CANTO
DECIMOQUARTO
I
SENSO
LETTERALE
«Poi che la caritá
del natio loco», ecc. Assai è manifesta la continuazione di questo
canto col precedente, in quanto nella fine del superiore scrive come
pregato fosse da quello spirito, che diceva aver fatto giubbetto a sé
delle sue case, che esso raccogliesse i rami e le frondi sparte
dall’impeto delle cagne, le quali avevano lacerato Giacomo di Santo
Andrea; e nel principio di questo mostra come le raccogliesse. E poi,
seguendo, dimostra in questo settimo cerchio punirsi quella spezie
de’ violenti, li quali contro a Dio e contro alle sue cose violenzia
fecero. E dividesi il presente canto in otto parti: nella prima
discrive la qualitá del luogo, nel qual dice sé esser venuto; nella
seconda dice sé aver veduti greggi d’anime dannate, e dimostra la
pena loro; nella terza domanda d’alcun di que’ dannati, e il dannato
medesimo gli risponde in parte; nella quarta Virgilio piú pienamente
gli dichiara chi è colui e di cui domandato avea; nella quinta
l’autore dice dove, ammonito da Virgilio, divenisse; nella sesta
Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali; nella settima
l’autore fa una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella
ottava e ultima l’ammonisce Virgilio come dietro a lui vada. La
seconda comincia quivi: «O vendetta di Dio»; la terza quivi: «Io
cominciai: – Maestro»; la quarta quivi: «Poi si rivolse a me»; la
quinta quivi: «Or mi vien’dietro»; la sesta quivi: «Tra tutto
l’altro»; la settima quivi: «Ed io ancor: – Maestro»; la ottava
quivi: «Poi disse: – Omai».
Dice adunque
primieramente cosí: «Poi che la caritá», cioè l’amor, «del
natio loco», cioè della patria; percioché igualmente eravamo
amenduni fiorentini; «Mi strinse», ché altra cagione non v’era,
«ragunai le frondi sparte» per l’impeto delle cagne, le quali
avevan lacerato Giacomo da Santo Andrea, come di sopra è detto nella
fine del precedente canto; «E rende’ le», secondo che pregato avea,
«a colui», cioè a quello spirito rilegato in quel bronco, «ch’era
giá fioco», per lo gridare e trar guai. «Indi», fatto questo,
«venimmo al fine, onde si parte Lo secondo giron dal terzo», che è
all’uscire di questo bosco; ed è questo secondo girone la seconda
parte del settimo cerchio dello ‘nferno; «e dove Si vede di
giustizia orribil arte», cioè crudele e rigida.
«A ben manifestar le
cose nuove», se medesimo piú distintamente parlando dichiara. e
dice: «Dico che arrivammo ad una landa», cioè in una parte di
quella regione, dove erano, «Che dal suo letto», cioè dal suo
suolo, «ogni pianta rimuove»: e in questo dimostra sé esser uscito
del bosco e pervenuto nel terzo girone, cioè nella terza parte del
settimo cerchio. «La dolorosa selva», della quale di sopra è
detto. «l’è ghirlanda», cioè circunda quella parte nella qual
pervenimmo, «Intorno, come il fosso tristo ad essa»; cioè, come la
selva è circundata, secondo la dimostrazion fatta di sopra, dal
fosso nel qual la prima spezie de’ violenti bollono nel sangue, cosí
essa selva circunda il luogo, nel quale dice pervennero.
«Quivi fermammo i
passi a randa a randa», cioè in su l’estrema parte della selva e in
su il principio della rena. «Lo spazzo», cioè il suolo di quel
luogo nel quale pervennero, «era una rena».
la rena una terra
tanto lavata dall’acqua, che ogni altra sustanzia o grassezza della
terra n’è tratta, e perciò è infruttifera e sterile e rara; e,
secondo alcuni, è detta «arena» da «areo
ares»,
che sta per «esser secco e asciutto»; e da questo verbo mostra qui
l’autor volere che venga quella rena della quale fa menzione qui,
percioché le pone per adiettivo «arida». Altri dicono che ella
viene da «haereo
haeres»,
il quale sta per accostarsi, e, come i superiori, cosí costoro
ancora dicon bene; ma i superiori dicono della rena secca, e costoro
intendono della rena bagnata, la quale, mentre è molle, s’accosta e
appicca. Ma, come detto è, quella della quale l’autore intende qui,
è della spezie prima. «Arida e spessa»; «arida» è l’uno degli
aggettivi della rena, come dicemmo, ma aggiugne «spessa», a
dimostrare che in tutto il suolo di quel luogo non era alcuna
interposizione d’alcun’altra spezie di terreno, e perciò ella era
spessa, cioè continua. E, oltre a ciò, dice che era «Non d’altra
foggia fatta, che colei», cioè che quella rena, «Che fu da’ piè
di Caton giá soppressa».
Questo Catone, del
quale l’autore fa qui menzione, fu quello il quale dopo la sua morte
fu cognominato «uticense», da una cittá di Barberia chiamata
Utica, nella quale esso se medesimo uccise. Fu adunque costui romano
uomo, d’alta e di singular virtú, ed ebbe maravigliosamente in odio
le maggioranze de’ cittadini; ed essendo giá nate tra Cesare e
Pompeo le discordie cittadine, seguí in quelle le parti di Pompeo,
non perché lui amasse, ma percioché il vide seguire al senato. Ed
essendo per avventura in Affrica, in un paese chiamato Cirene, il
quale è confine con Egitto, e quivi con lui insieme Gneo Pompeo,
figliuolo di Pompeo magno, li quali in quelle contrade ragunavano
quegli li quali potevano, per restaurare le forze di Pompeo stato giá
vinto in Tessaglia; arrivaron quivi quegli navili sopra i quali
Pompeo era andato in Egitto: e, avendo veduto uccider Pompeo,
Cornelia, sua moglie, e Sesto Pompeo, suo figliuolo, verso quella
parte s’erano rifuggiti. Da’ quali Catone e Gneo sentirono quello che
a Pompeo era intervenuto: e perciò, ancora che il tempo fosse
malvagio, Gneo si mise con parte della gente, la quale avevano, in
mare; e Catone, considerata la qualitá del tempo, ché sopravveniva
il verno, e ancora il mare che era da navicare, che non era altro che
secche, sí come ancora è la costiera di Barberia; volendo pervenire
in Numidia, dove sapeva essere il re Giuba, il quale era pompeano;
con tutti quelli delle parti pompeane che con lui quivi rimasi erano,
non essendo lor sicuro l’andar troppo vicini alle marine, si mise a
venirne verso Numidia per le arene di Libia. Le quali non solamente
sono sterili e solitarie e piene di serpenti e senza acque o fiumi,
se non molto radi, ma elle sono, per lo calore del sole soprastante a
quelle contrade, cocentissime e molto malagevoli a dover camminare,
percioché non senza gran fatica vi si posson su fermare i piè di
chi va. Or nondimeno la virtú di Catone fu tanta, che, quantunque le
rene fossero molto cocenti e piene d’ogni disagio e di molti
pericoli, esso condusse il suo esercito, dopo il secondo mese, nella
cittá di Letti in Barberia, e quivi vernò con esso.
Potrebbonsi in laude di
questo Catone dir molte cose sante e buone e vere; ma, percioché di
lui pienamente si scriverá nel primo canto del Purgatorio,
qui a piú dirne non mi distendo. Fu adunque ferventissima, come
detto è, la rena la quale esso in Libia scalpitò, alla quale
l’autore assomiglia quella che in questo giron trovò.
[Potrebbesi qui per
alcuno muovere un dubbio cotale: e’ pare che per tutti si tenga, ogni
cosa, la quale è infra ‘l cielo della luna e la terra, essere stata
dalla natura prodotta ad uso e utilitá dell’umana generazione; la
qual proposizione non pare si possa verificare, considerata la
qualitá del paese arenoso poco avanti discritto; percioché quello
ad alcuno uso non è abile né utile quanto è agli uomini, percioché
egli è sterile, né pianta né criatura vi vive, se giá serpenti
non fossero, li quali sono nemici degli uomini. A questa opposizione,
comeché alla nostra materia non paia che appartenga, si potrebbe per
avventura cosí rispondere: esser vero nulla cosa essere stata dalla
natura prodotta se non ad utile uso dell’umana generazione; ma di
queste alcune per vari accidenti esserne divenute disutili, poi che
prodotte furono, sí come è la predetta regione arenosa, e alcune
altre in Asia simiglianti a quella: e però quello, che per accidente
addiviene, non è difetto della natura, sí come ne’ nostri medesimi
corpi noi possiam vedere, li quali il piú la natura produce sani e
in buona abitudine, e noi poi col disordinatamente vivere,
corrompiamo e facciamo infermi.]
