CANTO
DECIMOPRIMO
[Lez.
XLII]
«In su l’estremitá
d’un’alta ripa», ecc. Continuasi l’autore nel principio di questo
canto alla fine del precedente, come è usato infino a qui di fare, e
dimostra dove, seguendo Virgilio, pervenisse; il quale è di sopra
detto che, lasciando il muro della terra, cominciò ad andar per lo
mezzo. E dividesi il presente canto in sette parti: nella prima
discrive il luogo dove pervenuti si fermarono e quel che vi
trovarono; nella seconda discrive l’autore distintamente tutta la
esistenza dello ‘nferno, e ancora le qualitá de’ peccatori, le quali
deono, procedendo, trovare; nella terza muove l’autore un dubbio a
Virgilio, perché piú i peccatori, che ne’ seguenti cerchi sono,
sieno puniti dentro alla cittá di Dite, che quegli de’ quali di
sopra ha parlato; nella quarta Virgilio, dimostrandogli la cagione,
gli solve il dubbio; nella quinta muove l’autore un altro dubbio a
Virgilio; nella sesta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella
settima Virgilio sollecita l’autore a seguitarlo. E comincia la
seconda quivi: «Lo nostro scender»; la terza quivi: «Ed io: –
Maestro»; la quarta quivi: «Ed egli a me»; la quinta quivi: – «O
sol, che sani»; la sesta quivi: – «Filosofia»; la settima quivi:
«Ma seguimi oramai».
Cominciando adunque
alla prima, dice che pervennero, andando come nella fine del
precedente canto ha detto, «In su l’estremitá d’un’alta ripa».
«Ripa» è, o artificiale o naturale ch’ella sia, o terreno o
pietre, la quale da alcuna altezza discenda al basso, sí diritta che
o non presti, o presti con difficultá la scesa per sé di
quell’altezza al luogo nel quale essa discende, sí come in assai
parti si vede ne’ luoghi montuosi naturalmente essere, o come per
fortificamento delle castella e delle cittá gli uomini
artificiosamente fanno. E poi séguita: «Che», questa alta ripa,
«facevan gran pietre rotte in cerchio», e però appare che non
artificialmente fatta, ma per accidente era ruinata; ed erano le
pietre «rotte in cerchio», per la qualitá del luogo ch’è ritondo,
sí come piú volte è stato dimostrato; «Venimmo» dopo l’essere
alquanto andati, «sopra piú crudele stipa». Intende qui l’autore
per «stipa» le cose stipate, cioè accumulatamente poste, sí come
i naviganti le molte cose poste ne’ lor legni dicono «stivate»; e
da questo modo di parlare prendendo l’autore qui forma, vuol che
s’intenda che, sotto il luogo dove pervennero, erano stivate
grandissime moltitudini di peccatori, in piú crudel pena che quegli
li quali infino a quel luogo veduti avea. «E quivi per l’orribile
soverchio Del puzzo che ‘l profondo abisso», cioè inferno, «gitta»,
svaporando in su, «Ci raccostammo indietro», accioché men lo
sentissimo che standovi dirittamente sopra; e dice s’accostarono «ad
un coperchio D’un grand’avello», percioché ancora erano nel cerchio
degli eretici, li quali di sopra mostra essere seppelliti in
grandissime sepolture ardenti; «ove», cioè al quale avello, «io
vidi una scritta», sí come veder si suole nelle sepolture; «Che
diceva: ‘Anastasio papa guardo’», quasi l’avello parlasse in
dimostrazione di chi in lui era seppellito; «Lo qual», Anastasio,
«trasse Fotin della via dritta». – Dove è da sapere che questo
Anastasio fu di nazione romano, e figliuol d’uno il qual fu chiamato
Fortunato, e negli anni di Cristo quattrocentonovantanove fu eletto
papa, ma poco tempo visse nel papato; e avendo costui singulare
famigliaritá con uno il quale fu chiamato Fotino, e che
primieramente era stato diacono di Tessaglia e poi fu fatto vescovo
di Gallo-Grecia, una contrada in Asia molto rimota dal mare, fu
adunque da questo Fotino corrotto e tratto della cattolica fede, e
cadde in una abbominevole eresia, della quale era stato inventore e
seminatore uno chiamato Acazio, singulare amico di Fotino. Ed era la
eresia questa: che questo Acazio affermava Cristo non essere stato
figliuol di Dio, ma di Giuseppe, e ch’esso carnalmente giacendo con
la Vergine Maria l’aveva acquistato; e cosí non era vero che la
Vergine Maria fosse vergine innanzi il parto e dopo il parto, come i
cattolici cristiani fermamente credono. Per la quale eresia il detto
Fotino fu dannato e rimosso dalla comunione de’ cristiani. E,
volendolo questo papa Anastasio riducere nella comunione cristiana,
essendosi contro a ciò levati molti santi padri, e a questo
resistendo; avvenne che, essendo il detto papa durato giá un anno e
undici mesi e ventitré dí, andato al segreto luogo dove
le superfluitá del ventre si dipongono, per divino giudicio, sí
come per tutti universalmente si credette, per le parti inferiori
gittò e mandò fuori del corpo tutte le interiora, e cosí
miseramente nel luogo medesimo spirò. E per questo l’autore estima
lui essere stato eretico di quella eresia che detta è, e perciò qui
dimostra tra gli altri eretici esser dannato, dicendo lui essere
stato da Fotino predetto tratto della «via diritta», cioè della
fede cattolica, dalla quale n’è mostrato, e, credendola, siam menati
per la diritta via, la quale ne perduce in vita eterna.
«Lo nostro scender
convien». Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella quale
l’autore discrive distintamente la esistenza dello ‘nferno, e ancora
la qualitá de’ peccatori, li quali deono, procedendo, trovare; e
dice: «Lo nostro scender», alle parti inferiori, «convien che sia
tardo», cioè adagio; e dimostra la ragion perché, dicendo: «Sí
che s’aúsi in prima», che noi vi giugniamo, «un poco il senso»,
dell’odorato, «Al tristo fiato», cioè puzzo, «e poi» che adusato
sará alquanto, «non fia riguardo», – cioè non bisognerá di molto
curarsene, «quia
assuetis non fit
passio».
