CANTO
OTTAVO
I
SENSO
LETTERALE
[Lez.
XXXIII]
«Io dico, seguitando,
ch’assai prima», ecc. Continuasi l’autore in questo canto alle cose
precedenti in questa forma che, avendo nella fine del precedente
canto mostrato come, alquanto aggirata della padule di Stige,
pervenissero a piè d’una torre; nel principio di questo dimostra
quello che, avanti al piè della torre pervenissero, vedessero,
discrivendo poi quello che di ciò che videro seguisse: e intende
l’autore dimostrare in questo come, trasportati da Flegias dimonio
per nave, pervenissero alla porta della cittá di Dite. E dividesi il
presente canto in quattro parti: nella prima dimostra l’autore come,
vedute certe fiamme sopra due torri, distanti l’una all’altra, un
demonio chiamato Flegias venisse in una barchetta, e come in quella
Virgilio ed esso discendessero; nella seconda discrive l’autore ciò
che, navicando per la palude, udisse e vedesse d’uno spirito chiamato
Filippo Argenti; nella terza mostra come, giunti nel fosso della
cittá di Dite, e quindi alla porta di quella pervenissero; nella
quarta pone la raccolta fatta loro da’ demòni, che sopra la porta o
all’entrata della porta erano, e come, avendo Virgilio parlato con
loro, gli fosse da loro chiusa la porta nel petto, e turbato a lui se
ne tornasse, e quel che dicesse. La seconda comincia quivi: «Mentre
noi correvam»; la terza quivi: «Quivi il lasciammo»; la quarta
quivi: «Non senza prima far».
Dice adunque nella
prima: [«Io dico, seguitando». Nelle quali parole si può alcuna
ammirazion prendere in quanto, senza dirlo, puote ogni uom
comprendere esso aver potuto seguire la materia incominciata; e sí
ancora che, per insino a qui, non ha alcun’altra volta usato questo
modo di continuarsi alle cose predette. E perciò, accioché questa
ammirazion si tolga via, è da sapere che Dante ebbe una sua sorella,
la quale fu maritata ad un nostro cittadino chiamato Leon Poggi, il
quale di lei ebbe piú figliuoli, tra’ quali ne fu uno di piú tempo
che alcun degli altri, chiamato Andrea, il quale maravigliosamente
nelle lineature del viso somigliò Dante, e ancora nella statura
della persona, e cosí andava un poco gobbo, come Dante si dice che
facea, e fu uomo idioto, ma d’assai buon sentimento naturale e ne’
suoi ragionamenti e costumi ordinato e laudevole; del quale, essendo
io suo dimestico divenuto, io udi’ piú volte de’ costumi e de’ modi
di Dante, ma, tra l’altre cose che piú mi piacque di riservare nella
memoria, fu ciò che esso ragionava intorno a quello di che noi siamo
al presente in parole.]
[Diceva adunque che,
essendo Dante della setta di messer Vieri de’ Cerchi, e in quella
quasi uno de’ maggiori caporali, avvenne che, partendosi messer Vieri
di Firenze con molti degli altri suoi seguaci, esso medesimo si partí
e andossene a Verona. Appresso la qual partita, per sollecitudine
della setta contraria, messer Vieri e ciascun altro che partito
s’era, e massimamente de’ principali della setta, furono condennati,
sí come ribelli, nell’avere e nella persona, e tra questi fu Dante:
per la qual cosa seguí che alle case di tutti fu corso a romor di
popolo, e fu rubato ciò che dentro vi si trovò. È vero che,
temendosi questo, la donna di Dante, la qual fu chiamata madonna
Gemma, per consiglio d’alcuni amici e parenti, aveva fatti trarre
dalla casa alcuni forzieri con certe cose piú care, e con iscritture
di Dante, e fattigli porre in salvo luogo. E, oltre a questo, non
essendo bastato l’aver le case rubate, similmente i parziali piú
possenti occuparono chi una possesione chi un’altra di questi
condennati: e cosí furono occupate quelle di Dante. Ma poi, passati
ben cinque anni o piú, essendo la cittá venuta a piú convenevole
reggimento che quello non era quando Dante fu condennato, dice le
persone cominciarono a domandar loro ragioni, chi con un titolo chi
con un altro, sopra i beni stati de’ ribelli, ed erano uditi: per che
fu consigliata la donna che ella, almeno con le ragioni della dote
sua, dovesse de’ beni di Dante raddomandare. Alla qual cosa
disponendosi ella, le furon di bisogno certi stromenti e scritture,
le quali erano in alcuno de’ forzieri, li quali ella in su la furia