[E che non opera della
natura, ma d’accidente, fosse l’essere Libia arenosa e sterile, si
può da questa istoria comprendere, come altra volta è stato detto.
Estimano certi molto antichi che giá fosse tempo che il mare, il
quale noi chiamiamo Mediterraneo, non fosse, ma che, per opera
d’Ercule, in ponente un monte il quale era continuo insieme d’alcun
promontorio, il quale gli antichi chiamavano Calpe in Ispagna, e oggi
è chiamato monte Gibeltaro, e d’un promontorio, il quale è dalla
parte opposita chiamato Abila nel Morrocco, vicino ad una cittá
chiamata Setta, si rompesse; e per quella rottura si desse la via al
mare Oceano ad entrare infra la terra, come entrato il veggiamo, e
avere occupato grandissima quantitá del mondo occidentale. Alla qual
cosa fare non è da credere che acqua si creasse di nuovo, ma essere
convenuto che di quella del mare Oceano questo mare Mediterraneo si
sia riempiuto: convenne adunque che d’alcuna altra parte del mondo
piú rilevata l’acque si partissero, e venissero in questo mare; e,
partendosi, lasciassero alcuna parte della terra, la qual coprivano,
scoperta, e alcuna parte del mare, la quale era molto profonda, meno
profonda. E di quelle parti della terra, che scoperte rimasero, si
può credere essere state le contrade di Libia, d’Etiopia e di
Numidia, le quali arenose si truovano, e cosí ancora di quelle
d’Asia. E che ciò possa essere stato vero, si puote ancora
comprendere per quello che Pomponio Mela scrive nella sua
Cosmografia,
nella quale, parlando della provincia o del regno dí Numidia, scrive
in alcuna parte di
quello
trovarsi molte conche marine, ed essersi giá trovate ancore e altri
strumenti nautici, sí come talvolta nel mare da’ navicanti gittati
si lasciano, per tempesta o per altri casi: le quali cose assai ben
paiono testimoniare quivi altra volta essere stato mare. E perciò,
venendo ad alcuna conclusione, si può dire non essere stata quella
contrada prodotta dalla natura fuori dell’uso dell’umana generazione,
ma essere per lo avere il mare, che quivi era e navicavasi, per
accidente fatto trascorrere altrove, e quella essere rimasa disutile
e non atta all’uso umano.]
[Lez.
LIII]
«O vendetta di Dio».
Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale, poiché
l’autore ha discritta la qualitá del luogo nel quale pervenne,
dimostra sé aver vedute greggi d’anime dannate, e dimostra
similmente la pena loro. Dice adunque: «O vendetta di Dio». [Questo
vocabolo «vendetta» usa impropriamente l’autore, sí come molti
altri fanno; percioché vendetta propriamente quella
che gli uomini disiderano d’alcuna ingiuria, la quale hanno, o par
loro avere, da alcun ricevuta; il qual disiderio non può cadere in
Dio, percioché Iddio, come altra volta è stato detto, è una
essenzia perfettissima, stabile ed eterna, e perciò in esso non può
alcuna passione aver luogo. Ma noi ragioniam di lui come noi
facciamo di noi medesimi: e assai son di quegli che scioccamente
quello stiman di lui, che di se medesimi fanno, cioè che egli
s’adiri, che egli s’accenda in furore, che egli si vendichi. Ed egli
non è cosí. È il vero che le nostre non buone operazioni meritano
d’esser punite, alla punizion delle quali insurge la sua giustizia;
e questa, di sua natura, non come commossa da alcuna passione,
secondo i meriti ritribuisce a ciascuno; e perciò, se per le sue
malvagie opere ad alcuno avviene men che bene, noi diciamo ciò
essere la vendetta di Dio, la qual, propriamente parlando, è
l’operazion della divina giustizia. Vuolsi adunque questo vocabol
«vendetta» intendere in questo luogo «giustizia di Dio».]
«Quanto tu déi Esser
temuta da ciascun che legge», nel presente libro, «Ciò che fu
manifesto agli occhi miei», de’ tuoi effetti! «D’anime nude vidi
molte gregge», cioè molte brigate, molte schiere, «Che piangien
tutte assai miseramente». Qui, posta la general pena di tutte,
discende alle particularitá, dicendo: «E parea posta lor», dalla
giustizia, «diversa legge».
E, venendo a dir quale,
séguita: «Supin giaceva in terra alcuna genta», cioè parte di
queste molte; e dice giacevan «supine», cioè col viso volto insú;
«Alcuna», parte di questa molta gente, «si sedea tutta raccolta»,
con le gambe raccolte sotto l’anche, «Ed altra», parte di questa
gente, «andava continuamente. Quella che giva intorno era piú
molta», che alcuna dell’altre due le quali ha discritte, «E quella
men, che giaceva», supina, «al tormento», il quale appresso
discriverá; «Ma piú al duolo avea la lingua sciolta», cioè
espedita. «Sovra tutto il sabbion», cioè rena, «d’un cader lento,
Piovean di fuoco dilatate falde, Come di neve in alpe senza vento».
Appresso per una
comparazione, o vogliam dire esemplo, dimostra quello che queste
falde di fuoco adoperassero in tormento de’ dannati in quel luogo; e
dice: «Quali Alessandro», re di Macedonia, del qual di sopra
dicemmo piú distesamente, «in quelle parti calde D’India vide sovra
lo suo stuolo Fiamme cadere infino a terra salde».
Due province sono in
Asia chiamate ciascuna India. È il vero che l’una è detta India
superiore, e l’altra India inferiore; e voglion questi, che il mondo
discrivono, che i confini della superiore sieno col mare Oceano
orientale, e sia caldissima provincia, e dinominata da un fiume
chiamato Indo, il quale dopo lungo corso mette nel mar di Persia; e
l’altra India essere contermine a questa superiore, ma piú
occidentale, e non tanto fervente quanto la superiore: e Alessandro
macedonico fu in ciascheduna di queste. Ora, per cosa la quale io
abbia letta o udita, non m’è assai certo dove quello, che l’autor
discrive qui, gli avvenisse, né se ciò gli avvenne per la natura
del luogo ardentissima, la quale accendesse i vapori tirati sú in
alto da’ raggi solari, e quegli accesi poi ricadessero sopra lo
stuolo d’Alessandro, o se per alcuna arte de’ nemici queste fiamme
fossero saettate sopra l’esercito d’Alessandro. E però, lasciando
stare la istoria, la quale io non so (come io abbia non una volta ma
piú veduto Quinto Curzio, che di lui assai pienamente scrive, e
Guiglielmo d’Inghilterra e altri), e riguardando all’effetto, possiam
comprendere l’autor per questo ingegnarsi di dimostrarci quello che
in quella parte dello ‘nferno avvenía sopra la rena, e sopra i
miseri peccatori che in quel luogo dannati sono.
Poi segue parole
spettanti piú alla provvidenza d’Alessandro che alla presente
materia, se non in quanto dice che la rena s’accendeva come esca, da
quelle fiamme che sú vi cadeano: «Perch’e’ provvide», Alessandro,
«a scalpitar lo suolo Con le sue schiere»; e questo fece «accioché
‘l vapore», acceso, che cadeva sopra la rena, «Me’ si stingueva»,
cioè spegneva, «mentre ch’era solo», cioè prima che con l’altre
parti accese si congiugnesse. «Tale scendeva l’eternale ardore»,
quale mostrato è nell’esemplo di sopra detto, «Onde la rena
s’accendea com’ésca Sotto fucile». D’assai cose e diversamente si
compone quella materia la quale noi chiamiamo «ésca», atta ad
accendersi da qualunque piccola favilla di fuoco; e il fucile è uno
strumento d’acciaio a dovere delle pietre, le quali noi chiamiamo
«focaie», fare, percotendole, uscir faville di fuoco. E l’accender
di questa rena avveniva, per «addoppiare il dolore» de’ miseri
peccatori che sú vi stavano.
«Senza riposo mai era
la tresca». È la «tresca» una maniera di ballare, la qual si fa
di mani e di piedi, a similitudine della quale vuol qui l’autore che
noi intendiamo i peccatori quivi le mani menare, e però dice: «Delle
misere mani»; e poi dimostra in che, dicendo: «or quindi, or
quinci», cioè ora da questa parte del corpo, ora da quella,
«Iscotendo da sé l’arsura fresca», cioè il fuoco che
continuamente di nuovo piovea.