E nel vero e’ si vuole a cosí fatte cose andar con discrezione,
percioché assai giá hanno
gravissime
alterazioni ricevute per lo entrar subito in luoghi o molto odoriferi
o molto fetidi; percioché l’uno e l’altro offende il cerebro forte,
quando il senso di colui che entra in essi non è familiare o degli
odori o de’ puzzi.
«Cosí il maestro»,
(supple),
disse; «ed io: – Alcun compenso – Dissi lui – truova, che ‘l tempo
non passi Perduto». Questo fu ottimamente detto, e in ciò ciascuno
dovrebbe a suo potere dare opera, cioè di non perder tempo,
percioché, secondo che a Seneca piace, di quante cose noi abbiamo
nella presente vita, solo il tempo è nostro, tutte l’altre cose sono
della fortuna; e perciò con gran sollecitudine dobbiamo adoperare
che egli non ci passi tra le mani perduto. «Ed egli», rispuose: –
«Vedi ch’a ciò penso». Nelle quali parole si può comprendere la
circunspezione del savio uomo, il quale mai alle cose opportune non
aspetta d’esser sollecitato: e, fattagli la risposta, tantosto
séguita quello che nel pensiero gli è venuto di fare, per non dover
perder tempo, e dice:
«Figliuol mio, dentro
da cotesti sassi», – li quali tu puoi veder di sotto da te,
«Cominciò poi a dir, – son tre cerchietti», cioè il settimo e
l’ottavo e il nono: e chiamali «cerchietti», percioché sono di
circúito piccoli a rispetto di quegli di sopra: «Di grado in
grado», cioè, discendendo, l’uno appresso l’altro si trovano,
«come» trovati hai «quei che lassi», di sopra da noi. «Tutti»,
questi tre cerchietti, «son pien di spirti maladetti», cioè
dannati; «Ma, perché poi ti basti pur la vista», cioè il
vedergli, quando ad essi perverremo, «Intendi come e perché son
costretti», gli spirti maladetti che dentro vi sono.
«D’ogni
malizia ch’odio in cielo acquista». Malizia è di due maniere: o è
malizia corporale, o malizia
mentale. Malizia corporale è quella la quale noi generalmente
chiamiamo «infermitá o difetto di corpo»; e questa può essere
ancora nelle cose insensibili, quando in esse naturalmente è alcun
difetto, sí come alcuna volta è in uno albero, il quale nasce
torto o noderoso, o con alcuna altra cosa meritamente biasimevole,
secondo la sua qualitá. O è malizia d’anima, la qual propriamente
è perversitá di pensiero e di disiderio che nelle nostre anime
sia; e questa è pessima spezie di malizia, percioché d’essa mai
altro che male non nasce, né può nascere. E perciò l’autore
mostra di fare questa distinzione nelle sue parole, in quanto dice
«d’ogni malizia ch’odio in cielo acquista», intendendo di questa
ultima; percioché la prima alcun odio non acquista in cielo,
quantunque ella sia in terra in odio a colui che la patisce; e per
tanto dice «odio», perché l’operazioni, le quali seguono della
malizia delle nostre menti, son malvagie e dispiacciono a Dio, il
qual dimora in cielo; e quindi, perduta la sua grazia, meritiamo
l’ira sua, la quale, perseverando noi nel male adoperare, diventa
odio, se in esso male adoperare senza pentirci moiamo. «Ingiuria è
il fine»; percioché quante volte i nostri maliziosi pensieri si
mettono ad esecuzione, mai non si mettono se non per fare ingiuria
ad alcuna persona; «ed ogni fin cotale», cioè di fare ingiuria ad
alcuno, «O con forza o con frode altrui», cioè colui che riceve
la ‘ngiuria, «contrista», affligge e noia; mostrando in queste
parole due essere i modi ne’ quali per la malizia della nostra mente
si fa altrui ingiuria, cioè o violentemente o fraudolentemente.
E questo dimostrato, ne
chiarisce in qual di questi due modi piú s’offenda Iddio, dicendo:
«Ma perché frode è dell’uom proprio male», cioè che in esso si
crea, nasce e dilibera, e in questo è «proprio male» dell’uomo;
«Piú spiace a Dio», che non spiace la forza, la quale non è
proprio male dell’uomo, conciosiacosaché molte cose esteriori siano
all’uomo di necessitá per dovere potere usar la forza, le quali se
l’uomo non le si sentirá, non si metterá a doverla usare: «e
però», che la fraude spiace a Dio piú che la forza, per la ragion
detta, «stan di sotto Gli frodolenti», nell’ottavo e nel nono
cerchio, li quali sono di sotto al settimo, nel quale intende
dimostrare esser posti e dannati coloro, li quali per forza fanno
ingiuria ad altrui, «e», percioché si stanno ne’ cerchi piú
inferiori, «piú dolor gli assale», cioè sono oppressi da maggior
tormenti.
E, detto questo, viene
alla prima parte della sua distinzione, cioè a dimostrare in quanti
modi e a quante persone si possa fare per forza ingiuria altrui, e
questi modi e persone dimostra esser tre: e cosí dimostra il settimo
cerchio esser distinto in tre parti come apparirá. Dice adunque: «Di
violenti», cioè di coloro li quali con forza fanno altrui ingiuria,
«il primo cerchio è tutto», cioè il primo cerchio de’ tre, li
quali mostra essere sotto quei sassi, il quale nel numero de’ cerchi
dello ‘nferno è settimo; e dice, «è tutto», percioché il
distingue, come detto è, in tre parti, le quali tutte e tre son
piene di violenti.