del mutamento delle cose aveva fatti fuggire, né poi mai gli aveva
fatti rimuovere del luogo dove diposti gli aveva. Per la qual cosa
diceva questo Andrea che essa aveva fatto chiamar lui, sí come
nepote di Dante, e, fidategli le chiavi de’ forzieri, l’aveva mandato
con un procuratore a dover recare delle scritture opportune. Delle
quali mentre il procuratore cercava, dice che, avendovi altre piú
scritture di Dante, tra esse trovò piú sonetti e canzoni e simili
cose; ma, tra l’altre che piú gli piacquero, dice fu un quadernetto,
nel quale di mano di Dante erano scritti i precedenti sette canti; e
però presolo e recatosenelo, e una volta ed altra rilettolo,
quantunque poco ne ‘ntendesse, pur diceva gli parevan bellissima
cosa. E però diliberò di dovergli portare, per saper quel che
fossero, ad un valente uomo della nostra cittá, il quale in que’
tempi era famosissimo dicitore in rima, il cui nome fu Dino di messer
Lambertuccio Frescobaldi; il qual Dino, essendogli maravigliosamente
piaciuti, e avendone a piú suoi amici fatta copia, conoscendo
l’opera piú tosto iniziata che compiuta, pensò che fossero da dover
rimandare a Dante, e di pregarlo che, seguitando il suo proponimento,
vi desse fine. E, avendo investigato e trovato che Dante era in quei
tempi in Lunigiana con un nobile uomo de’ Malispini, chiamato il
marchese Morruello, il quale era uomo intendente e in singularitá
suo amico, pensò di non mandargli a Dante, ma al marchese, che
gliele mostrasse, e cosí fece; pregandolo che, in quanto potesse,
désse opera che Dante continuasse la ‘mpresa, e, se potesse, la
finisse.]
[Pervenuti adunque i
sette canti predetti alle mani del marchese, ed essendogli
maravigliosamente piaciuti, gli mostrò a Dante; e, avendo avuto da
lui che sua opera erano, il pregò gli piacesse di continuare la
‘mpresa. Al qual dicono che Dante rispuose: – Io estimava veramente
che questi, con altre mie cose e scritture assai, fossero, nel tempo
che rubata mi fu la casa, perduti, e però del tutto n’avea l’animo e
‘l pensiero levato: ma, poiché a Dio è piaciuto che perduti non
sien, ed hammegli rimandati innanzi, io adopererò ciò che io potrò
di seguitare la bisogna, secondo la mia disposizion prima. – E quinci
rientrato nel pensiero antico, e reassumendo la intralasciata opera,
disse in questo principio del canto ottavo: «Io dico, seguitando»
alle cose lungamente intralasciate.]
[Ora questa istoria
medesima puntualmente, quasi senza alcuna cosa mutarne, mi raccontò
giá un ser Dino Perini, nostro cittadino e intendente uomo, e,
secondo che esso diceva, stato quanto piú esser si potesse familiare
e amico di Dante; ma in tanto muta il fatto, che esso diceva non
Andrea Leoni, ma esso medesimo essere stato colui, il quale la donna
avea mandato a’ forzieri per le scritture, e che avea trovati questi
sette canti, e portatigli a Dino di messer Lambertuccio. Non so a
quale io mi debba piú fede prestare; ma qual che di questi due si
dica il vero o no, m’occorre nelle parole loro un dubbio, il quale io
non posso in maniera alcuna solvere che mi soddisfaccia. E il dubbio
è questo. Introduce nel sesto canto l’autore Ciacco, e fagli predire
come, avanti che il terzo anno, dal dí che egli dice, finisca,
convien che caggia dello stato suo la setta, della quale era Dante.
Il che cosí avvenne,
percioché, come eletto è, il perdere lo stato la setta Bianca e il
partirsi di Firenze fu tutto uno: e però, se l’autore si partí
all’ora premostrata, come poteva egli avere scritto questo? e non
solamente questo, ma un canto piú? Certa cosa è che Dante non avea
spirito profetico, per lo quale egli potesse prevedere e scrivere, e
a me pare esser molto certo che egli scrisse ciò che Ciacco dice poi
che fu avvenuto; e però mal si confanno le parole di costoro con
quello che mostra essere stato. Se forse alcun volesse dire l’autore,
dopo la partita de’ Bianchi, esser potuto occultamente rimanere in
Firenze, e poi avere scritto anzi la sua partita il sesto e il
settimo canto, non si confá bene con la risposta fatta dall’autore
al marchese, nella qual dice sé avere creduto questi canti con
l’altre sue cose essere stati perduti, quando rubata gli fu la casa.