«Io cominciai: –
Maestro». Qui comincia la terza parte del presente canto, nella
quale, poi che l’autore ha discritta la pena de’ peccatori che quivi
son dannati, ed esso domanda d’alcun di quegli dannati chi el sia, e
il dannato medesimo gli risponde in parte. Dice adunque: «Io
cominciai:
Maestro,
tu che vinci Tutte le cose, fuor che i dimon duri, Ch’all’entrar
della porta», di Dite, «incontro uscinci». Dice questo l’autore,
percioché infino a quel luogo Virgilio avea con le sue parole vinto
ogni dimonio che incontro gli s’era fatto, se non quegli che in su
la porta di Dite sentirono: dove allegoricamente si dee intendere la
ragione ogni cosa vincere, se non l’ostinazione, la quale sola la
divina potenzia vince e matura, come di sopra è stato mostrato.
«Chi è quel grande, che non par che curi Lo ‘ncendio», di queste
fiamme, negli atti suoi, «e giace dispettoso e torto», quasi non
doglia senta del tormento, ma dispetto dell’esser tormentato, «Sí
che la pioggia», delle fiamme, che continuamente caggiano, «non
par che ‘l maturi»? – cioè l’aumili.
«E quel medesmo, che
si fu accorto Ch’io domandava il mio duca di lui, Gridò: – Qual io
fu’ vivo, tal son morto». Possonsi per le predette parole, e ancora
per le seguenti, comprendere quali sieno i costumi e l’animo
dell’arrogante; e primieramente in quanto dice che giace «dispettoso
e torto», segno di stizzoso e d’orgoglioso animo, e poi in ciò che
egli non domandato rispose gridando: percioché sempre i presuntuosi
prevengon colle risposte, senza esser chiamati, e, volendo mostrare sé non aver
paura d’alcuno, per essere uditi parlan gridando; e, oltre a ciò,
confessando le lor medesime colpe, estimano di commendarsi
maravigliosamente. E perciò dice che egli è tal morto quale egli fu
vivo, cioè che, come vivendo fu dispettatore e bestemmiatore della
divina potenzia, senza curarla, cosí dice che, ancora che dannato
sia e pruovi quanto sia grave il giudicio di Dio, s’è similmente
orgoglioso, superbo e bestiale.
E, per mostrare piú
pienamente che cosí sia, segue: «Se Giove», cioè Iddio, secondo
l’opinione erronea de’ gentili, «stanchi» cioè infino all’ultimo
della lor forza fatichi, «i suoi fabbri, da cui», cioè da’ quali,
«Crucciato prese la fólgore acuta, Onde l’ultimo dí», della mia
vita, «percosso fui»; percioché, come appresso si dirá, fu
fulminato: «O s’egli stanchi gli altri», fabbri, «a muta, a muta»,
cioè facendogli, poi che alcuni stanchi ne fieno, fabbricar gli
altri, e cosí que’ medesimi, poi che riposati fieno, né altro
faccian che folgori per ferirmi; «In Mongibello alla fucina negra»,
lá dove i fabbri di Giove fabbricano le fólgori, le quali Giove
fulmina; ed, oltre a quegli, «Chiamando: – O buon Vulcano, aiuta,
aiuta!», – a’ fabbri miei a far delle fólgori; «Siccom’el fece
alla pugna di Flegra», nella quale esso fulminò i giganti; «E me
saetti di tutta sua forza», con tutte queste fólgori le quali avrá
fatte fabbricare; «Non ne potrebbe aver vendetta allegra», – del
dispettarlo, che io feci, essendo io vivo.
[Ora a piú piena
dichiarazion dare delle cose predette, è da sapere che, secondo le
fizioni poetiche, come altra volta è stato detto, Giove fu re del
cielo, e dicono che in luogo di real verga egli portava nella destra
mano una fólgore, la quale aveva tre punte, e con questa dicono che
esso fulminava chiunque l’offendeva; e, oltre a ciò, perché egli
molte fólgori gittava, percioché assai erano i nocenti, gli
attribuiscono piú fabbri, e in diversi luoghi. E il principale di
tutti dicono esser Vulcano, iddio del fuoco, e sotto lui i ciclopi,
uomini di grande statura, e robustissimi e forti, de’ quali Virgilio,
nell’ottavo dell’Eneida,
nomina tre, cioè Brontes e Steropes e Piragmon, li quali tutti
fabbricano fólgori, e nell’isola di Vulcano, e in Etna (il quale
volgarmente è chiamato Mongibello), e in altre parti. Oltre alle
predette cose, scrivono i poeti che una spezie d’uomini chiamati «i
giganti», di maravigliosa grandezza e statura di corpo, e di forza
maggiore assai che umana, nati del sangue de’ Titani (li quali Giove
aveva uccisi, quando liberò Saturno, suo padre, e la madre, della
prigione di Titano), si levarono incontro al detto Giove, e, per
volergli tôrre il cielo, posero piú monti l’uno sopra l’altro, e
intorno a ciò grandissime forze adoperarono: contro a’ quali Giove
combattendo in una parte di Tessaglia chiamata Flegra, tutti gli
fulminò e vinse, e in quella battaglia gittò molte fólgori; per la
qual cosa furono fieramente faticati i fabbri suoi. E questo è quel
che vuol dire: «O s’egli stanchi gli altri a muta a muta», ecc.]
Ma in quanto dice
questo superbo spirito che Iddio non potrebbe di lui aver «vendetta
allegra», si dee intendere secondo l’opinione di colui che dice,
percioché la bestialitá de’ blasfèmi è tanta, che essi estimano
troppo bene fieramente offendere Iddio quando il bestemmiano o
negano; non avveggendosi che in Dio non può cadere offensione
alcuna, e che quella offensione, la quale essi credono fare a Dio,
essi fanno a se medesimi; e tanto maggiore, quanto la forza della
divina giustizia è maggiore in punirgli, che le lor non sono in
bestemmiarlo. È il vero che, guardando alle cose temporali, che,
considerata la eccellenza d’uno imperadore e la bassezza d’un povero
uomo, non pare lo ‘mperadore dover potere allegra vendetta prendere,
se da quel cotal povero e di basso stato offeso fosse; e secondo
questo intendimento si deono prendere le parole bestiali di questo
spirito dannato, del quale è da vedere quello che contro a Dio
commettesse. Intorno a ciò è da sapere, secondo che Stazio scrive
nel suo Thebaidos,
che poi che Edippo, re di Tebe, s’ebbe cacciati gli occhi e rifiutato
il reggimento, Etiocle e Pollinice, suoi figliuoli, vennero del reame
in questa concordia, che ciascun regnasse il suo anno, e, mentre
l’uno regnasse, l’altro andasse a star fuor del regno dove piú gli
piacesse. Per la qual cosa toccò il primo anno a regnare ad Etiocle,
il quale era di piú dí, e Pollinice se n’andò in esilio ad Argo;
dove, ricevuto dal re Adrasto e presa una sua figliuola per moglie,
raddomandandò al fratello il regno secondo le convenzioni, e non
vogliendogli essere renduto, il re Adrasto, per racquistare il reame
al genero, andò insieme con sei altri re sopra i tebani, e quivi piú
battaglie si fecero. Ed essendovi giá stati morti quattro re, di
quegli che con Adrasto andati v’erano, avvenne
un dí che, appressatisi alla cittá quegli che con Adrasto eran
rimasi, de’ quali era l’uno Campaneo, uomo di statura di corpo grande
e di maravigliosa forza, bestiale e arrogante, appoggiata una scala
alle mura di Tebe, quantunque d’in su le mura piovessero sopra lui
infinite e grandissime pietre e travi e altre cose per vietargli il
potere sopra le mura salire; nondimeno, sempre bestemmiando Iddio e
dispettandolo, tanta fu la forza sua, che egli pur vi salí, e,
occupata una parte del muro, con l’ombra sola della grandezza del suo
corpo veduta nella cittá, spaventò i tebani. E quivi, non
bastandogli il dispettar gli uomini, e continuamente gittando di
sopra al muro pietre a’ cittadini, levato il viso verso il cielo,
cominciò a chiamare gl’iddii che venissero a combatter con lui,
dicendo: – O iddii, non è alcuna delle vostre deitá, la quale ora
adoperi per li paurosi tebani? o Bacco, o Ercule, cittadini di questa
terra, ove siete voi? Ma egli m’è noioso chiamare alle mie battaglie
i minori iddii: vien’tu, o Giove, piú tosto che alcuno altro: chi è
piú degno di te d’occorrere alle mie forze? Vieni e occorri con
tutte le forze tue! sfórzati con tutte le tue folgori contra di me!
tu se’ pur forte a spaventare le paurose fanciulle co’ tuoni! – Le
quali parole, e forse molte altre, mossero gl’iddii a dolersi; ma
Giove, ridendosene, cominciato il cielo a turbare e a tonare,
piovendo di forza, e continuamente cadendo fólgori, una ne cadde
sopra Campaneo, della quale essendo il corpo suo tutto acceso, stette
in piede, e, conoscendo sé morire, guardava in qual parte si dovesse
lasciar cadere che piú offendesse, cadendo, i nemici: e in questa
guisa cessò ad un’ora la vita e la superbia sua.