E mostra la ragione
perché in tre parti il distingua, dicendo: «Ma, perché si fa forza
a tre persone», in se medesime diverse e separate, come apparirá;
«in tre gironi è distinto e costrutto», questo primo cerchio. E,
detto questo, mostra quali sieno le tre persone, alle quali i
violenti o fanno o si sforzan di fare ingiuria, dicendo; «A Dio»,
il qual noi dobbiamo amare e onorare sopra ogni altra cosa, e lui
solo adorare, e questi è l’una persona; «a sé» medesimo, cui noi
dobbiamo, appresso a Dio, amare piú che alcuna altra cosa, e questo
è la seconda persona; «al prossimo», il quale noi dobbiamo amare
come noi medesimi.
[È vero che in questo
prossimo ha differenza da un prossimo ad un altro, percioché a tutti
gli uomini, di che che setta, di che che nazion si sieno, secondo la
legge naturale, siam prossimi; percioché tutti da un principio, cioè
da’ primi parenti, proceduti siamo, e però tutti ci dobbiamo amare.
Ma a questa generalitá si prepone una particularitá, percioché noi
dobbiamo amare piú i cristiani che l’altre sètte; conciosiacosaché
noi siamo da una medesima legge, da una medesima dottrina, da quegli
medesimi sagramenti costretti insieme, dove dall’altre sètte noi
siam separati. E, oltre a questa, pare ancora che questa
particularitá riceva alcuna divisione, in quanto pare che ciascun
debba piú amare colui che con congiunzione di piú prossimana
consanguinitá è congiunto, che un altro piú lontano di parentela
amare; e cosí potrebbe seguire che, quanto alcun dee piú
strettamente amare un che un altro, piú gravemente pecchi, se in
colui, che piú dee amare, fa violenza: ma questo si rimanga al
presente.]
«Si puone», cioè si
puote, «Far forza»; e, detto questo, apre piú la sua intenzione,
dicendo: «dico in loro», cioè nelle proprie persone de’ detti tre,
«ed in lor cose, com’udirai con aperta ragione».
E cosí, di tre, paion
divenute sei quelle cose nelle quali far si può violenza. E quali
queste sieno, e in che maniera si possa in esse far violenza,
distingue e dichiara, cosí cominciando dal prossimo: e dice che
«Morte per forza», come uccidere col coltello, col veleno, col
capestro, o col fuoco o in altra maniera, le quali son morti violente
che si possono nel prossimo dar per forza; «e ferute dogliose Nel
prossimo si dánno», cioè nella propria persona del prossimo; e
quinci dimostra quello che violentemente s’adopera, o può adoperare,
nelle sustanze del prossimo, dicendo: «e nel suo avere», cioè
nelle sue possessioni e ricchezze, «Ruine», come è disfargli le
case, «e incendi», come è ardergliele o ardergli le biade, e
«tollette dannose», come è il rubargli le sue cose, tôrgli la
moglie, la figliuola, il bestiame e simili sustanze. E, questo
dimostrato, piú particularmente narrandogli, dimostra in qual de’
tre gironi tormentati sieno, dicendo: «Odii», cioè coloro che odio
portano al prossimo, volendo per questo s’intendano coloro in questo
medesimo luogo esser dannati, li quali, quantunque queste violenze
non facciano, le farebbon volentieri se potessono, e, perché piú non possono, hanno in
odio il prossimo; «omicide, e ciascun che mal fiere» (dice «mal
fiere», a distinguer da questi cotali coloro li quali, posti per
esecutori della giustizia, giustamente uccidono e feriscono);
«Guastatori», come sono incendiari e simili uomini, «e predón»,
cioè rubatori, corsari e tiranni e simiglianti, «tutti tormenta Lo
giron primo», di questo primo cerchio, e tormentali «per diverse
schiere», volendo che per questo s’intenda questi cotali peccatori
esser piú e men tormentati, secondo che hanno piú o meno offeso, sí
come apparirá lá dove tormentati gli discrive.
E, mostrato della
violenza che si può fare nel prossimo e nelle sue cose, dimostra
quello che]’uom può fare in se medesimo e nelle sue cose, e quello
che di ciò gli segua, e dice: «Puote uomo avere in sé man
violenta», uccidendosi col coltello e col capestro, come molti hanno
giá fatto, «E ne’ suoi beni», giucando quegli; «e però nel
secondo Giron», de’ tre predetti, «convien che senza pro si penta»,
sostenendo gravissimi tormenti. E, questo detto, se medesimo dichiara
con piú aperto parlar, dicendo: «Qualunque priva sé del vostro
mondo», uccidendosi, come detto è, «Biscazza, e fonde», consuma,
«la sua facultade», cioè la sua ricchezza, e, per conseguente, «E
piagne», d’aver cosí fatto, «lá dove esser dee giocondo»,
avendole guardate e servate come si convenia.
E, mostrato della
violenza, la quale l’uomo può fare in se medesimo e nelle sue cose,
e quello che di ciò gli segua, viene a dimostrare come si possa far
violenza a Dio e alle cose sue, e dice: «Puossi», da’ violenti,
«far forza nella deitade, Col cuor negando e bestemmiando quella»,
come molti, o adirati o per mostrar di non temere Iddio, non che
altrui, fanno; «E», appresso, si può far forza nelle cose di Dio
«spregiando natura e sua bontade», cioè adoperando contro alle
naturali leggi, come assai bestialmente fanno; «E però lo minor
giron», de’ tre predetti, ne’ quali il primo cerchio è distinto,
«suggella Del segno suo», cioè de’ tormenti che in quel sono, «e
Sogdoma e Caorsa». E vuole l’autore per questi nomi di queste due
cittá intendere due spezie d’uomini, li quali offendono o fanno
violenza a Dio nelle cose sue, cioè nella natura e nell’arte, le
quali sono sue cose, sí come appresso mostrerá l’autore: e intende
per «Sogdoma» coloro li quali contro alle leggi della natura con
sesso non debito lussuriosamente adoperano; e per «Caorsa» intende
gli usurai, li quali fanno violenza alle leggi della natura e al buon
costume dell’arte.
