, con le altre parti nascose da’ vestimenti. Da questa
tanto ragguardevole bellezza fu Teseo, figliuolo d’Egeo, re d’Atene,
tirato in Oebalia a doverla rapire: la quale esso trovata giucare,
secondo il lor costume, nella palestra con gli altri fanciulli di sua
etá, conosciutala la rapí, e portonnela ad Atene: e quantunque per
la troppo tenera etá altro che alcun bascio tôrre non le potesse,
pure alquanto maculò la virginale onestá. Qui si può muovere un
dubbio, conciosiacosaché tutti gli antichi scrittori a questo
s’accordino, che Teseo prima, e poi Paris, la rapissono. Come questo
debba poter esser stato, ecc. Fu nondimeno poi costei da Elettra,
madre di Teseo, non essendo Teseo in Atene, renduta a Castore e a
Polluce, suoi fratelli, raddomandantila. Altri dicono che Teseo
l’avea raccomandata a Proteo, re d’Egitto, e che esso in assenza di
Teseo l’aveva renduta a’ fratelli. Poi appresso, essendo pervenuta ad
etá matura, fu maritata a Menelao, re di Lacedemonia, e dopo
alquanto tempo, essendo esso andato in Creti, fu da Paris troiano
rapita di Lacedemonia e portatane in Troia, e, secondo che alcuni
dicono, di consentimento di lei. Altri dicono che ella fu dal detto
Paris rapita d’un’isola chiamata Citerea, dove ella ad un certo
sacrificio che si faceva, secondo il costume antico, vegghiava la
notte nel tempio dello dio, al quale il sacrificio faceano, con altre
donne della contrada. E son di quegli che affermano senza sua saputa
o volontá questo essere stato fatto. [Qui del modo del vegghiare, e
come di qua il recarono i marsiliesi, e donde vennero le vigilie.] In
Troia dimorò venti anni, come di sopra dicemmo: ed essendo stato
ucciso Paris da Pirro, si rimaritò a Deifobo, suo fratello: e, per
quel che paia voler Virgilio, essendosi secondo l’ordine del trattato
i greci ritrattisi indietro da Ilione e fatto sembiante d’andarsene,
ed ella sapendolo, ed essendo a ciò consenziente, quando vide il
tempo atto al disiderio de’ greci, con un torchio acceso diede lor
segno al venire; di che essi tornati, e preso Ilione e disfatto, e
ricevuta lei, la restituirono a Menelao: il quale dicono che
volentieri la ricevette. E altri vogliono essere la cagione percioché
non di sua volontá fu rapita; altri percioché tenne al trattato, e
diede il cenno a’ greci di ritornare. E, tornandosi costei con
Menelao in Grecia, da noiosa tempesta di mare ne furono portati in
Egitto, e quivi da Polibo re onorevolmente ricevuti; e, oltre a
questo, essendo da diversi casi ritenuti, l’ottavo anno dopo la
distruzione d’Ilione, tornarono in Lacedemonia. Dove scrive Omero,
nella sua
Odissea,
che Telemaco, figliuolo di Ulisse, essendo venuto per domandar
Menelao se alcuna cosa dir gli sapesse d’Ulisse, gli trovò far festa
e nozze grandissime, avendo Menelao dato moglie ad un suo figliuolo
non legittimo, chiamato Megapénti. E da questo tempo innanzi, mai
che di lei si fosse non mi ricorda aver trovato.

«E vidi ‘l grande
Achille, Che con amore», cioè per amore, «al fine», della sua
vita, «combatteo», contro a Paris e agli altri che nel tempio
d’Apollo timbreo l’assalirono e uccisono; nel 
quale Ecuba l’aveva
occultamente e falsamente fatto venire, avendogli promesso di dargli
per moglie Polissena.

[Lez.
XIX]