Premesse adunque le
predette cose, soggiugne l’autore quello che da Virgilio detto gli
fosse, dicendo: «Allor lo duca mio parlò di forza, Tanto ch’io non
l’avea sí forte udito,» parlare infino a questo punto: – «O
Campaneo, in ciò che non s’ammorza», cioè s’attuta per martirio
che tu abbi, «La tua superbia, se’ tu piú punito;» e soggiugne la
cagione: percioché «Nullo martiro», quantunque grande, «fuor che
la tua rabbia», con la quale, oltre al fuoco che t’affligge, tu ti
rodi di te medesimo, «Sarebbe al tuo furor dolor compito». –
«Poi si rivolse». Qui
comincia la quarta parte del presente canto, nella quale, poiché ha
ammaestrato chi fosse questo grande, del quale di sapere disiderava,
per certe circunlocuziuni Virgilio piú pienamente gliele dichiara.
Dice adunque: «Poi», che cosí di forza ebbe parlato a quello
arrogante spirito, «si rivolse a me con miglior labbia», cioè
aspetto; erasi per avventura commosso, udendo Campaneo cosí
superbamente parlare, e perciò cambiato nel viso; «Dicendo: – Quel
fu l’un de’ sette regi Ch’assiser Tebe», cioè assediarono, come di
sopra è mostrato, «ed ebbe, e par ch’egli abbia Dio in dispregio, e
poco par che’l pregi; Ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti Sono al
suo petto assai debiti fregi». Impropriamente parla qui l’autore,
trasportando, auctoritate
poetica,
in dimostrazion d’ornamenti, quello che vuol che s’intenda per
accrescimento di tormenti; dice adunque che, come i fregi sono
ornamento al petto, cioè a quella parte del vestimento che cuopre il
petto, cosí i dispetti di costui sono debito tormento all’anima sua.
«Or mi vien’dietro».
Qui comincia la quinta parte del presente canto, nella quale l’autore
discrive dove, ammonito da Virgilio, divenisse; e dice: «Or mi
vien’dietro», senza piú ragionare di Campaneo, «e guarda che non
metti Ancor li piedi nella rena arsiccia», cioè inarsicciata per la
continua piova delle fiamme, che veniva di sopra: «Ma sempre al
bosco», del quale è detto di sopra, e lungo il quale andavano, «fa’
li tenghi stretti», – cioè accostati.
[Lez.
LIV]
«Tacendo divenimmo lá
ove spiccia, Fuor della selva», cioè del bosco predetto, «un
picciol fiumicello, Lo cui rossore ancor mi raccapriccia», cioè mi
commuove, come si commuovono gli uomini, quando veggono alcuna
orribil cosa: e questo fiumicello era orribile per la sua rossezza,
in quanto pareva sangue, e però il dice essere rosso, perché si
comprenda quello dirivarsi da quel fosso di sangue, nel quale di
sopra ha mostrato essere puniti i tiranni e gli altri violenti nel
prossimo.
E
appresso questo, per una comparazion discrive la grandezza e ‘l corso
di quello, dicendo:
«Quale
del bulicame», cioè di quello lago bogliente, il quale è vicino di
Viterbo, cosí chiamato, «esce il ruscello»,
cioè un piccol rivo, «Che parton poi tra lor le peccatrici».
Dicono alcuni appresso a questo bulicame essere stanze, nelle quali
dimorano le femmine publiche, e queste, per lavare lor vestimenti,
come questo ruscello viene discendendo, cosí alcuna particella di
quello volgono verso la loro stanza. «Tal per la rena giú sen giva
quello», che usciva fuori della selva. «Lo fondo suo ed ambo le
pendici», cioè le ripe, le quali perciò chiama «pendici» perché
pendono verso l’acqua, «Fatte eran pietra, e i margini d’allato»,
come nel presente mondo fanno alcuni fiumi, sí come qui fra noi
l’Elsa, e presso di Napoli Sarno; «Per ch’io m’accorsi che ‘l passo
era lici», dove le pendici erano cosí divenute di pietra.
«Tra
tutto l’altro». Qui comincia la sesta parte del presente canto,
nella quale Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali,
dicendo: -«Tra tutto l’altro ch’io t’ho dimostrato, Posciaché noi
entrammo per la porta, Il cui sogliare a nessuno è negato», di
poterlo, entrando dentro, trapassare (e questo «sogliare» è
quello della prima porta dello ‘nferno, sopra la quale è scritto:
«Per me si va», ecc.), «Cosa non fu dalli tuoi occhi scorta»,
cioè veduta, «Notabil come lo presente rio», che uscendo dalla
selva qui corre, e «Che sopra sé tutte fiammelle», di quelle che
quivi continuamente piovono, «ammorta», – cioè spegne.
«Queste parole fûr
del duca mio» (cioè quelle che dette sono, «Cosa non fu», ecc.),
«Per ch’io ‘l pregai che mi largisse», cioè donasse. «il pasto»,
cioè che egli mi facesse chiaro perché questo ruscello fosse la piú
notabil cosa che io veduta avessi per infino a qui in inferno: «Di
cui largito m’aveva ‘l disio», cioè fatto nascer disiderio di
sapere.
Per
lo qual priego dell’autore, Virgilio incomincia a discrivergli
l’origine de’ detti fiumi, cosí:
–
«In mezzo ‘l mar siede un paese guasto, – Diss’egli allora, – che
s’appella Creta».
Creti è una isola
dell’Arcipelago, ed è una delle Cicladi, e perciò dice che ella
siede in mezzo mare, perché ella è, sí come ogni altra isola,
intorniata dall’acque del mare: e chiamala «paese guasto», e cosí
è, per rispetto a quello che anticamente esser solea, percioché
d’essa scrivono gli antichi che ella fu nobilissima isola, di molti e
nobili abitanti, di molte cittá, e fruttuosissima molto; e fu
dinominata Creti da un re, il quale ella ebbe, che si chiamò «Cres».
Oggi la tengono i vineziani tirannescamente, e hanno di quella
cacciati molti antichi paesani e gran parte d’essa, il cui terreno è
ottimo e fruttifero, fanno star sodo e per pasture, per tener magri
quegli della contrada.
E séguita: «sotto ‘l
cui rege fu giá il mondo casto». Séguita in questa parte l’autore
l’opinion volgare delle genti, la qual tiene che Saturno fosse re di
Creti; la qual cosa Evemero nella istoria sacra mostra non esser
cosí, anzi dice che egli fu re d’Olimpo, il quale è un monte
altissimo in Macedonia. È ben vero che ella era sotto la sua
signoria, e perciò dice che sotto il re di questa isola fu il mondo
casto; percioché, come altra volta è stato detto, regnante Saturno,
fu il mondo o non corrotto, o men corrotto alle lascivie che poi
stato non è; e però dice Giovenale,
Credo
pudicitiam, Saturno rege, moratam
in
terris,
ecc.
«Una montagna v’è»,
in questo paese guasto, «che giá fu lieta, D’acqua e di frondi»,
sí come quella nella quale eran molte e belle fontane e dilettevoli
boschi, «che si chiamò Ida»; e cosí dallo effetto ebbe il nome,
percioché Ida vuol tanto dire quanto «cosa formosa e bella». E qui
è da guardare questa Ida non esser quella nella quale si legge che
Paris die’ la sentenza tra le tre dèe, peroché quella è una selva
vicina ad Ilione. «Ora è diserta», cioè abbandonata, «come cosa
vieta», cioè vecchia e guasta. «Rea la scelse giá per cuna»,
cioè per culla, volendo per questo nome intendere il luogo atto a
dovervi poter nudrire e allevare il figliuolo, sí come le nutrici
gli allievano nelle culle; «fida», cioè sicura, «Del suo
figliuolo», cioè di Giove, il quale quivi allevar fece
nascosamente; «e per celarlo meglio, Quando piangea», questo
fanciullo, il quale occultamente faceva in questa montagna allevare,
«vi facea far le grida», cioè avea ordinato che, piangendo il
fanciullo, vi si
facesse romore da coloro alli quali raccomandato l’avea, accioché il
pianto del fanciullo da alcun circunstante non fosse udito né
conosciuto.