Ed accioché piú
manifestamente appaia l’autore intender questo, è da sapere che
Sogdoma, secondo si legge nel Genesi,
fu una cittá vicina a Ierico in Soria, la qual fu abbondantissima di
tutti i beni temporali; per la quale abbondanza i cittadini di quella
in tanta viziosa vita trascorsono, che né legge divina né umana
seguivano, e ogni vizio, quantunque detestabile fosse, era a
ciascuno, secondo che piú gli piacea, lecito d’esercitare; e, tra
gli altri, era in tutti generale il sogdomitico, per lo quale, e sí
ancora per gli altri, meritaron l’ira di Dio. Il quale, essendo
disposto a volerla insieme co’ cittadini sovvèrtere, prima il
manifestò ad Abraam, il quale il pregò che non volesse fare a’
buoni sostener pena per le colpe de’ malvagi; e, promettendo Iddio di
perdonare a’ malvagi per amor de’ buoni, se alquanti vi se ne
trovassono, non sappiendovene Abraam trovare quantitá alcuna di
quelli che domandati avea, fu contento al piacer di Dio. Per la qual
cosa Iddio mandò due suoi angeli a Lot, nepote d’Abraam, il quale
abitava in quella, ed era buono e onesto e santo uomo; e per loro gli
comandò che di quella con la sua famiglia si dovesse partire,
manifestandogli quello che di fare intendeva. Erano i due angeli,
quando alla casa di Lot pervennero, in forma di due speziosissimi
giovanetti, li quali da’ sogdomiti veduti, incontanente corsono alla
casa di Lot, addomandando d’aver questi giovani. Lot, il quale sí
come messi del suo Signore ricevuti li avea, non gli volle lor dare,
ma per sodisfare all’impeto della lor lussuria, e per servare l’onore
de’ giovani che a casa gli eran venuti, volle lor dare due sue belle
figliuole vergini, le quali in casa aveva: ma essi, non volendole, e
volendo far impeto nella casa, subitamente per divino giudicio tutti
divennero ciechi. Lot con la famiglia sua poi uscí della cittá,
secondo il comandamento fattogli, e incontanente sentí dietro a sé
grandissima tempesta e orribili tuoni e folgori cader da cielo, le
quali Sogdoma e’ suoi cittadini, e alcune altre terre le quali in
simiglianti vizi peccavano, arsono e consumaron tutte, lasciando
nondimeno, in detestabile memoria di sé, questo infame sopranome a
tutti coloro li quali in vizio contro natura peccano.
Caorsa è una cittá di
Proenza, ovvero in Tolosana, secondo che si racconta, sí del tutto
data al prestare a usura, che in quella non è né uomo né femmina,
né vecchio né giovane, né piccol né grande che a ciò non
intenda; e non che altri, ma ancora le serventi, non che il lor
salario, ma se d’altra parte sei o otto denari venisser loro alle
mani, tantosto gli dispongono e prestano ad alcun prezzo. Per la qual
cosa è tanto questo lor miserabile esercizio divulgato, e
massimamente appo noi, che, come l’uom dice d’alcuno: – Egli è
caorsino, – cosí s’intende ch’egli sia usuraio.
Séguita poi: «E chi
spregiando Iddio col cuor favella», percioché in questo fa violenza
alla divinitá, ché in altro non può; percioché andar non si può
in cielo a far violenza a Dio nella persona, fassi adunque qui in
quel che si può, bestemmiandolo, dispettandolo, avvilendolo e
negandolo, come di sopra è detto.
«La frode, ond’ogni
coscienza». Poi che Virgilio ha pienamente mostrato all’autore i
gironi del primo cerchio, e ancora quegli che in essi son tormentati,
che sono la prima spezie d’uomini che a fine di fare ingiuria usano
violenza; ed esso diviene a dimostrare la seconda spezie, la quale
esso chiama i «fraudolenti», che non con violenza manifesta, come i
sopradetti, ma con fraude e occultamente s’ingegnano di fare altrui
ingiuria. Dice adunque: «La frode»; che cosa sia fraude si mostrerá
appresso nel principio del diciassettesimo canto; «onde», dalla
quale, «ogni coscienza è morsa», cioè offesa, «Può l’uomo
usare». Intende qui l’autore di dimostrare esser due spezie
principali di fraude, delle quali dice l’una esser quella fraude la
quale si commette contro a coloro li quali non si fidano di colui che
poi con fraude l’inganna; e l’altra esser quella che si commette
contra coloro li quali si fidano di colui che poi fraudolentemente
gl’inganna; e perciò vuole queste due spezie di fraudolenti ne’ due
seguenti cerchi, li quali sono li due ultimi dello ‘nferno; e vuole
nel superiore, il quale è il secondo de’ tre predetti, sien puniti
que’ fraudolenti li quali ingannano chi di lor non si fida, e
nell’inferiore, il quale è il piú profondo dello ‘nferno, sien
puniti i fraudolenti, li quali ingannano chi si fida di loro. E però
dice: «Può l’uomo usare», fraude, «in colui», cioè contra
colui, «che si fida», e questa è l’una spezie e la peggiore, «E»,
puolla ancora usare, «in quello che fidanza non imborsa». cioè con
tra colui il quale non ha fidanza nel fraudolente. «Questo modo di
dietro», cioè d’ingannare chi non si fida, «par che uccida», cioè
offenda, «Pur lo vincol d’amor, che fa natura», cioè quel legame
col quale la natura tutti ci lega e costrigne a doverci amare, in
quanto tutti siamo animali d’una medesima spezie e discesi da un
medesimo principio; «Onde», cioè per la qual cagione, «nel
cerchio secondo», de’ tre di sopra dimostrati, che dice che son
sotto quei sassi, «s’annida», cioè l’è data per istanza, sí come
all’uccello il nido, «Ipocrisia, lusinghe e chi affattura; Falsitá,
ladroneccio e simonia, Ruffian, baratti e simile lordura»: delle
quali tutte partitamente si dirá, dove appresso de’ tormenti
attribuiti ad esse si tratterá.