Achille fu figliuolo di
Peleo e di Tetide minore, nelle cui nozze, ecc. non fu invitata la
dea della discordia, ecc.; e fu d’una cittá di Tessaglia, secondo
che Omero scrive nella
Iliada,
chiamata Ptia: il quale, secondo che i poeti scrivono, come nato fu,
dalla madre fu portato in inferno, e, accioché egli divenisse forte
e paziente delle fatiche, presolo per lo calcagno, tutto il tuffò
nel fiume, ovvero nell’onde di Stige, palude infernale, fuori che il
calcagno di lui, il quale teneva con mano; e questo fatto, il diede a
Chirón centauro, che lo allevasse. Il quale il nutricò, non in
quella forma che gli altri tutti si sogliono nutricare, ma gli faceva
apparecchiare il cibo suo solamente di medolla d’ossa di bestie prese
da lui; e questo faceva, accioché egli, per continuo esercizio, si
facesse forte e destro a sostenere le fatiche. E per questo solea dir
Leon Pilato lui essere stato nominato Achille, ab «a», che tanto
vuol dire quanto «senza», e «
chilos»,
che tanto vuol dire quanto «cibo», quasi «uomo nutricato senza
cibo». Insegnò Chirón a costui astrologia e medicina e sonare
certi istrumenti di corda. Ma, come la madre di lui sentí essere
stata rapita da Paride Elena, conoscendo per sue arti che gran guerra
ne seguirebbe, e che in quella sarebbe il figliuolo ucciso, s’ingegnò
di schifargli con consiglio questo male, se ella potesse: e lui
dormente, e ancora fanciullo senza barba, nascosamente della spelonca
di Chirone il trasse, e portonnelo in una isola chiamata Sciro, dove
regnava un re chiamato Licomede: e con vestimenti femminili, avendolo
ammaestrato che a niuna persona manifestasse sé esser maschio, quasi
come fosse una vergine, gliele diede che il guardasse tra le
figliuole. Ma questo non potè lungamente essere occulto a Deidamia,
figliuola di Licomede, cioè che egli fosse maschio: col quale essa,
preso tempo atto a ciò, si giacque; e per la comoditá, la quale
avea di questo suo piacere, ad alcuna persona non manifestava quello
essere che essa avea conosciuto. E tanto continovò la lor
dimestichezza, che essa di lui concepette un figliuolo, il quale poi
chiamaron Pirro. Ma, poi che i greci ebbero tutti fatta congiurazione
contro a’ troiani, avendo per risponso avuto non potersi Troia
prendere senza Achille, messisi ad investigare di lui, con la
sagacitá d’Ulisse fu trovato e menato a Troia: dove andando, prese
piú cittá di nemici e grandissima preda, e una figliuola del
sacerdote d’Apolline, la qual donò ad Agamennone, e un’altra, che
presa n’avea, chiamata Briseida, guardò per sé. Ed essendo
convenuto, per risponsi degl’iddii, che Agamennone avesse la sua
restituita al padre, tolse Briseida ad Achille: della qual cosa
turbato Achille, non si poteva fare, né per prieghi né per
consiglio, che egli volesse combattere contro a’ troiani. Per che,
essendo i greci un dí fieramente malmenati da’ troiani, avendo egli
concedute le sue armi e il carro a Patrocolo, e Patrocolo essendo
stato ucciso da Ettore, turbato s’armò: e, vinto e ucciso Ettore, e
strascinatolo, e poi tenutolo senza sepoltura dodici dí, e
ultimamente rendutolo a Priamo, e poi perseverando nel combattere,
avendo ucciso Troilo, fratello di Ettore, suspicò Ecuba costui non
doverle alcuno de’ figliuoli lasciare, per che con lui tenne segreto
trattato di dovergli dare Polissena, sua figliuola, per moglie, dove
egli le promettesse piú non prendere arme contro a’ troiani. Amava
Achille Polissena meravigliosamente, percioché ne’ tempi delle
tregue veduta l’avea, ed eragli oltre ad ogni altra femmina paruta
bella. Ed essendo dunque esso in convenzione con Ecuba, secondo che
ella gli mandò dicendo, solo e disarmato andò una notte nel tempio
d’Apollo timbreo, il quale era quasi allato alle mura d’Ilione,
credendosi quivi trovare Ecuba e Polissena; ma come egli fu in esso,
gli uscí sopra Paris con certi compagni; ed essendo Paris
mirabilmente ammaestrato nell’arte del saettare, aperto l’arco, il
ferí d’una saetta nel calcagno, percioché sapeva lui in altra parte
non potere esser ferito: per che Achille, fatta alcuna ma piccola
difesa, cadde e fu ucciso, e poi seppellito sopra l’uno de’
promontori di Troia, chiamato Sigeo.

«Vidi Paris». Paris,
il quale per altro nome fu chiamato Alessandro, fu figliuolo di
Priamo e di Ecuba, del quale Tullio
in
libro De divinatione

scrive che, essendo Ecuba pregna di quella pregnezza della quale ella
partorí Paris, le parve una notte nel sonno partorire una facellina,
la quale ardeva tutta Troia. Il qual sonno essa raccontò a Priamo:
del significato del qual sogno Priamo fece domandare Apollo, il quale
rispose che per opera del figliuolo, il quale nascer dovea di questa 
grossezza, perirebbe
tutta Troia. Per la qual cosa Priamo comandò che il figliuolo che
nascesse, ella il facesse gittar via. Ma, essendo venuto il tempo del
parto, e avendo Ecuba partorito un bel fanciullo, ebbe pietá di lui,
e nol fece, secondo il comandamento di Priamo, gittar via, ma il fece
occultamente dare a certi pastori del re, che l’allevassero: e cosí
da questi pastori fu allevato nella selva chiamata Ida, non guari
dilungi da Troia. Ed essendo divenuto grande, quivi primieramente usò
la dimestichezza d’una ninfa del luogo chiamata Oenone, e di lei ebbe
due figliuoli, de’ quali chiamò l’uno Dafne e l’altro Ideo. E,
dimorando in abito pastorale in quella selva, addivenne un grande e
famoso giudice, e ogni quistione tra qualunque persona con
maravigliosa equitá decideva. Per la qual cosa perduto quasi il vero
nome, cioè Alessandro, era da tutti chiamato Paris, quasi «eguale».
E in questo tempo che esso cosí dimorava, avvenne che Peleo menò
per moglie Teti, e alle sue nozze invitò Giunone, Pallade e Venere.
Di che gravandosi la dea della discordia, che essa non v’era stata
chiamata, preso un pomo d’oro, vi scrisse sú che fosse dato alla piú
degna, e gittollo sopra la mensa, alla quale esse sedevano. Di che,
lette le lettere, ciascuna delle tre dèe diceva a lei, sí come a
piú degna, doversi il detto pomo. Ed essendo tra loro la quistione
grande, andarono per lo giudicio a Giove, il quale Giove non volle
dare, ma disse loro: – Andate in Ida, e quivi è un giustissimo uomo
chiamato Paris; quegli giudicherá qual di voi ne sia piú degna. –
Per la qual cosa le tre dèe andarono nella selva, e trovarono Paris
in una parte di quella chiamata Mesaulon, e quivi proposero davanti a
lui la lor quistione, dicendo Giunone: – Io sono dea de’ regni: se tu
dirai me piú degna di queste altre di questo pomo, io ti farò
signore di molti. – D’altra parte diceva Pallade: – Io sono dea della
sapienza: se tu il dái a me, io ti farò tutte le cose cognoscere e
sapere. – Venere similemente diceva: – Io sono dea d’amore: se tu
dai, come a piú degna, il pomo a me, io ti farò avere l’amore e la
grazia della piú bella donna del mondo. – Le quali udite da Paris,
dopo alcuna diliberazione, egli diede il pomo a Venere, sí come a
piú degna. Per la qual cosa, come appresso si dirá, egli ebbe
Elena. Fu costui, secondo che Servio dice essere stato da Nerone
raccontato nella sua
Troica,
fortissimo, intanto che esso nelle contenzioni agonali, le quali si
facevano a Troia, esso