[E, a piú dichiarazion
di questo, è da sapere che, come altra volta di sopra è detto,
secondo che si legge nella Sacra
istoria,
che, avendo Uranio due figliuoli, Titano e Saturno, ed essendo Titano
in altre contrade, morendo Uranio, Saturno prese il regno del padre,
il quale apparteneva a Titano, sí come a colui che di piú tempo
era; il quale poi tornando, e volendo il regno, Saturno non glielo
volle dare, sconfortatone dalla madre e dalle sorelle: per che venne
Titano a questa composizione, che tutti i figliuoli maschi, ch’egli
avesse ovvero che gli nascessero, esso dovesse uccidere; e in questa
guisa Titano, senza altra quistione, gli lasciò possedere il regno.
Avvenne che la moglie di Saturno, la quale era gravida, e il cui nome
fu Opis e Rea, e ancora ebbe alcuno altro nome, partorí e fece due
figliuoli, uno maschio e una femmina, e presentò la femmina a
Saturno, senza fargli sentire alcuna cosa del maschio, il quale essa
chiamò Giove, e occultamente nel mandò in Creti; e quivi fattolo
raccomandare ad un popolo, il qual si chiamava i cureti, il fece
occultamente allevare. E questi cureti, avendo solenne guardia del
fanciullo, accioché alcuno non ne potesse avere alcun sentore, avean
fra sé preso questo ordine tra gli altri, che, quando il fanciullo
piagneva, essi co’ bastoni battevano o gli scudi loro o bacini o
altra cosa che facesse romore, accioché il pianto non fosse
sentito.]
E poi segue l’autore:
«Dentro dal monte», Ida, «sta dritto un gran veglio», cioè la
statua d’un gran veglio, cioè vecchio, «Che tien volte le spalle
inver’Damiata»; Damiata è buona e grande cittá d’Egitto posta
sopra il fiume del Nilo; «E Roma guarda sí come suo speglio», cioè
suo specchio; e cosí tien le spalle verso levante e il viso verso
ponente. «La testa sua», di questa statua, «è di fin òr formata,
E puro argento son le braccia e ‘l petto», di questa statua, «Poi è
di rame fino alla forcata. Da indi in giú», cioè dalla inforcatura
insino ai piedi è tutto ferro eletto», cioè senza alcuna mistura
d’altro metallo, «Salvo che ‘l destro piede», di questa statua, «è
terra cotta», come sono i mattoni; «E sta su quel, piú che ‘n su
l’altro», cioè in sul sinistro, «eretto»; e cosí mostra si fermi
piú in sul destro che in sul sinistro, come generalmente tutti
facciamo, percioché i membri del corpo nostro, li quali sono dalla
parte destra, hanno piú di vigore e di forza che i sinistri: e ciò
si crede che avvenga, percioché la bocca del cuore è vòlta verso
il destro lato del corpo, e verso quello versa il sangue, il quale
poi per tutte le vene del corpo si spande, il calore del quale si
crede essere cagion di piú forza a’ membri destri.
Poi séguita: «Ciascuna
parte», delle predette del corpo di questa statua, cioè quella ch’è
d’ariento e quella di rame e quella di ferro e quella che è di terra
cotta, «fuor che l’oro», cioè eccettuata quella che è d’oro, «è
rotta D’una fessura che lagrime goccia», cioè gocciola, «Le
quali», lagrime gemute da queste parti del corpo di questa statua,
«accolte» insieme, «foran questa grotta», cioè quella terra, la
quale è interposta tra questa statua e ‘l primo cerchio dello
‘nferno. «Lor corso», di queste lagrime accolte, «in questa
valle», nella quale noi siamo al presente, o in questa valle, cioè
in inferno, «si diroccia», cioè va cadendo di roccia in roccia,
cioè di balzo in balzo, per li quali di cerchio in cerchio, come
veder s’è potuto infino a qui, si discende al profondo dello
‘nferno: «Fanno», queste lagrime di sé, cosí discendendo,
«Acheronte», il primo fiume dello ‘nferno, del quale è detto di
sopra nel primo canto; e fanno «Stige», cioè quella palude della
quale è mostrato di sopra nel settimo e nell’ottavo canto, la quale
si diriva dal superchio che esce del fiume d’Acheronte; e
«Flegetonta», ancora fanno, il quale è il terzo fiume dello
‘nferno, e dirivasi dall’acqua la qual esce di Stige; e trovossi
questo fiume all’entrata di questo settimo cerchio, il qual l’autor
discrive esser vermiglio e bollire in esso la prima spezie de’
violenti. «Poi sen va giú per questa stretta doccia», cioè per
questo stretto ruscello il qual tu vedi, il quale per la sua
strettezza assomiglia ad una «doccia», per la quale, come assai è
manifesto, qui si menano l’acque prestamente d’una parte ad un’altra;
e però è detta «doccia» da questo verbo «duco
ducis»,
il quale sta per «menare». Poi mostra questo rivo andarne giú,
«Insin lá ove piú non si dismonta», cioè infino al centro della
terra. E quivi «Fanno», queste lagrime, «Cocíto», un fiume cosí
chiamato, ed è il quarto fiume dello ‘nferno; «e qual sia quello
stagno», di Cocíto, il quale egli meritamente chiama «stagno»,
percioché piú avanti non si
muove, e gli stagni sono acque le quali non hanno alcun movimento, e
perciò son chiamate «stagno» da «sto
stas»,
il qual viene a dire «stare»; «Tu il vedrai», questo stagno,
discendendo noi giuso; «però qui non si conta», – come fatto sia.
Quasí come se gli altri tre avesse discritti, il che egli non ha
fatto; ma intende in luogo della descrizione l’avergli l’autor
veduti, dove Cocíto ancora veduto non ha.
«Ed io a lui: – Se ‘l
presente rigagno», cioè ruscello, il quale chiama «rigagno» da
«rigo
rigas»,
che sta per «rigare», e questo rio rigava la rena sopra la qual
correva, «Si deriva cosí dal
nostro
mondo», come tu mi dimostri, «Perché ci appar pure a questo
vivagno?» – cioè in questa parte sola e non altrove? Della qual
domanda dell’autore io mi maraviglio, conciosiacosaché egli l’abbia
in piú parti veduto di sopra, sí come manifestamente appare nella
lettera e ancor nella dimostrazion di Virgilio. E se alcun volesse
forse dire: egli sono appariti i fiumi nati da questo rigagno, ma non
il suo diclinare; e questo ancora gli è apparito di sopra, dove nel
canto settimo scrive che pervennero sopra una fonte, donde usciva
acqua, la quale correva per un fossato, e faceva poi la padule di
Stige. E di questo io non so veder la cagione, conciosiacosaché egli
ancora il raffermi nella risposta, la qual Virgilio gli fa, dicendo:
«Ed egli a me: – Tu sai che ‘l luogo è tondo», cioè il luogo
dello ‘nferno, come piú volte di sopra è dimostrato; «E tutto che
tu sia venuto molto», scendendo, «Pure a sinistra giú calando al
fondo, Non se’ ancor per tutto ‘l cerchio vòlto», di questa
ritonditá dello ‘nferno: «per che se cosa n’apparisse nuova», nel
rimanente del cerchio, il qual tu hai ancora a volgere discendendo,
«Non dee addur maraviglia al tuo volto», – come che per avventura
potrebbe addurre, se tu fossi vòlto per tutto il cerchio. Quasi
voglia dire: e però non ti maravigliare se ancora veduto non hai lo
scender di quest’acqua, percioché tu non eri ancora pervenuto a
quella parte del cerchio, della quale ella scende.