«Per l’altro modo».
cioè per l’usar frode in colui che d’altrui si fida, «quell’amor
s’oblia», cioè si mette in non calere, «Che fa natura», del quale
poco dianzi è detto, «e», obliasene, «quel», amore, «ch’è poi
aggiunto», al naturale, o per amistá o per benefici ricevuti o per
parentado; «Di che», cioè delle quali cose, «La fede spezial si
cria», cioè la singulare e intera confidenza che l’un uomo prende
dell’altro, per singulare amicizia congiuntogli: «Onde», cioè, e
perciò, «nel cerchio minore», de’ tre sopra detti, «ov’è il
punto», cioè il centro, «Dell’universo» (piú volte s’è di sopra
detto il centro della terra essere centro di tutto il mondo, cioè
del cielo ottavo e degli altri cieli e degli elementi tutti), «in su
che Dite siede» fondata, sí come tutte l’altre cittá e edifici, li
fondamenti delle quali, se con diritta linea si tireranno al centro
della terra, tutti si troveranno sovra quello esser fondati o
fermati. O puossi intendere per lo Lucifero, il quale ha quel
medesimo nome, secondo i poeti, che ha la cittá sua, cioè Dite, il
quale, come nella fine del presente libro si vedrá, dimora sí in
sul centro della terra bilanciato, che egli non può né piú in su
farsi, né piú in giú scendere, percioché il piú in giú non v’è.
Adunque, secondo che l’autor vuole, in questo cerchio ultimo,
«Qualunque trade», cioè fraudolentemente adopera contro a colui
che di lui si fida, «in eterno è consunto», cioè tormentato. E
cosí ha ottimamente l’autore distinti e dichiarati i tre cerchi, li
quali Virgilio dice essere sotto a quei sassi, li quali presente a sé
gli dimostra.
«Ed io: – Maestro».
Qui comincia la terza parte del presente canto, nella quale l’autore
muove un dubbio a Virgilio, domandando perché i peccatori, che ne’
seguenti cerchi sono, sieno puniti dentro alla cittá di Dite, piú
che quegli de’ quali di sopra ha parlato; e primieramente concede
assai bene essere stato dimostrato da lui quello che detto ha de’ tre
cerchi inferiori, dicendo: «Ed io:
Maestro,
assai chiaro procede La tua ragione», nel dimostrare, «ed assai
ben distingue Questo baratro», cioè questo inferno, il quale è da
quinci in giú, «e», similmente distingue bene, «il popol che ‘l
possiede», cioè i peccatori li quali in esso son tormentati. «Ma
dimmi: Que’ della palude pingue», cioè gl’iracundi e gli
accidiosi, li quali son tormentati nella palude di Stige, la quale
cognomina «pingue» per la sua grassezza del loto e del fastidio il
quale v’è dentro; e quegli «Che mena il vento», cioè i
lussuriosi, che son di sopra nel secondo cerchio, «e» quegli «che
batte la pioggia», cioè i golosi, li quali sono di sopra nel terzo
cerchio, «E» quegli «che s’incontran con sí aspre lingue», cioè
gli avari e’ prodighi, li quali sono nel quarto cerchio (e dice «si
scontran con sí aspre lingue», cioè mordaci, in quanto dicono
l’un contro all’altro: – «Perché tieni?» – e«Perché burli?»
-). «Perché non dentro della cittá roggia», cioè rossa per lo
fuoco, il quale, facendola rovente, la fa di nera divenir rossa,
«Son e’ puniti», come son costoro, de’ quali tu mi ragioni, «se
Dio gli ha in ira?», cioè se Dio è adirato contro a loro; «E se
non gli ha», in ira, «perché sono a tal foggia?», – cioè
puniti, come di sopra abbiam veduto.
«Ed egli a me». Qui
comincia la quarta parte del presente canto, nella quale Virgilio,
mostrandogli la ragione per la quale quello avviene di che egli
domanda, gli solve il dubbio mossogli. Dice adunque: «Ed egli a me»
(supple),
rispose, alquanto commosso e dicendo: – «Perché tanto delira, –
Disse – lo ‘ngegno tuo da quel ch’e’ suole?», cioè, perché esce
tanto della diritta via piú che non suole? «Lira
lirae»
sí è il solco il quale il bifolco arando mette diritto co’ suoi
buoi, e quinci viene «deliro
deliras»,
il quale tanto viene a dire quanto «uscire dal solco»; e però,
metaphorice
parlando,
in ciascuna cosa uscendo della dirittura e della ragione, si può
dire e dicesi
«delirare».
E cosí qui vuol Virgilio dire all’autore: tu suogli nelle cose
dirittamente giudicare; questo perché avviene ora, che tu non
giudichi cosí? E perché questo suole avvenire dall’una delle due
cose (cioè il non giudicar dirittamente delle cose e però muoverne
dubbio), o per ignoranza o per l’aver l’animo impedito d’altro
pensiero, e perciò segue: «Ovver la mente», tua, «dove altrove
mira?». E, questo déttogli, gli ricorda quello di che esso si dovea
ricordare, ed, essendosene ricordato, non avrebbe mosso il dubbio, e
dice: «Non ti rimembra di quelle parole, Con le quai la tua Etica
pertratta».