vinceva
ogni uomo, ed Ettore medesimo. Il quale, turbatosi d’essere da lui
stato vinto, credendo lui essere un pastore, messo mano ad un
coltello, il volle uccidere, e arebbel fatto; se non che Paris, che
giá da’ suoi nutritori saputo l’avea, gridò forte: – Io son tuo
fratello; – che ciò fosse vero provò, mostrate le sue crepundie, le
quali Ecuba vedute riconobbe; e cosí fu riconosciuto e ricevuto
nella casa reale di Priamo, suo padre. Nella quale non guari di tempo
dimorò, che, essendo per mandato di Priamo composte [e fatte] venti
navi, sotto spezie d’ambasciadore a raddomandare Esiona fu mandato in
Grecia; dove alcuni vogliono, e tra questi è Ovidio nelle sue
Pistole,
che esso fosse ricevuto e onorato da Menelao. Ma altri dicono lui
essere in Lacedemonia venuto, non essendovi Menelao, e di quindi alla
fama della bellezza d’Elena essere andato in Isparten, e quella avere
combattuta il primo anno del regno d’Agamennone, non essendovi
Castore né Polluce, fratelli di Elena, li quali ad Agamennone erano
andati, e seco aveano menata Ermione, figliuola di Menelao e d’Elena.
E cosí, avendo presa la cittá, presene Elena, resistente quanto
potea, e, oltre a ciò, tutti i tesori di Menelao, e, ogni cosa posta
sopra le navi, andò via: la qual cosa assai elegantemente tôcca
Virgilio, quando dice:

Me
duce, Dardanius Spartam expugnavit adulter?
ecc.

E per questo vogliono
molti, preso da’ greci Ilione, Elena aver meritato d’essere stata
ricevuta da Menelao. E cosí Paris ebbe la piú bella donna di
Grecia, secondo la promessa di Venere: la quale in Troia menatane, vi
portò quella facellina, la quale Ecuba, essendo gravida in lui, avea
nel sonno veduta che tutta Troia ardea. Adunque per questa rapina
congiurati i greci insieme, vennero ad assediare Ilione: nel quale
essendo prima stato ucciso Ettore, e poi Troilo, esso medesimo Paris
fu ucciso da Pirro, figliuolo d’Achille.
Séguita
poi: «Tristano».
Tristano,
secondo i romanzi de’ franceschi, fu figliuolo del re Meliadus e
nepote del re 
Marco
di Cornovaglia, e fu, secondo i detti romanzi, prode uomo della
persona e valoroso cavaliere:


e d’amore men che
onesto amò la reina Isotta, moglie del re Marco, suo zio, per la
qual cosa fu fedito dal re Marco d’un dardo avvelenato. Laonde
vedendosi morire, ed essendo la reina andata a visitarlo,
l’abbracciò, e con tanta forza se la strinse al petto, che a lei e a
lui scoppiò il cuore, e cosí insieme morirono, e poi furono
similmente seppelliti insieme. Fu costui al tempo del re Artú e
della Tavola ritonda, ed egli ancora fu de’ cavalieri di quella
Tavola.

«E piú di mille Ombre
mostrommi, e nominolle a dito», dice «mille», quasi molte, usando
quella figura la qual noi chiamiamo «iperbole»; «Ch’amor», cioè
quella libidinosa passione, la qual noi volgarmente chiamiamo
«amore», «di nostra vita dipartille», con disonesta morte;
percioché, per quello morendo, onestamente morir non si puote.