«Ed io ancor: –
Maestro». Qui comincia la settima parte di questo canto, nella qual,
poi che Virgilio gli ha dimostrata l’origine de’ quattro fiumi
infernali, fa l’autore una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele
solve. Dice adunque: «Ed io ancor: – Maestro, ove si truova
Flegetonte e Letè?», li quali, secondo Virgilio e gli altri poeti,
sono similmente fiumi infernali, «ché dell’un taci», cioè di
Letè, senza dirne alcuna cosa, «E l’altro», cioè Flegetonte, «di’
che si fa d’esta piova», cioè delle lagrime, le quali escono delle
fessure, le quali sono nella statua predetta.
«In
tutte tue quistion certo mi piaci, – Rispose; – ma ‘l bollor
dell’acqua rossa», il qual vedesti all’entrar di questo cerchio
settimo, «Dovea ben solver l’una che tu faci», cioè dove sia
Flegetonte. Conciosiacosaché Flegetonte sia interpretato «ardente»,
l’aver veduta quell’acqua rossa bollire come vedesti, e similmente
esser rossa, ti dovea assai manifestare quello esser Flegetonte.
«Letè», l’altro fiume del qual tu domandi, «vedrai, ma fuor di
questa fossa», dello ‘nferno: percioché in questo si scosta
l’autore dall’opinione degli altri poeti, li quali tutti scrivono
Letè essere in inferno, dove l’autore il pone essere nella sommitá
del monte di purgatorio, ben però con quella medesima intenzione
che i poeti il pongono in inferno; percioché essi il pongono
l’ultimo fiume dello ‘nferno, e dicono che, quando l’anime hanno
lungamente sofferte pene, e son divenute tali che, secondo la
giustizia piú non ne deono sofferire, esse vanno a questo fiume di
Letè, e, beúta dell’acqua di quello, dimenticano tutte le fatiche
e noie passate, e quindi passano ne’ Campi elisi, li quali dicevano
essere luoghi dilettevoli, e in quegli abitare l’anime de’ beati: e
cosí l’autore il pone nella sommitá del purgatorio, accioché
l’anime purgate e degne di salire a Dio, prima béano di
quell’acqua, accioché ogni peccato commesso, ogni noia e ogni
fatica dimentichino; accioché, essendo poi nella gloria di Dio, il
rammemorarsi di quelle cose non désse cagione di diminuzione alla
loro beatitudine. E perciò séguita Virgilio, e dice: – Tu il
vedrai, «Lá dove vanno l’anime», dei purgati, «a lavarsi, Quando
la colpa è ben tutta rimossa», – per la penitenza.
«Poi disse». Qui
comincia la ottava ed ultima parte del presente canto, nella quale,
poi che alle sue quistioni è stato satisfatto, ne mostra l’autore
come Virgilio l’ammonisce che dietro a lui vada. Dice adunque: «Poi
disse: – Omai è tempo da scostarsi», scendendo o procedendo, «Dal
bosco», del quale di sopra è stato detto: «fa’, che diretro a me
vegne. Li margini», del ruscello, «fan via, ché non son
arsi», cioè scaldati dall’arsura la qual quivi piovea, «E sopra
loro ogni vapor si spegne», – di questi che piovono, e perciò vi si
puote senza cuocere andare.
II
SENSO
ALLEGORICO
[Lez.
LV]
«Poiché la caritá
del natio loco», ecc. Poiché l’autore ne’ precedenti due canti, per
dimostrazion della ragione, ha vedute e conosciute le colpe e i
supplici per quelle dati dalla divina giustizia alle due spezie de’
violenti, cioè a coloro li quali usaron violenza verso il prossimo e
contro alle cose di quello, e a coloro li quali usarono violenza
nelle proprie persone e nelle loro medesime cose; esso, seguitando la
ragione, in questo canto ne dimostra come vedesse punire la terza
spezie dei violenti, cioè coloro li quali usaron violenza nella
deitá e nelle sue cose. E costoro dimostra esser in tre parti
divisi, sí come contro a tre cose peccarono, cioè contro a Dio, e
appresso contro alla natura, e, oltre a ciò, contro all’arte, le
quali son cose di Dio. E, comeché in tre parti divisi sieno,
nondimeno ad un medesimo tormento esser dannati gli dimostra, in
quanto tutte e tre maniere sono in una ardentissima rena, e sotto
continuo fuoco, che piove loro addosso, tormentati; ma in tanto son
differenti, che coloro, li quali nella divinitá si sforzaron di far
violenza, sono sopra la detta rena ardente a giacere supini, sopra sé
ricevendo lo ‘ncendio, il quale continuo cade loro addosso; e coloro,
li quali fecero violenza alla natura, sono in continuo movimento
sopra la detta rena, similmente sopra sé ricevendo l’arsura; e
coloro, li quali contro all’arte adoperarono, sempre sopra la detta
rena seggono, infestati dalle fiamme che piovono. E, percioché, sí
come chiaro si vede, hanno la maggior parte del tormento comune,
estimo, se separata mente di ciascuno dicessi l’allegoria, si
converrebbe una medesima cosa piú volte ripetere, il che sarebbe
tedioso e fatica superflua; e però, per fuggire questo
inconveniente, mi pare debba essere il migliore il dovere in una sola
parte di tutte e tre maniere trattare. E questo, sí com’io credo,
sará piú utile a dover dire nella fine di tutte e tre le maniere
de’ puniti, che nel principio o nel mezzo; e però nella fine del
canto diciassettesimo, nel quale di loro la dimostrazion si finisce,
come conceduto mi fia, m’ingegnerò d’aprire qual fosse intorno a ciò
la ‘ntenzion dell’autore.
Appresso questo, è da
dichiarare nel presente canto quello che l’autore intenda per la
statua la quale egli discrive, e per le rotture che in essa sono, e
per i quattro fiumi che da essa procedono; e intorno a ciò è prima
da vedere quello che l’autore abbia voluto sentire, avendo questa
statua piú tosto figurata nell’isola di Creti che in altra parte del
mondo; appresso, perché nella montagna chiamata Ida; e, oltre a ciò,
quello che esso senta per i quattro metalli e per la terracotta, de’
quali esso la forma; e similmente quello che voglia che noi
intendiamo per le fessure, le quali in ciascun degli altri metalli,
fuor che nell’oro, sono, e le lagrime che d’esse escono; e
ultimamente quello che egli per li quattro fiumi abbia voluto.
Dice adunque
primieramente questa statua essere locata nell’isola di Creti: la
qual cosa senza grandissimo sentimento non dice, percioché alla sua
intenzione è ottimamente il luogo e il nome conforme. Intendendo
adunque l’autore di volere, poeticamente fingendo, fare una
dimostrazione, la quale cosí all’indiano come allo ispagnuolo, e
all’etiopo come all’iperboreo appartiene, e dalla quale né paese, né
regno, né nazione alcuna, dove che ella sopra la terra sia, non è
chiusa; estimò esser convenevol cosa quella dover fingere in quella
parte del mondo, la quale a tutte le nazioni fosse comune, ed egli
non è nel mondo alcuna parte, che a tutte le nazioni dir si possa
comune, se non l’isola di Creti, sí come io intendo di dimostrare.
Piacque agli antichi
che tutto il mondo abitabile in questo nostro emisperio superiore
fosse in tre parti diviso, le quali nominarono Asia, Europa e
Affrica; e queste terminarono in questa guisa. E primieramente Asia
dissono essere terminata dalla parte superiore del mare Oceano,
cominciando appunto sotto il settentrione, e procedendo verso il
greco, e di quindi verso il levante, e dal levante verso lo scilocco,
infino all’Oceano etiopico posto sotto il mezzodí; e poi dissero
quella essere separata dall’Europa dal fiume chiamato Tanai, il quale
si muove sotto tramontana, e, venendone verso il mezzodí, mette nel
mar Maggiore; il qual similmente, queste due parti dividendo con
l’onde sue, e continovandosi per lo stretto di Costantinopoli, e
quindi per lo mare chiamato Propontide, e per lo stretto d’Aveo, esce
nel mare Egeo, il quale noi chiamiamo Arcipelago, e perviene infino
all’isola di Creti, la quale è in su lo stremo del detto mare; di
verso mezzodí la dividono dall’Affrica col corso del fiume chiamato
Nilo, il quale per l’Etiopia correndo, e venendo verso tramontana,
lasciata l’isola di Meroe, e venendosene in Egitto, e quello col piú
occidental suo ramo inchiudendo in Asia, mette nel mare Asiatico, il
quale perviene dalla parte del levante infino all’isola di Creti. Poi
confinano Affrica dal detto corso del Nilo per terra, e dal mare
Oceano etiopico, infino al mare Oceano atalantico, il quale è in
occidente; e di verso tramontana dicono quella essere terminata dal
mare Mediterraneo, il qual perviene in quello che ad Affrica
appartiene infino all’isola di Creti, e quella bagna dalla parte del
mezzodí, e in parte dalla parte di ver’ponente. Europa confinano
dalla parte di ver’levante dallo estremo del mare Egeo, e dallo
stretto d’Aveo, e dal mar chiamato Proponto, e dallo stretto di
Costantinopoli, e dal mar Maggiore, e dal corso del fiume Tanai;
dalla parte di tramontana dall’Oceano settentrionale, il quale,
dichinando verso l’occidente, bagna Norvea, l’Inghilterra e le parti
occidentali di Spagna, insino lá dove comincia il mare Mediterraneo;
appresso di verso mezzodí dicono lei esser terminata dal mare
Mediterraneo, il quale è continuo col mare, il quale dicemmo
Affricano; e cosí come quello che verso Affrica si distende,
chiamano Affricano, cosí questo, Europico, il quale si stende infino
all’isola di Creti, dove dicemmo terminarsi il mare Egeo. E cosí
l’isola di Creti appare essere in su ‘l confine di queste tre parti
del mondo. E, dovendo di cosa spettante a ciascuna nazione, come
predetto è, fingere alcuna cosa, senza alcun dubbio in alcuna altra
parte non si potea meglio attribuire la stanza alla essenza materiale
della fizione che in sui confini di tutte e tre le parti del mondo,
sopra i quali è posta l’isola di Creti, come dimostrato è.