E il dire l’autore aver potuto aggiungere al sesto canto, poi che gli
riebbe, le parole le quali fa dire a Ciacco, non si può sostenere,
se quello è vero che per i due superiori si racconta, che Dino di
messer Lambertuccio n’avesse data copia a piú suoi amici; percioché
pur n’apparirebbe alcuna delle copie senza quelle parole, o pur per
alcuno antico, o in fatti o in parole, alcuna memoria ne sarebbe.
Ora, come che questa cosa si sia avvenuta o potuta avvenire lascerò
nel giudicio de’ lettori; ciascun ne creda quello che piú vero o piú
verisimile gli pare.]
[Tornando adunque al
testo, dice:] «Io dico, seguitando» alle cose predette, «ch’assai
prima Che noi», cioè Virgilio ed io, «fossimo al piè de l’alta
torre», alla quale nella fine del precedente canto scrive che
pervennero, «Gli occhi nostri n’andâr», riguardando, «suso alla
cima», cioè alla sommitá della torre predetta. E appresso dimostra
la cagione perché gli occhi verso la cima levarono, dicendo: «Per
due fiammette», cioè piccole fiamme, «che vedemmo porre», in su
quella sommitá della torre, «E un’altra», fiamma, «di lungi» da
questa torre, «render cenno», sí come far si suole per le contrade
nelle quali è guerra, che, avvenendo di notte alcuna novitá, il
castello o il luogo, vicino al quale la novitá avviene, incontanente
per un fuoco o per due, secondo che insieme posti si sono, il fa
manifesto a tutte le terre e ville del paese. E dice che questo cenno
d’una fiamma fu renduto di lontano, «Tanto, ch’appena il potea
l’occhio tôrre», cioè discernere [altro]. Ma pure, poi che tolto
l’ebbe, dice:
«Ed io mi volsi al
mar», cioè all’abbondanza, «di tutto il senno», cioè a Virgilio
(del quale nel principio del canto precedente dice: «E quel savio
gentil, che tutto seppe»); e séguita: «Dissi: – Questo che dice?»,
cioè che significa il fuoco, il quale è qui sopra di noi fatto in
questa torre? «e che risponde Quell’altro fuoco?», il quale io
veggio fare sopra la torre, la quale n’è lontana; «e chi son que’
che ‘l fenno»? – questo ch’è sopra noi, e quello ancora che n’è
piú rimoto.
«Ed egli a me: – Su
per le sucide onde», di Stige, le quali chiama «sucide», perché
nere e brutte erano, «Giá puoi scorger», cioè di lontan vedere,
«quello che s’aspetta» di dovere avvenire per questo fuoco e per
quello, «Se ‘l fummo», cioè la nebbia, «del pantan nol ti
nasconde», – percioché la nebbia, dove non si diradi, ha a tôr la
vista delle cose, alle quali ella è davanti e mèzza tra esse e
l’occhio del riguardante.
E, questo avendo
Virgilio risposto, séguita l’autore, e dimostra quello che seguí
de’ fuochi sopra le due torri veduti, dicendo: «Corda», d’alcuno
arco, «non pinse mai da sé saetta, Che si corresse», cioè
volasse, «via per l’aere snella», cioè leggiere, «Com’io vidi una
nave piccioletta Venir per l’acqua», della padule, «verso noi in
quella» che Virgilio diceva: – «Giá puoi scorgere», ecc. – «Sotto
il governo d’un sol galeoto». «Galeotti» son chiamati que’
marinari li quali servono alle galee; ma qui, licentia
poëtica,
nomina «galeotto» il governatore d’una piccola barchetta; e dice
«che», questo galeotto, «gridava: – Or se’ giunta, anima, fella!»,
– cioè malvagia.