«Poscia ch’io ebbi».
Qui comincia la quinta parte del presente canto, nella qual dissi che
l’autore con alcuni spiriti dannati a questa pena parlava, e dice:
«Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito Nomar le donne antiche e i
cavalieri», che di sopra ha nominati; «Pietá mi vinse e fui quasi
smarrito». In queste parole intende l’autore d’ammaestrarci che noi
non dobbiamo con la meditazione semplicemente visitar le pene de’
dannati; ma, visitandole e conoscendole, e conoscendo noi di quelle
medesime per le nostre colpe esser degni, non di loro, che dalla
giustizia son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver pietá, e
dover temere di non dovere in quella dannazione pervenire, e
compugnerci ed affliggerci, accioché tal meditazione ci sospinga a
quelle cose adoperare, le quali di tal pericolo ne tragghino e
dirizzinci in via di salute. E usa l’autore di mostrare di sentire
alcuna passione, quando maggiore e quando minore, in ciascun luogo: e
quasi dove alcun peccato si punisce, del quale esso conosca se
medesimo peccatore. E, avuta questa passione al suo difetto, sèguita:
«Io cominciai: – Poeta, volentieri Parlerei a que’ due che ‘nsieme
vanno», essendo da quella bufera portati, «E» che «paiono sí al
vento esser leggeri», – cioè con minor fatica volanti. «Ed egli a
me: – Vedrai quando saranno», menati dal vento, «Piú presso a noi,
e tu allor gli prega, Per quell’amor, che i mena», qual che quello
amor si sia, «ed e’ verranno», qui, da quell’amor, per lo qual
pregati fieno, costretti. «Sí tosto, come ‘l vento a noi gli piega,
Muovi la voce» – cioè priega come detto t’ho.

Per la qual cosa
l’autore, che verso di sé venir gli vide, cominciò a dire in questa
guisa: – «O anime affannate», dal tormento e dalla noia di questo
vento, «Venite a noi parlar, s’altri nol niega», – cioè se voi
potete.

«Quali colombe». Qui
l’autore, per una comparazione, ne dichiara con quanta affezione
quelle due anime chiamate venissero a lui. «Quali colombe dal
desio», di rivedere i figliuoli, «chiamate», cioè incitate, «Con
l’ali alzate», volando, «e ferme», con l’affezione, «al dolce
nido», nel quale i figliuoli hanno lasciati, per dover cercar
pastura per li figliuoli e per loro; «Vengon per l’aer», verso il
nido, «dal voler portate»; percioché gli animali non razionali non
hanno altra guida nelle loro affezioni che la volontá; «Cotali
uscir», questi due, «della schiera ov’è Dido», la qual di sopra
disse che andavano per quello aere a guisa che volano i grú; «A noi
venendo per l’aer maligno», quanto è a loro che quivi tormentati
erano: «Sí forte», cioè sí potente, «fu l’affettuoso grido»,
cioè priego (non si dee credere che l’autor gridasse). E venuti
disson cosí: – «O animal grazioso e benigno», chiamanlo per ciò
«grazioso e benigno», perché benignamente pregò; il che laggiú
non suole avvenire, anzi vi si usa per li ministri della divina
giustizia rigidamente comandare: «Che visitando vai per l’aer
perso», cioè oscuro, «Noi, che tignemmo ‘l mondo di sanguigno»,
quando uccisi fummo; percioché, versandosi il lor sangue, dovunque
toccò tinse di color sanguigno; «Se fosse amico», di noi, come
egli è nemico, «il Re dell’universo», cioè Iddio, «Noi
pregheremmo lui per la tua pace», cioè che pace ti concedesse, «Poi
c’hai pietá del nostro mal perverso», cioè al nostro tormento. «Di
quel ch’udire» da noi, «e che parlar ti piace» a noi, «Noi
udiremo», parlando tu, «e parleremo a vui», rispondendo a quelle
cose delle quali domanderai, «Mentre che ‘l vento», cioè quella
bufera, «come fa», al presente, «ne tace», cioè non c’infesta.

[Lez.
XX]