Etica è
un libro, il quale Aristotile compose in filosofia morale, il quale
Virgilio dice qui
all’autore
esser «suo», non perché suo fosse, come detto è, ma per darne a
vedere questo libro fosse familiarissimo all’autore e ottimamente da
lui inteso: e tratta Aristotile in piú luoghi di queste tre
disposizioni, e massimamente nel settimo. E quinci segue: «Le tre
disposizion», d’uomini, «che il ciel non vuole», cioè recusa, sí
come reprobi e malvagi. E quinci dimostra quali quelle disposizioni
sieno, dicendo: «Incontinenza»: questa è l’una per la qual noi
dagli appetiti naturali inchinati e provocati, non potendo
contenerci, pecchiamo e offendiamo Iddio; «malizia»: questa è
l’altra disposizione la quale il ciel non vuole, e questa non procede
da operazion naturale, ma da iniquitá d’animo, ed è dirittamente
contro alle virtú, secondo che Aristotile mostra nel sesto
dell’Etica;
ma in questa opera intende l’autore questa malizia esser gravissimo
vizio e opposto alla bontá divina, come appresso apparirá; «e la
matta Bestialitade?»: e questa è la terza disposizione che ‘l ciel
non vuole. Questo adiettivo «matta», pose qui l’autore piú in
servigio della rima, che per bisogno che n’avesse la bestialitá,
percioché bestialitá e mattezza si posson dire essere una medesima
cosa. È adunque questa «bestialitá» similmente vizio dell’anima
opposto, secondo che piace ad Aristotile nel settimo dell’Etica,
alla divina sapienza, il quale, secondo che l’autor mostra di tenere,
non ha tanto di gravezza quanto la malizia, sí come nelle cose
seguenti apparirá. «E come incontinenza Men Dio offende», che non
fanno le due predette, «e piú biasimo accatta?» negli uomini, li
quali il piú giudicano delle cose esteriori e apparenti, percioché
le intrinseche e nascose son loro occulte, e per questo non le posson
cosí biasimare e dannare; e i peccati, li quali noi commettiamo per incontinenza, son quasi
tutti negli occhi degli uomini, dove gli altri due il piú stanno
serrati nelle menti di coloro che li commettono, quantunque poi pure
appaiono; e sono, oltre a ciò, piú rade volte commessi che quegli
degli appetiti carnali, li quali continuamente ne ‘nfestano. «Se tu
riguardi ben questa sentenza», cioè che la incontenenza offenda
meno Iddio che l’altre due; «E rechiti alla mente chi son quegli Che
su di fuor», della cittá di Dite, «sostengon penitenza», per le
colpe commesse; «Tu vedrai ben perché da questi felli». cioè
malvagi, «Sien dipartiti», percioché tu conoscerai questi cotali,
de’ quali io ti dico che di fuor di Dite son puniti, tutti esser
peccatori, li quali hanno peccato per incontinenza; «e perché men
crucciata La divina giustizia li martelli», – cioè tormenti; e dice
«men crucciata», imitando nel parlare il costume umano, il quale
quanto piú di cruccio porta verso alcuno, tanto piú crudelmente il
batte.
«O
sol, che sani». Qui comincia la quinta parte di questo canto,
nella quale l’autor muove un dubbio a Virgilio, e prima capta la
benivolenza sua con una piacevole laude, la quale gli dá, dicendo:
– «O sol, che sani ogni luce turbata». Sono le nostre luci alcuna
volta turbate dalle tenebre notturne, percioché, stanti quelle,
alcuna cosa veder non possiamo; sono, oltre a questo, turbate da’
vapor grossi surgenti della terra, li quali impediscono il riguardo
di quello, e non lasciano andar molto lontano; sono ancora impedite
e turbate dalle nebbie e da simili cose, le quali tutte il sole
rimuove e purga, percioché col suo salire nel nostro emisperio
esso caccia le tenebre notturne (e cosí pare per la sua luce
essere agli occhi nostri restituito il benificio del vedere, il
quale turbato aveva la notturna tenebra), poi co’ suoi raggi esso
ogni vapore e ogni nebbia risolve, e con questo ne fa il cielo
espedito a poter in ciascuna parte liberamente guardare, quanto
alla virtú visiva è possibile: e cosí pare aver sanata, cioè
nella sua propria virtú rivocata, ogni luce turbata da alcuno de’
predetti accidenti. Cosí adunque, metaphorice
parlando, dice l’autore a Virgilio, intendendo per la chiaritá
delle sue dimostrazioni cessarsi della mente sua ogni dubbio, il
quale offuscasse o impedisse la luce dello ‘ntelletto; e però
segue: «Tu mi contenti sí, quando tu solvi», cioè apri e
dimostri la ragion delle cose, le quali, a me occulte, mi son
cagion di dubitare; «Che non men che ‘l saver, dubbiar m’aggrata»,
per udir le tue chiare dimostrazioni. «Ancora un poco indietro ti
rivolvi, – Diss’io», e questo fa’, accioché tu mi dichiari, – «lá
dove di’ ch’usura offende La divina bontade» (la qual cosa ha
detta di sopra, quivi dove dice: «Del segno suo, e Sogdoma e
Caorsa), e ‘l groppo solvi», – cioè il dubbio, il quale mostrava
l’autor d’avere, in quanto non discernea perché l’usuraio
offendesse la natura e l’arte, le quali son cose di Dio, come
dimostrato è di sopra.
«Filosofia,
– mi disse». Qui comincia la sesta parte del presente canto, nella
quale l’autore mostra come da Virgilio gli sia soluto il dubbio
mosso, dicendo: – «Filosofia, – mi disse», Virgilio, – «a chi la
‘ntende, Nota», cioè dimostra, «non pure in una sola parte», ma
in molte, «Come natura».
qui da sapere che,
secondo piace a’ savi, egli è «natura
naturans»,
e questa è Iddio, il quale è d’ogni cosa stato creatore e
produttore; ed è «natura
naturata»,
e questa è l’operazion de’ cieli potenziata e creata da Dio, per la
quale ciò, che quaggiú si produce, nasce. E di questa seconda
intende qui l’autore, dicendo che questa natura naturata «lo suo
corso prende Dal divino intelletto», in quanto piú non adopera, se
non quanto conosce essere della ‘ntenzion di Dio; e percioché essa
prende quindi il suo movimento all’operare, cosí ancora da quello,
in quanto puote, prende la forma dell’operare: per la qual cosa
l’autor dice: «e da sua arte». L’arte del divino intelletto è il
producere ogni cosa perfetta e a certo e determinato fine; e in
questo s’ingegna quanto può la natura d’imitarla, e fallo secondo
la disposizione della materia suggetta, la quale, percioché è
finita, non può ricevere intera perfezione, come riceve la materia
sopra la quale se esercita la divina arte; ché, se ricevere la
potesse la natura naturata, producerebbe cosí i nostri corpi
perpetui, come l’arte divina produce l’anime. Nondimeno essa ogni
cosa, la quale essa produce, produce a certo e determinato fine; ma
non è questo fine della qualitá che è il fine al quale Iddio
produce le cose, le quali esso fa con la sua arte: percioché il
fine al quale Iddio produce le cose, le quali esso compone, è ad
essere eterne; ma la natura le produce al fine di dovere alcuna
volta venir meno, cosí come veggiamo che fanno tutte le cose
prodotte da lei.