E, come assai appare,
l’autore in questo quinto cerchio non ha ancor mostrato essere alcun
demonio, il quale preposto sia al tormento de’ dannati in esso, né
che con alcun atto lo spaventi, come suol fare ne’ cerchi di sopra; e
perciò il pone in questo luogo. E questo è artificiosamente fatto,
percioché non sempre d’una medesima cosa si dee in un medesimo modo
parlare. Ponlo adunque, per variare alquanto il modo del dimostrare,
qui infra ‘l cerchio, percioché tutto è del quinto cerchio ciò che
si contiene infino all’entrata della cittá di Dite. E in quanto le
parole di questo galeotto sono in numero
singulare, par che sieno dirizzate dal dimonio pure all’un di lor
due, cioè a Virgilio, il quale era anima e non uomo; e però si può
comprendere questo demonio avere da occulta virtú sentito l’autore
non venir come dannato, e però lui non avere in esso alcuna potestá;
ma esso gridar contro a Virgilio, accioché l’autore spaventasse, e,
spaventandolo, il rimovesse dal suo buon proponimento, cioè dal
voler conoscere le colpe de’ peccatori e i tormenti dati a quelle,
accioché per lo conoscer delle colpe apparasse quello che era da
fuggire, e per la pena prendesse timore e quindi compunzione, se per
avventura in quella colpa caduto fosse.
Al qual dimonio cosí
gridante disse Virgilio: – «Flegias, Flegias»; era questo il propio
nome del dimonio che la nave menava, il qual Virgilio quasi
dirisivamente due volte nomina; seguitando: «tu gridi a vòto»,
cioè per niente, – «Disse lo mio signore». E poi soggiugne la
cagione per la quale Flegias grida a voto, dicendo: – «A questa
volta», che qui se’ venuto, «Piú non ci avrai», che tu ci avessi,
«se non passando il loto», – cioè il padule pieno di loto.
E, questo detto,
dimostra quello che a Flegias paresse, queste parole udendo e
credendole, e dice: «Quale è colui che grande inganno ascolta, Che
gli sia fatto», che prima si turba, «e poi se ne rammarca», con
gli amici e con altrui; «Tal si fe’ Flegias nell’ira accolta»,
parendogli essere ingannato in ciò che alcun di lor due non dovesse
rimanere, e che esso invano passasse il loto: che forse mai piú
avvenuto non gli era.
[E, avanti che piú si
proceda, è da sapere che, secondo che scrive Lattanzio in
libro
Divinarum
institutionum,
questo Flegias fu figliuolo di Marte, uomo malvagio e arrogante e
fastidioso
contro agl’iddii. Ebbe questo Flegias, secondo che Servio dice, due
figliuoli, Issione e una ninfa chiamata Coronide, la quale, essendo
bellissima, piacque ad Apolline, iddio della medicina; di che seguí
che Apolline giacque con lei e ingravidolla, ed essa poi partorí un
figliuolo, il quale fu chiamato Esculapio. La qual cosa sentendo
Flegias, e adiratosi forte, senza prendere altro consiglio,
impetuosamente corse in Delfos, e quivi mise fuoco nel tempio
d’Apolline, il quale a que’ tempi dall’error de’ gentili era in somma
reverenzia e divozione quasi di tutto il mondo; percioché quivi ogni
uomo per risponsi delle bisogne sue concorreva. E fu questo tempio
arso da Flegias, secondo che scrive Eusebio in
libro Temporum,
l’anno 23 di Danao, re degli argivi, il quale fu l’anno della
creazion del mondo 3752. E, oltre a questo, scrivono alcuni che esso
uccise la figliuola, la quale, percioché vicina era al tempo del
parto, fu da alcuni aperta, e trattale la creatura, giá perfetta,
del ventre, e allevata. E questi che cosí eran tratti de’ ventri
delle madri erano consegrati ad Apolline, in quanto per beneficio
della sua deitá, cioè dell’arte della medicina, erano in vita
tratti. Scrivono, oltre a ciò, i poeti che Apolline, essendo turbato
di ciò che Flegias avea arso il tempio suo, il fulminò e mandonne
l’anima sua in inferno, e condannolla a questa pena: che egli stesse
sempre sotto un grandissimo sasso, il qual parea che ogni ora gli
dovesse cadere addosso; di che egli sempre stava in paura. E di lui
scrive Virgilio nel sesto dell’Eneida:
Phlegyasque
miserrimus omnes
admonet,
et magna testatur voce per umbras:
discite
iustitiam moniti, et non contemnere divos,
ecc.]