«Siede la terra». Qui
comincia costei a manifestare se medesima, senza essere addomandata;
e ciò fa per mostrarsi piú pronta a’ suoi piaceri. Ma, prima che
piú avanti si proceda, è da raccontare chi costei fosse, e perché
morta, accioché piú agevolmente si comprenda quello che essa nelle
sue seguenti parole dimostrerá. È adunque da sapere che costei fu
figliuola di messer Guido vecchio da Polenta, signor di Ravenna e di
Cervia; ed essendo stata lunga guerra e dannosa tra lui e i signori
Malatesti da Rimino, addivenne che per certi mezzani fu trattata e
composta la pace tra loro. La quale accioché piú fermezza avesse,
piacque a ciascuna delle parti di volerla fortificare per parentado;
e ‘l parentado trattato fu che il detto messer Guido dovesse dare per
moglie una sua giovane e bella figliuola, chiamata madonna Francesca,
a Gianciotto, figliuolo di messer Malatesta. Ed essendo questo ad
alcuno degli amici di messer Guido giá manifesto, disse un di loro a
messer Guido: – Guardate come voi fate, percioché, se voi non
prendete modo ad alcuna parte, che in questo parentado egli ve ne
potrá seguire scandolo. Voi dovete sapere chi è vostra figliuola, e
quanto ell’è d’altiero animo: e, se ella vede Gianciotto, avanti che
il matrimonio sia perfetto, né voi né altri potrá mai fare che
ella il voglia per marito. E perciò, quando vi paia, a me parrebbe
di doverne tener questo modo: che qui non venisse Gianciotto ad
isposarla, ma venisseci un de’ frategli, il quale come suo
procuratore la sposasse in nome di Gianciotto. – Era Gianciotto uomo
di gran sentimento, e speravasi dover lui dopo la morte del padre
rimanere signore; per la qual cosa, quantunque sozzo della persona e
sciancato fosse, il disiderava messer Guido per genero piú tosto che
alcuno de’ suoi frategli. E, conoscendo quello, che il suo amico gli
ragionava, dover poter avvenire, ordinò segretamente che cosí si
facesse, come l’amico suo l’avea consigliato. Per che, al tempo dato,
venne in Ravenna Polo, fratello di Gianciotto, con pieno mandato ad
isposare madonna Francesca. Era Polo bello e piacevole uomo e
costumato molto; e, andando con altri gentiliuomini per la corte
dell’abitazione di messer Guido, fu da una damigella di lá entro,
che il conoscea, dimostrato da un pertugio d’una finestra a madonna
Francesca, dicendole: – Madonna, quegli è colui che dee esser vostro
marito; – e cosí si credea la buona femmina; di che madonna
Francesca incontanente in lui pose l’animo e l’amor suo. E fatto poi
artificiosamente il contratto delle sponsalizie, e andatane la donna
a Rimino, non s’avvide prima dell’inganno, che essa vide la mattina
seguente al dí delle nozze levare da lato a sé Gianciotto: di che
si dee credere che ella, vedendosi ingannata, sdegnasse, né perciò
rimovesse dell’animo suo l’amore giá postovi verso Polo. Col quale
come ella poi si giugnesse, mai non udii dire, se non quello che
l’autore ne scrive; il che possibile è che cosí fosse. Ma io credo
quello essere piú tosto fizione formata sopra quello che era
possibile ad essere avvenuto, ché io non credo che l’autore sapesse
che cosí fosse. E perseverando Polo e madonna Francesca in questa
dimestichezza, ed essendo Gianciotto andato in alcuna terra vicina
per podestá, quasi senza alcun sospetto insieme cominciarono ad
usare. Della qual cosa avvedutosi un singulare servidore di
Gianciotto, andò a lui, e raccontògli ciò che della bisogna sapea,
promettendogli, quando volesse, di fargliele toccare e vedere. Di che
Gianciotto fieramente turbato, occultamente tornò a Rimino, e da
questo cotale, avendo veduto Polo entrare nella camera da madonna
Francesca, fu in quel punto menato all’uscio della camera, nella
quale non potendo entrare, ché serrata era dentro, chiamò di fuora
la donna, e die’ di petto nell’uscio. Per che da madonna Francesca e
da Polo conosciuto, credendo Polo, per fuggire subitamente per una
cateratta, per la quale di quella camera si scendea in un’altra, o in
tutto o in parte potere ricoprire il fallo suo; si gittò per quella
cateratta, dicendo alla donna che gli andasse ad aprire. Ma non
avvenne come avvisato avea, percioché, gittandosi giú, s’appiccò
una falda d’un coretto, il quale egli avea indosso, ad un ferro, il
quale ad un legno di quella cateratta era; per che, avendo giá la
donna aperto a Gianciotto, credendosi ella, per lo non esservi
trovato Polo, scusare, ed entrato Gianciotto dentro, incontanente
s’accorse Polo esser ritenuto per la falda del coretto, e con uno
stocco in mano correndo lá per ucciderlo, e la donna accorgendosene,
accioché quello non avvenisse, corse oltre presta, e misesi in mezzo
tra Polo e Gianciotto, il quale avea giá alzato il braccio con lo
stocco in mano, e tutto si gravava sopra il colpo: avvenne quello che
egli non avrebbe voluto, cioè che prima passò lo stocco il petto
della donna, che egli aggiugnesse a Polo. Per lo quale accidente
turbato Gianciotto, sí come colui che piú che se medesimo amava la
donna, ritirato lo stocco da capo, ferí Polo e ucciselo: e cosí
amenduni lasciatigli morti, subitamente si partí e tornossi
all’uficio suo.


Furono poi li due
amanti con molte lacrime, la mattina seguente, seppelliti e in una
medesima sepoltura.

Dice adunque la donna,
dal luogo della sua origine cominciando: – «Siede», cioè dimora,
«la terra», cioè la cittá di Ravenna, antichissima per quello che
si crede, e fu colonia de’ sabini, quantunque i ravignani dicano che
essa fosse posta ed edificata da’ nipoti di Noé; «dove nata fui, Su
la marina», del mare Adriano, al quale ella è vicina due miglia, e
per alcune dimostrazioni appare che essa giá fosse in sul mare;
«dove ‘l Po discende». Nasce il Po nelle montagne che dividono
Italia dalla Provenza, e, discendendo giú verso il mare Adriano, per
trenta grossi fiumi, che da Appennino e dall’Alpi discendono, diventa
grossissimo fiume, e tra Mantova e Ferrara si divide in due parti,
delle quali l’una ne va verso Ferrara, e l’altra ad una villa di
Ferrara chiamata Francolino: e pervenuto a Ferrara, similemente si
divide in due parti, delle quali l’una ne va verso Ravenna, e
diciotto miglia lontano ad essa, in luogo chiamato Primaro, mette in
mare. «Per aver pace co’ seguaci sui», cioè co’ fiumi che,
mettendo in esso, seguitano il corso suo, e, come esso con essi mette
in mare, hanno pace, in quanto piú non corrono.