Segue adunque l’autore:
«E se tu ben la tua Fisica
note», cioè riguardi e tieni a mente: e dice «la tua Fisica»,
come di sopra fece dell’Etica;
percioché Aristotile, non l’autore, fu quegli che compose il libro
della Fisica;
«Tu troverrai», esser dimostrato, «non dopo molte carte», nel
secondo libro di quella, «Che l’arte vostra», cioè quella che appo
voi mortali se esercita, «quella», cioè la natura, «quanto puote
Segue», in quanto, secondo che ne bastano le forze dello ‘ngegno,
c’ingegnamo nelle cose, le quali il naturale esempio ricevono, fare
ogni cosa simile alla natura, intendendo, per questo, che esse
abbiano quegli medesimi effetti che hanno le cose prodotte dalla
natura, e, se non quegli, almeno, in quanto si può, simili a quegli,
sí come noi possiam vedere in alquanti esercizi meccanici. Sforzasi
il dipintore che la figura dipinta da sé, la quale non è altro che
un poco di colore con certo artificio posto sopra una tavola, sia
tanto simile, in quello atto ch’egli la fa, a quella la quale la
natura ha prodotta e naturalmente in quello atto si dispone, che essa
possa gli occhi de’ riguardanti o in parte o in tutto ingannare,
facendo di sé credere che ella sia quello che ella non è;
similmente colui che fará una statua; e il calzolaio, quanto piú
conforme fará la scarpetta al piede, miglior maestro è reputato:
intendendo sempre in questo che, medianti questi esercizi e le forze
degl’ingegni, séguiti quel frutto all’artefice che a noi séguita
dell’operazion della natura, la quale in ogni sua operazione per
alcuni mezzi, sí come per istrumenti a ciò atti, è fruttuosa. E
perciò aggiugne l’autore le parole seguenti, dicendo l’arte nostra
seguire la natura «come il maestro fa il discente», cioè come lo
scolaro fa il maestro; per che dice Virgilio: «Sí che vostr’arte a
Dio quasi è nepote», cioè figliuola della figliuola; percioché la
natura è figliuola di Dio, in quanto sua creatura, e l’arte nostra è
figliuola della natura, in quanto si sforza di somigliarla, come il
figliuolo somiglia il padre. Ma dice «quasi», e questo dice peroché
propriamente dir non si può la nostra arte essere nepote di Dio,
percioché conviene che la successione sia simigliante a’ suoi
predecessori; il che della nostra arte dir non si può, in quanto
ella è in molte cose difettiva, dove Iddio in tutte è
perfettissimo.
E, questo detto, per
esemplo dimostra cosí dovere essere, come di sopra ha detto,
dicendo: «Da queste due», cioè da natura e da arte, «se tu ti
rechi a mente Lo Genesi»,
quello libro il quale è il primo della Bibbia, «dal principio»,
del mondo, «conviene» all’umana generazione, «Prender sua vita»,
dall’un di questi, cioè dall’arte; percioché Adam, secondo alcuni
vogliono, fu lavorator di terra, e cosí Cain suo figliuolo, e Abel
fu pastore, e, per doversi poter nell’opportunitá sostentare, preson
queste arti; e cosí, mediante la terra e il bestiame, della fatica e
dello ingegno loro traevano il frutto del quale si sostentavano; «ed
avanzar la gente», prendendo questa parte della natura, la quale
mediante le congiunzion de’ maschi e delle femmine, produce gli
animali secondo la loro spezie; e cosí ad Adam e ad Eva convenne per
la lor congiunzione avanzare, cioè producere e multiplicar la gente.
Ma «perché l’usuriere»; chiamasi «usuriere», percioché vende
l’uso della cosa la qual di sua natura non può fare alcun frutto,
cioè de’ danari: «altra via tiene», in quanto fa quello che detto
è, cioè che i denari faccian frutto, li quali di sua natura in
alcuno atto far non possono, e perciò tiene altra via che non fa la
natura o l’arte; appare assai manifestamente che esso «Per sé»,
cioè dall’una parte, «natura» (supple)
dispregia e ha a vile, «e per la», cioè dall’altra parte, «sua
seguace», cioè l’arte, la quale è, come di sopra è mostrato,
seguace della natura, «Dispregia», e cosí offende le cose di
Domeneddio, «poiché in altro pon la spene», cioè in altra spezie
d’avanzare e d’accumular danari.
[Lez.
XLIII]
«Ma seguimi oramai».
Qui comincia la settima e ultima parte del presente canto, nella
quale l’autore discrive per due dimostrazioni l’ora del tempo o del
dí. Dice adunque Virgilio, poi che dichiarato ha il dubbio mossogli:
«Ma seguimi oramai»; quasi voglia dire: assai abbiam parlato sopra
la materia del tuo dubbio; aggiugnendo ancora: «ché ‘l gir mi
piace». E soggiugne piacergli l’andare per l’ora che era, la qual
dimostra primieramente dal luogo del sole, il qual discrive esser
propinquo all’orizzonte orientale del nostro emisperio, e cosí
essere in sul farsi dí; e dimostralo per questa discrizione: «Che i
Pesci guizzan», cioè quel segno del cielo il quale noi chiamiamo
«Pesci».