il
vero che questa dimostrazione riguarda piuttosto al rimuovere quel
dubbio, che intorno alla esposizion litterale si potrebbe fare, che
ad alcun senso allegorico, che sotto la lettera nascoso sia: e
perciò, quantunque assai leggiermente veder si possa, per le cose
dette, quello che sotto la corteccia letterale è nascoso,
nondimeno, per darne alcuno piú manifesto senso, dico potersi per
l’isola di Creti, posta in mezzo il mare, intendersi l’universal
corpo di tutta la terra, la quale, come assai si può comprendere
per li termini disegnati di sopra alle tre parti del mondo, è posta
nel mezzo del mare, in quanto è tutta circundata dal mare Oceano, e
cosí verrá ad essere isola come Creti; e dagli abitanti in essa
tutto quello è addivenuto, che l’autore intende di dimostrare nella
seguente sua fizione. E questo pare assai pienamente confermare il
nome dell’isola, il quale esso appella Creta, conciosiacosaché
«Creta» nulla altra cosa suoni che la «terra»; e cosí il nome
si conforma, come davanti dissi, all’intenzion dell’autore, in
quanto in Creti, cioè nella terra, prenda inizio quello che esso
appresso dimostra, cioè negli uomini, i quali nulla altra cosa,
quanto al corpo, siamo che terra.
Ma, per lasciare
qualche cosa a riguardare all’altezza degl’ingegni che appresso
verranno, senza piú dir del luogo nel quale l’autore disegna la sua
fizione, passeremo a quello che appresso segue, lá dove dice che in
una montagna chiamata Ida sta diritta la statua d’un gran veglio. Per
la quale, secondo il mio giudicio, l’autore vuol sentire la
moltitudine della umana generazione, quella figurando ad un monte, il
quale è moltitudine di terra accumulata, o dalla natura delle cose o
dall’artificio degli uomini, e chiamasi questo monte Ida, cioè
formoso, in quanto, per rispetto dell’altre creature mortali, l’umana
generazione è cosa bellissima e formosa; dentro alla quale l’autore
dice esser diritto un gran veglio, percioché dentro all’esistenza,
lungamente perseverata dell’umana generazione, si sono in vari tempi
concreate le cose, le quali l’autor sente per la statua da lui
discritta, la quale per ciò dice stare eretta, perché ancora que’
medesimi effetti, che, giá son piú migliaia d’anni, cominciarono,
perseverano. E, fatta la dimostrazione del luogo universale, e ancora
del particulare, discrive l’effetto formale della sua intenzione, il
qual finge in una statua simile quasi ad una, la quale Daniel profeta
dimostra essere stata veduta in sogno da Nabucdonosor re. Ma non ha
nella sua l’autor quella intenzione, la qual Daniello dimostra essere
in quella, la quale dice essere stata veduta da
Nabucdonosor; percioché, dove in quella Daniel dimostra a
Nabucdonosor significarsi il suo regno e alcune sue successioni, in
questa l’autore intende alcuni effetti seguíti in certe varietá di
tempi, cominciate dal principio del mondo infino al presente tempo.
Dice adunque
primieramente questa statua, la qual discrive, essere d’un uomo
grande e vecchio, volendo per questi due adiettivi dimostrare, per
l’uno la grandezza del tempo passato dalla creazion del mondo infino
ai nostri tempi, la quale è di seimila cinquecento anni, e per
l’altro la debolezza e il fine propinquo di questo tempo; percioché
gli uomini vecchi il piú hanno perdute le forze, per lo sangue il
quale è in loro diminuito e raffreddato; e, oltre a ciò, al
processo della lor vita non hanno alcuno altro termine che la morte,
la quale è fine di tutte le cose. Appresso dice che tiene vòlte le
spalle verso Damiata, la quale sta a Creti per lo levante; volendo
per questo mostrare il natural processo e corso delle cose mondane,
le quali, come create sono, incontanente volgono le spalle al
principio loro, e cominciano ad andare e a riguardare verso il fine
loro; e per questo riguarda verso Roma, la quale sta a Creti per
occidente. E dice la guata come suo specchio: sogliono le piú delle
volte le persone specchiarsi per compiacere a se medesime della forma
loro; e cosí costui, cioè questo corso del tempo, guarda in Roma,
cioè nelle opere de’ romani, per compiacere a se medesimo di quelle
le quali in esso furon fatte, sí come quelle che, tra l’altre cose
periture fatte in qualunque parte del mondo, furono di piú
eccellenzia e piú commendabili e di maggior fama; e, oltre a ciò,
si può dir vi riguardi per dimostrarne che, poiché le gran cose di
Roma e il suo potente imperio è andato e va continuo in diminuzione,
cosí ogni cosa dagli uomini nel tempo fatta, similmente nel tempo
perire e venir meno.
Susseguentemente dice
questa statua esser di quattro metalli e di terracotta, primieramente
dimostrando questa statua avere la testa di fino oro; volendo che,
come la testa è nel corpo umano il principal membro, cosí per essa
noi intendiamo il principio del tempo e quale esso fosse. E noi
intendiamo per lo Genesi
che nella prima creazione del mondo, nella quale il tempo, che ancora
non era, fu creato da Dio, fu similmente creato Adamo, per lo quale e
per li suoi discendenti doveva essere il tempo usato: e, percioché
Adamo nel principio della sua creazione ottimamente alcuno spazio di
tempo adoperò, e questo fu tanto, quanto egli stette infra’ termini
comandatigli da Dio; vuole l’autore esser la testa, cioè il
cominciamento del tempo, d’oro, cioè carissimo e bello e puro, sí
come l’oro è piú prezioso che alcuno metallo; e cosí intenderemo,
per questa testa d’oro, il primo stato dell’umana generazione, il
quale fu puro e innocente, e per conseguente carissimo.
Dice appresso che puro
argento sono le braccia e ‘l petto di questa statua, volendo per
questo disegnare che, quanto l’ariento è piú lucido metallo che
l’oro, in quanto egli è bianchissimo (e il bianco è quel colore che
piú ha di chiarezza); cosí, dopo la innocenza de’ primi parenti,
l’umana generazione essere divenuta piú apparente e piú chiara che
prima non era, intanto che, mentre i primi parenti servarono il
comandamento di Dio, essi furon soli e senza alcuna successione; ma,
dopo il comandamento passato, cacciati del paradiso, e venuti nella
terra abitabile, generaron figliuoli e successori assai, per la qual
cosa in processo di tempo apparve nella sua moltitudine la chiarezza
della generazione umana, la quale, quantunque piú bellezza mostrasse
di sé, non fu però cara né da pregiare quanto lo stato primo,
figurato per l’oro. E per questo la figura di metallo molto men
prezioso che l’oro.