«Amor, ch’al cor
gentil»: dimostrato per le predette discrizioni il luogo donde fu,
comincia a mostrare la cagione della sua morte; e primieramente dice
Polo essersi innamorato di lei; poi sé dice essersi innamorata di
lui. E, quantunque questa materia d’amore venga pienamente a dovere
essere trattata nel secondo libro di questo volume, nel canto
diciassettesimo; nondimeno, per alcuna piccola dichiarazione alle
parole che costei dice, alcuna cosa qui ne scriverò. Piace ad
Aristotile esser tre spezie d’amore, cioè amore onesto, amore
dilettevole e amore utile: e quell’amore, del quale qui si fa
menzione, è amor dilettevole. E perciò, lasciando star degli altri
due, dico che questo amor per diletto chiamano i poeti Cupido, e
dicono che egli fu figliuolo di Marte e di Venere, sí come Tullio
nel libro
De
natura deorum

testimonia: e a costui attribuiscono i poeti grandissime forze, sí
come per Seneca appare nella tragedia d’
Ipolito,
nella quale dice:

Et
iubet caelo superos relicto

vultibus
falsis habitare terras.

Thessali
Phoebus pecoris magister

egit
armentum, positoque plectro

impari
tauros calamo vocavit.

Induit
formas quotiens minores,

ipse,
qui caelum nebulasque ducit?

Candidas
ales modo movit alas,
ecc.

E, oltre a ciò, gli
discrivono varie forme, alle quali voler recitare sarebbe troppo
lunga la storia. Ma, vegnendo a quello che alla nostra materia
appartiene, dico che questo Cupidine, o Amor che noi vogliam dire, è
una passion di mente delle cose esteriori, e, per li sensi corporei
portata in essa, è poi approvata dalle virtú intrinseche, prestando
i corpi superiori attitudine a doverla ricevere. Percioché, secondo
che gli astrologi vogliono (e cosí affermava il mio venerabile
precettore Andalò), quando egli avviene che, nella nativitá
d’alcuno, Marte si trovi esser nella casa di Venere in Tauro o in
Libra, e trovisi esser significatore della nativitá di quel cotale
che allora nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce,
dovere essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alí nel comento
del
Quadripartito
che, qualunque ora nella nativitá d’alcuno Venere insieme con Marte
participa, avere questa cotale participazione a concedere a colui che
nasce una disposizione atta agl’innamoramenti e alle fornicazioni. La
quale attitudine ha ad adoperare che, cosí tosto come questo cotal
vede alcuna femmina, la quale da’ sensi esteriori sia commendata,
incontanente quello, che di questa femmina piace, è portato alle
virtú sensitive interiori, e questo primieramente diviene 
alla fantasia, e da
questa è mandato alla virtú cogitativa, e da quella alla
memorativa; e poi da queste virtú sensitive è trasportato a quella
spezie di virtú, la quale è piú nobile intra le virtú apprensive,
cioè all’intelletto possibile; percioché questo è il ricettacolo
delle spezie, sí come Aristotile scrive
in
libro De anima
.
Quivi, cioè in questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso
quello che, come di sopra è detto, portato v’è, se egli avviene che
per volontá di colui, nel quale è questa passione (conciosiaché in
essa volontá sia libertá di ritenere dentro questa cosa piaciuta e
di mandarla fuori), questa cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro,
allora è fermata nella memoria la passione di questa cosa piaciuta,
la quale noi chiamiamo Amore ovvero Cupido. E pone questa passione la
sedia sua e la sua stanza ferma nell’appetito sensitivo, e quivi in
varie cose adoperanti divien sí grande, e fassi sí potente, che
egli fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non
sono, spesse volte il costrigne: e alcuna volta, essendo meno
approvata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente si risolve e torna
in niente. E cosí non è da Marte e da Venere generata questa
passione come alcuni stimano; ma, secondo che di sopra è detto, sono
alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione secondo le
disposizioni del corpo: la quale attitudine se non fosse, questa
passione non si genererebbe.

Appare adunque che
questo Polo era atto nato ad amare; e però, come vide colei, la
quale esso, secondo l’ordine detto di sopra, approvò, e dentro
ritenne l’approbazione, subitamente fu da amor passionato e preso. E
de’si qui intendere quel che dice «al cor gentil», cioè
flessibile, sí come quello che era nato atto a ricevere quella
passione: «ratto s’apprende», cioè prestamente v’è dentro
ricevuta e ritenuta: «Prese costui», cioè Polo, il quale quivi
mostra essere in compagnia di lei; e dice che il prese «Della bella
persona», la quale io ebbi vivendo «Che mi fu tolta», quando
uccisa fui: «e ‘l modo», nel quale mi fu tolta, «ancor m’offende»,
cioè mi tormenta.