Ad evidenza della qual
discrizione è da sapere che tra gli altri cerchi, li quali gli
antichi filosofi immaginarono, e per esperienza compresero essere in
cielo, n’è uno il quale si chiama «zodiaco»; ed è detto zodiaco
da «zoas»,
quod
est
«vita»,
in quanto da’ pianeti, li quali di quel cerchio, movendosi, non
escono, prendon vita tutte le cose mortali; ed è questo cerchio non
al diritto del cielo, ma alla schisa, in quanto egli si leva dal
cerchio chiamato «equante», il qual divide igualmente il cielo in
due parti: verso il polo artico ventitré gradi e un minuto, e
altrettanto dalla parte opposita declina verso il polo antartico. E
questo cerchio divisero gli antichi in dodici parti equali, le quali
chiamaron «segni»; percioché in essi spazi figurarono con la
immaginazione certi segni o figure, contenuti e distinti da certe
stelle da lor conosciute in quel luogo, e quegli nominarono e
conformarono a quegli effetti, a’ quali piú inchinevole quella parte
del cielo a producere quaggiú tra noi cognobbono; e il primiero
nominarono «Ariete», e il secondo «Tauro», e il terzo «Gemini»,
e cosí susseguentemente infino al dodicesimo, il quale nominaron
«Pesci».
il vero che essi gli
discrissero al contrario del movimento del cielo ottavo; e questo
fecero, percioché, come il cielo ottavo con tutti gli altri cieli
insieme si muove naturalmente da levante a ponente, cosí quegli
segni, o l’ordine di quegli, procede da ponente a levante, percioché
per esso cerchio, nel quale i predetti segni sono discritti, fanno
lor corso tutti e sette i pianeti, e naturalmente vanno da ponente a
levante: per la qual cosa segue che, essendo il sole nel segno
d’Ariete e surgendo dall’emisperio inferiore al superiore, si leverá
prima di lui il segno de’ Pesci, e in esso sará l’aurora; e cosí
vuol qui l’autore dimostrare per i Pesci, li quali dice che
guizzano, cioè surgono su per l’orizzonte orientale, dimostrar la
prossima elevazion del sole, e cosí essere in su il farsi dí. Ma,
percioché questa dimostrazione non bastava a dimostrar questo tanto
pienamente (e la ragione è perché il segno de’ Pesci potrebbe
essere stato in su l’orizzonte occidentale, e cosí dimostrerebbe
esser vicino di doversi far notte), aggiunge l’autore la seconda
dimostrazione, la quale stante, non può il segno de’ Pesci, essendo
in su l’orizzonte, dimostrare altro se non il sole esser propinquo a
doversi levare sopra ‘l nostro emisperio; e avendo detto: «i Pesci
guizzan su per l’orizzonte», cioè su per quel cerchio che divide
l’uno emisperio dall’altro, il qual si chiama «orizzonte» (che
tanto vuol dire quanto «finitore del nostro vedere», percioché
piú oltre veder non possiamo), dice: «E ‘l carro tutto sovra il
coro giace».
Ad intelletto della
qual dimostrazione è da sapere che, comeché il vento non sia altro
che un semplice spirito, creato da esalazioni della terra e da fredde
nuvole esistenti nell’aere, egli ha nondimeno tanti nomi, quante sono
le regioni dalle quali si conosce esser mosso, e quinci molti per
molti nomi il nominarono; ma ultimamente pare per l’autoritá de’
navicanti, li quali piú con essi esercitano la loro arte, essere
rimasi in otto nomi, e cosí dicono essere otto venti: de’ quali il
primo chiamano «settentrione» ovvero «tramontana», percioché da
quella plaga del mondo spira verso il mezzodí; il seguente chiamano
«vulturno» ovvero «greco», il quale è tra ‘l settentrione e ‘l
levante; il terzo chiamano «euro» o «levante», percioché di
levante spira verso ponente; il quarto chiamano «euro auster»
ovvero «scilocco», il quale è tra levante e mezzodí; il quinto
chiamano «austro» ovvero «mezzodí», percioché dal mezzodí
soffia verso tramontana; il sesto chiamano «libeccio» ovvero
«gherbino», il quale è tra ‘l mezzodí e ‘l ponente; il settimo
chiamano «zeffiro» ovvero «ponente», percioché di ver’ ponente
spira verso levante; l’ottavo chiamano «coro» ovvero «maestro»,
il quale è tra ponente e tramontana. E chiamasi coro, percioché
compie il cerchio, il quale viene ad essere in modo di coro, cioè di
quella spezie di ballo il quale è chiamato «corea». Adunque dice
l’autore sopra questo coro giacere allora, cioè esser tutto
riversato, il carro; la qual cosa mai in quella stagione, cioè del
mese di marzo, ad alcuna ora avvenir non può, né avviene, se non
quando il sole è vicino a doversi levare; e cosí questa
dimostrazione ne fa aver certa fede di quello che intenda l’autore
per la primiera.
Ed è questo carro un
ordine di sette stelle assai chiare e belle, le quali si giran col
cielo, non guari lontane alla tramontana; e per ciò sono chiamate
«carro», perché le quattro son poste in figura quadrata a modo che
è un carro, e le tre son poi distese, nella guisa che è il timone
del carro, fuor del carro. E sono queste sette stelle poste nella
figura d’uno animale, il quale gli antichi tra piú altri
figurarono, immaginando
essere in cielo, chiamato «Orsa maggiore», a differenza d’un’altra
Orsa, la quale è ivi propinqua, e chiamasi «Orsa minore»; nella
coda della quale è quella stella la qual noi chiamiamo «tramontana».
E, poiché Virgilio gli
ha per queste discrizioni mostrato ch’egli è vicino al dí (donde
noi possiam comprendere giá l’autore essere stato in inferno presso
di dodici ore, percioché egli si mosse in sul far della notte, come
nel principio del secondo canto del presente libro appare), ed egli
gli soggiugne un’altra cagione, per la quale l’andare omai gli piace,
dicendo: «E’l balzo», di questa ripa, «via lá oltre», lontan di
qui, «si dismonta», – volendo per questo, che non sia da star piú,
poiché molta via resta ad andare.
In
questo canto non è cosa alcuna che nasconda allegoria.