Oltre a ciò, dice
questa statua esser di rame infino alla ‘nforcatura, volendone per
questo dimostrare, in processo di tempo, dopo la chiarezza della
moltitudine ampliata sopra la terra, essere avvenuto che gli uomini,
dalla ammirazion de’ corpi superiori, e ancora dagli ordinati effetti
della natura nelle cose inferiori, cominciarono a speculare, e dalla
speculazione a formare le scienze, l’arti liberali e ancora le
meccaniche, per le quali, sí come il rame è piú sonoro metallo che
alcuno de’ predetti, divennero gli uomini fra se medesimi piú famosi
e di maggior rinomèa che quegli davanti stati non erano. Ma,
percioché, come per lo cognoscimento delle cose naturali e
dell’altre gli uomini divennero piú acuti e piú ammaestrati e piú
famosi, cosí ancora piú malvagi, adoperando le discipline acquistate
piú tosto in cose viziose che in laudevoli; è questa qualitá di
tempo discritta esser di rame, il quale è metallo molto piú vile
che alcun de’ sopradetti.
Appresso dice che
questa statua dalla ‘nforcatura in giú è tutta di ferro eletto,
volendo per questo s’intenda esser, successivamente alle predette,
venuta una qualitá di tempo, nella quale quasi universalmente tutta
l’umana generazione si diede all’arme e alle guerre, con la forza di
quelle occupando violentamente l’uno la possessione dell’altro. E di
questi, secondo che noi abbiam per l’antiche istorie, il primo fu
Nino, re degli assiri, il quale tutta Asia si sottomise, e quinci
discesero l’arme a’ medi e a’ persi, e da questi a’ greci e a’
macedoni e a’ cartaginesi e a’ romani, li quali con quelle
l’universale imperio del mondo si sottomisero. E similmente,
essendosi questa pestilenza appiccata a’ re e a’ popoli e alle
persone singulari, quantunque alcuno principal dominio oggi non sia,
persevera nondimeno nelle predette particulari la rabbia bellica,
intanto che regione alcuna sopra la terra non si sa, che da guerra e
da tribulazione infestata non sia. E, percioché gl’istrumenti della
guerra il piú sono di ferro, figura l’autore questa qualitá di
tempo esser di ferro: volendo, oltre a ciò, sentire che, sí come il
ferro è metallo che ogni altro rode, cosí la guerra essere cosa la
quale ogni mondana sustanza rode e diminuisce.
Ultimamente dice il piè
destro di questa statua esser di terracotta, volendone primieramente
per questo mostrare esser tempo venuto, la cui qualitá è, oltre ad
ogni altra di sopra discritta, vile, e tanto piú quanto i metalli
predetti sono d’alcun prezzo, e la terracotta è vilissima; e, oltre
a questo, che, essendo ne’ metalli detti alcuna fermezza, alcuna
natural forza, e la terracotta sia fragile, e con poca difficultá si
rompa e schianti e spezzi: cosí le cose di questo ultimo tempo sian
fragili, non solo naturalmente, ma ancora per la fede venuta meno, la
quale soleva esser vincolo e legame, che teneva unite e serrate
insieme le compagnie degli uomini. E, a dimostrarne le cose temporali
esser propinque al fine suo, primieramente ne dice il piè esser di
questa vil materia; il quale è l’ultimo membro del corpo, percioché,
oltre a quello, alcuno inferiore non abbiamo; e, come esso è quello
sopra il quale tutto il nostro corpo si ferma, cosí sopra questa vil
materia tutto il lungo corso del tempo si termina; e perciò dice che
il piè di questa statua, il quale è di terracotta, è il destro, e
che questa statua sopra quello, piú che sopra l’altro, sta eretta,
cioè fermata. Vuole adunque questo piede essere il destro, a
dimostrarne che ogni cosa naturalmente si ferma sopra quella cosa,
sopra la qual crede piú perseverare in essere; e perciò questa
statua si ferma piú in sul destro piè, percioché nel destro piè,
e in ciascuno altro membro destro, è piú di forza che ne’ membri
sinistri, come di sopra è dimostrato. Ma questa fermezza non può
molto durare, percioché, quantunque la terracotta sostenga alcun
tempo alcuna gravezza, nondimeno, perseverando pure il peso, ella
scoppia e dividesi e rompesi, e cosí cade e spezzasi ciò che sopra
v’era fermato: e cosí ne dimostra il corso del tempo. fermato sopra
cosí fragile materia, non dovere omai lungamente perseverare, ma,
vegnendo il dí novissimo, appresso il quale Domeneddio dee, secondo
che nell’Apocalissi
si legge, fare il ciel nuovo e la terra nuova, né piú si
produceranno uomini né altri animali, verrá la fine di questo
tempo. Il qual tempo percioché è stato comune ad ogni nazione, l’ha
voluto in questa statua l’autore dimostrare in luogo ad ogni nazion
comune, come davanti è dimostrato.
Poi, deducendosi
l’autore alla intenzion sua finale, dice che ogni parte di questa
statua, fuori che quella la quale è d’oro, è rotta d’una fessura,
della quale gocciano lagrime, intendendo per questo mostrarne perché
tutto questo, che poetando ha discritto, abbia detto, cioè per farne
chiari da qual cagione nata sia l’abbondanza delle miserie infernali.
La qual cagione accioché non si creda pur ne’ presenti secoli avere
avuto origine, dice che incominciò infino a quella qualitá di
tempo, la quale appresso della testa dell’oro di questa statua è
disegnata, cioè dopo l’esser cacciati i primi parenti di paradiso;
volendo per questa rottura intendersi la rottura della integritá
della innocenza o della virtuosa e santa vita, le quali, col malvagio
adoperare e col trapassare i comandamenti di Dio, son rotte e
viziate: e da queste eccettua l’autore la parte dell’oro, mostrando
in quella non essere alcuna rottura, percioché fu tutta santa e
obbediente al comandamento divino. E cosí dobbiam comprendere che le
malvagie operazioni e inique degli uomini, di qualunque paese o
regione, sono state cagione e sono delle lagrime, le quali caggiono
delle dette rotture, cioè de’ dolori e delle afflizioni, le quali
per le commesse colpe dalla divina giustizia ricevono i dannati in
inferno; mostrandone appresso queste cotali lagrime, cioè mortali
colpe, dal presente mondo discendere nella misera valle dello
‘nferno, con coloro insieme li quali commesse l’hanno; e in inferno,
cioè nella dannazion perpetua, fare quattro fiumi, cioè quattro
cose, per le quali si comprende l’universale stato de’ dannati. E
nomina questi quattro fiumi, il primo Acheronte, il secondo Stige, il
terzo Flegetonte, il quarto e ultimo Cocíto: volendo per Acheronte
intendere la prima cosa, la quale avviene a’ dannati.
Acheronte,
come di sopra alcuna volta è stato detto, interpetrato «senza
allegrezza»: per la quale interpetrazione, assai chiaro si conosce
colui, il quale per lo suo peccato discende in perdizione, avanti ad
ogni altra cosa perdere l’allegrezza dell’eterna beatitudine, la
quale gli era apparecchiata, se voluto avesse seguire i comandamenti
di Dio. Appresso intende l’autore per Istige, il quale è
interpetrato «tristizia», quello che il misero peccatore, avendo
per le sue iniquitá perduta l’allegrezza di vita eterna, abbia
acquistato, che è tristizia perpetua; percioché, come l’uom si
vede perdere, dove estimava o dove gli bisognava di guadagnare,
incontanente s’attrista. Ma, percioché la tristizia non è termine
finale della miseria del dannato, séguita il terzo fiume chiamato
Flegetonte, il quale è interpetrato «ardente»; volendo per questo
ardore darne l’autore ad intendere che, poi che il peccatore è
divenuto nella tristizia della sua perdizione, incontanente diviene
nell’ardore della gravitá de’ supplíci, li quali con tanta
angoscia il cuocono e cruciano e faticano, che esso incontanente
diviene nel quarto fiume, cioè nel Cocíto. Il quale è
interpetrato «pianto», percioché, trafiggendo l’ardore delle pene
eternali alcuno, esso incontanente comincia a piangersi e a dolersi
e a rammaricarsi: e questo pianto non è a tempo, anzi, sí come lo
stagno mai non si muove, cosí questo pianto infernale mai non si
muove, sí come quello che dee in perpetuo perseverare. E cosí, dal
cominciamento del mondo insino a questo dí, dalle malvagie
operazion degli uomini si cominciarono questi quattro miseri
accidenti, li quali in forma di quattro fiumi discrive, per li quali
l’abbondanza delle miserie delle pene infernali e de’ ricevitori di
quelle sono non solamente perseverate, ma aumentate, e continuamente
s’aumentano, e stanno e staranno infino a tanto che la presente vita
persevererá.