[Lez.
XXI]

«Amor, ch’a null’amato
amar perdona». Questo, salva sempre la reverenza dell’autore, non
avviene di questa spezie d’amore, ma avvien bene dell’amore onesto,
come l’autore medesimo mostra nel seguente libro nel canto
ventiduesimo, dicendo:

amore
acceso
da virtú, sempre altro accese,
pur
che la fiamma sua paresse fuore.

Ma puossi qui dire,
questo talvolta avvenire, [conciosiacosaché rade volte soglia l’uomo
molto strettamente legarsi dell’amore di cosa, ch’è a lui in tutto o
in piú cose di natura conforme; il che quando avviene, può quel
seguitare che l’autore dice,] conciosiacosaché naturalmente ogni
simile appetisca suo simile: e però, come la cosa amata sentirá i
costumi e le maniere dell’amante conformi alle sue, incontanente si
dichinerá a doverlo cosí amare, come ella è amata da lui; cosí
non perdonerá l’amore all’amato, cioè ch’egli non faccia che questo
amato ami chi ama lui. «Mi prese del costui piacer», cioè del
piacere di costui, o del piacere a costui: in che generalmente si
sforza ciascun che ama di piacere alla cosa amata: «sí forte»,
cioè con tanta forza, «Che, come vedi, ancor non m’abbandona».
Vuol dire: vedendomi, come tu fai, andar continovo con lui, puoi
comprendere che io l’amo, come io l’amai mentre vivevamo. [Ma] in
questo l’autor séguita l’opinion di Virgilio, il qual mostra nel
sesto dell’
Eneida,
Sicheo perseverare nell’amor di Didone, dove dice:

Tandem
corripuit sese, atque inimica refugit

in
nemus umbriferum, coniux ubi pristinus illi

respondet
curis aequatque Sichaeus amorem,
ecc.

[Secondo la cattolica
veritá, questo non si dee credere, percioché la divina giustizia
non permette che in alcuna guisa alcun dannato abbia o possa avere
cosa che al suo desiderio si 
conformi, o gli porga
consolazione o piacere alcuno: alla quale assai manifestamente
sarebbe contro, se questa donna, come vuol mostrare nelle sue parole,
a se medesima compiacesse dello stare in compagnia del suo amante.]
«Amor condusse noi ad una morte»: cioè ad essere uccisi insieme e
in un punto. «Caina attende»: Caina è una parte del nono cerchio
del presente libro, cosí chiamata da Caino figliuolo d’Adamo, il
quale peroché uccise il fratello carnale, mostra di sentire l’autore
che egli sia in quel cerchio dannato: e, percioché egli fu il primo
che cotal peccato commise, dinomina l’autore quel cerchio da lui; e
in quel si puniscono tutti coloro che i fratelli o congiunti
uccidono. E perciò dice questa donna che quel cerchio aspetta
Gianciotto, il quale uccise lei, sua moglie, e Polo, suo fratello:
«chi», cioè colui, «in vita ci spense», – cioè uccise;
percioché morte non è altro che un privare, il qual si può dire
«spegner di vita».

«Queste parole», di
sopra dette, «da lor ci fûr pòrte», cioè da madonna Francesca,
parlante per sé e per Polo.

«Da ch’io intesi
quest’anime offense», sí dalla morte ricevuta e sí dal presente
tormento, «Chinai ‘l viso», come colui fa, il quale ha udita cosa
che gli grava, «e tanto il tenni basso, Fin che ‘l poeta mi disse: –
Che pense?» – quasi volesse dire: E’ si vuole attendere ad altro. –

«Quando risposi»,
alla domanda di Virgilio, «cominciai», a dire: – «O lasso! Quanti
dolci sospir»: dolci sospiri paiono esser quegli che da speranza
certa muovono di dovere ottenere la cosa che s’ama: «quanto disio»,
quasi dica molto, «Menò costoro», Francesca e Polo, «al doloroso
passo!» – della morte.

«Poi mi rivolsi a
loro, e parla’ io, E cominciai: – Francesca, i tuoi martíri», ne’
quali io ti veggio, «A lacrimar mi fanno tristo e pio», cioè
dolente e pietoso. «Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri», cioè
quando tu ancora sospiravi, amando e sperando, «A che» segno, «e
come», cioè in qual guisa, «concedette Amore», il quale suol
rendere gli amanti temorosi e non lasciar loro, per téma di non
dispiacere, aprire il disiderio loro, «Che conosceste», cioè tu di
Polo, e Polo di te, «i dubbiosi disiri?» – Chiámagli «dubbiosi»
i disidèri degli amanti, percioché, quantunque per molti atti
appaia che l’uno ami l’altro e l’altro l’uno, tuttavia suspicano non
sia cosí come a lor pare, insino a tanto che del tutto discoperti e
conosciuti sono.

«Ed ella a me: –
Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice»: chiama
«felice» il tempo il quale aveva nella presente vita, per rispetto
a quello che ha nella dannazione perpetua, la qual chiama «miseria»,
dicendo: «Nella miseria»; e veramente grandissimo dolore è: e
questo assai chiaro testimonia Boezio,
in
libro De consolatione
,
dicendo: «
Summum
infortunii genus est, fuisse

felicem»;
«e ciò sa ‘l tuo dottore», cioè Virgilio, il quale, e nel
principio della narrazion fatta da Enea

de’
casi troiani a Didone e ancora nel dolore di Didone nella partita
d’Enea, assai chiaramente il dimostra. «Ma, se a conoscer la prima
radice», la qual prima radice del costoro amore ha l’autore mostrata
di sopra quando dice: «Amar, ch’al cor gentil», ecc., dove qui,
secondo la sua domanda, cioè dell’autore, madonna Francesca gli
dimostra come al frutto, il quale di quella radice si disidera e
s’aspetta, essi pervenissero; e cosí vorrá qui l’autore che il
principio s’intenda per la fine: «Del nostro amor tu hai cotanto
affetto», cioè tanto disiderio, «Farò come colei che piange e
dice. Noi», cioè Polo ed io, «leggevamo un giorno per diletto Di
Lancellotto», del quale molte belle e laudevoli cose raccontano i
romanzi franceschi; cose, per quel ch’io creda, piú composte a
beneplacito che secondo la veritá: e leggevamo «come amor lo
strinse»; percioché ne’ detti romanzi si scrive Lancellotto essere
stato ferventissimamente innamorato della reina Ginevra, moglie del
re Artú. «Soli eravamo e senza alcun sospetto». Scrive l’autore
tre cose, ciascuna per se medesima potente ad inducere a
disonestamente adoperare un uomo e una femmina che insieme sieno:
cioè leggere gli amori d’alcuni, l’esser soli e l’esser senza
sospetto d’alcuno impedimento. «Per piú fiate gli occhi ci
sospinse», a riguardar l’un l’altro, «Quella lettura e scolorocci
‘l viso»: cioè fececi tal volta venir palidi e tal rossi, come a
quegli suole avvenire, che, da alcuna cagion mossi, disiderano di
dire alcuna cosa, e poi temono e cosí impalidiscono, o si vergognano
e cosí arrossiscono. «Ma solo un punto fu quel che mi vinse», a
dover pur mandar fuori il disiderio mio; e questo fu «Quando 
leggemmo il disiato
riso», cioè la disiderata letizia, la qual fu alla reina Ginevra,
«Esser baciata da cotanto amante», quanto era Lancellotto, reputato
in que’ tempi il miglior cavalier del mondo. «Questi», cioè Polo,
«che mai da me non fia diviso, La bocca mi baciò tutto tremante».
Ottimamente discrive l’atto di quegli, li quali con alcun sentimento
ferventemente amano, che, quantunque offerito sia loro quello che
essi appetiscono (come qui si comprende che madonna Francesca
offeresse a Polo), non senza tremore la prima volta il prendono.

«Galeotto fu il libro,
e chi lo scrisse». Scrivesi ne’ predetti romanzi che un prencipe
Galeotto, il quale dicono che fu di spezie di gigante, sí era grande
e grosso, sentí primo che alcuno altro l’occulto amore di
Lancellotto e della reina Ginevra: il quale non essendo piú avanti
proceduto che per soli riguardi, ad istanza di Lancellotto, il quale
egli amava maravigliosamente, tratta un dí in una sala a
ragionamento seco la reina Ginevra, e a quello chiamato Lancellotto,
ad aprire questo amore con alcuno effetto fu il mezzano: e, quasi
occupando con la persona il poter questi due esser veduti da alcuno
altro della sala che da lui, fece che essi si baciarono insieme. E
cosí vuol questa donna dire che quello libro, il quale leggevano
Polo ed ella, quello uficio adoperasse tra lor due, che adoperò
Galeotto tra Lancellotto e la reina Ginevra: e quel medesimo dice
essere stato colui che lo scrisse; percioché, se scritto non
l’avesse, non ne potrebbe esser seguito quello che ne seguí. «Quel
giorno piú non vi leggemmo avante»: – assai acconciamente mostra di
volere che, senza dirlo essa, i lettor comprendano quello che
dell’essere stata basciata da Polo seguitasse.

«Mentre che l’uno».
Qui comincia la sesta e ultima particula del presente canto, nella
quale l’autore discrive quello che di quel ragionare gli seguisse, e
dice: «Mentre che l’uno spirto», cioè madonna Francesca, «questo
disse», che di sopra è detto, «L’altro piangeva», cioè Polo,
«sí», cioè in tal maniera, «che di pietade», per compassione,
«Io venni meno», cioè mancaronmi le forze, «sí com’io morisse, E
caddi come corpo morto cade». Suole alcuna volta avere tanta forza
la compassione, che pare ch’ella faccia cosí altrui struggere il
cuore, come si strugge la neve al fuoco; di che avviene che le forze
sensibili si dileguano, e l’animali rifuggono nelle piú intrinseche
parti del cuore, quasi abbandonato: e cosí il corpo, destituto dal
suo sostegno, impalidito cade. E questa compassione, come altra volta
di sopra è detto, non ha tanto l’autore per gli spiriti uditi,
quanto per se medesimo, il quale, dalla coscienza rimorso, conosce sé
in quella dannazion dovere cadere, se di quello, che giá in tal
colpa ha commesso, non sodisfa con contrizione e penitenza a Colui,
il quale egli ha, peccando, offeso, cioè a Dio.