«Lo duca mio». Poi
che l’autore ha dimostrato Flegias essersi turbato del non dovere
acquistar piú che sol passando il loto, ed egli scrive come con
Virgilio scendesse nella nave di Flegias: per che comprender si può
che altra via non v’era da poter piú avanti procedere, senza valicar
per nave il padule. E dice: «discese nella barca, E poi mi fece
entrare», nella barca, «appresso lui; E sol quando fu’ dentro parve
carca»: in che assai ben si comprende che lo spirito non d’alcun peso, ma che
il corpo è quello che è grave. È questa parte presa da Virgilio,
dove dice, nel sesto dell’Eneida,
come Enea trapassò per nave Acheronte, dicendo cosí:
simul
accipit alveo
ingentem Aeneam.
Gemuit sub pondere cymba
subtilis,
et multam accepit rimosa paludem, ecc.
Poi segue l’autore:
«Tosto che ‘l duca ed io nel legno fui», cioè nella barca; e usa
qui l’autore il general nome delle navi per lo speziale, percioché
generalmente ogni vasello da navicare è chiamato «legno»,
quantunque non s’usi se non nelle gran navi. «Segando se ne va»:
dice «segando», in quanto, come la sega divide il legname in due
parti, cosí la nave, andando per l’acqua sospinta da’ remi o dal
vento, pare che seghi, cioè divida, l’acqua. «L’antica prora»:
«antica» la chiama, percioché per molti secoli ha fatto quello
uficio; «prora» la chiama, ponendo la parte per lo tutto, percioché
ogni nave ha tre parti principali, delle quali l’una si chiama
«prora», quantunque per volgare sia chiamata «proda» da’
navicanti; e questa è stretta e aguta, percioché è quella parte
che va davanti e che ha a fender l’acqua: l’altra parte si chiama
«poppa», e questa è quella parte che viene di dietro, e sopra la
quale sta il nocchier della nave al governo de’ timoni, li quali in
quella parte, l’uno dal lato destro e l’altro dal sinistro son posti;
per li quali, secondo che mossi sono, la nave va verso quella parte
dove il nocchier vuole: la terza parte si chiama «carena», e questa
è il fondo della nave, il quale consiste tra la poppa e la proda.
Séguita che questa antica prora, per lo disusato carico, sega
«Dell’acqua» del padule, «piú che non suol con altrui», cioè
con gli spiriti, li quali in essa sogliono esser portati da Flegias.
«Mentre noi correvam».
Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l’autor fa
quattro cose: primieramente dimostra come un pien di fango fuori
dell’acqua del padule gli si dimostra; appresso scrive come Virgilio
gli facesse festa per lo avere egli avuto in dispregio il fangoso che
gli si dimostrò; oltre a ciò, pone come quel fangoso fosse lacerato
dall’altre anime de’ dannati che quivi erano; ultimamente discrive
come nei fossi venissono della cittá di Dite. La seconda cosa
comincia quivi: «Lo collo poi»; la terza quivi: «Ed io: –
Maestro»; la quarta quivi: «Lo buon maestro».
Dice adunque nella
prima parte: «Mentre noi correvam», cioè velocemente navicavamo,
«la morta gora». «Gora» è una parte d’acqua tratta per forza del
vero corso d’alcun fiume, e menata ad alcuno mulino o altro servigio,
il qual fornito, si ritorna nel fiume onde era stata tratta: per lo
qual nome l’autore nomina qui, licentia
poëtica,
il padule per lo quale navicava; e, per dar piú certo intendimento
che di quello dica, cognomina questa gora «morta», cioè non
moventesi con alcuno corso, sí come i paduli fanno. «Dinanzi mi si
fece», uscendo dall’acqua del padule, «un pien di fango», un’anima
d’un peccatore, «E disse: – Chi se’ tu, che vieni anzi ora?», –
cioè anzi che tu sia morto.
«Ed io a lui»
risposi: – «S’io vengo, non rimango», percioché io non son
dannato, e uscirò di qui per altra via; «Ma tu», che domandi, «chi
se’, che sí se’ fatto brutto?» – dal fango il quale hai addosso.
«Rispose»,
quell’anima: – «Vedi che son un che piango». – Risposta veramente
d’uomo stizzoso e iracundo, del quale è costume mai non rispondere
se non per rintronico.
«Ed io a lui: – Con
piangere e con lutto». Pongono i gramatici essere diversi
significati a diversi vocaboli li quali significan pianto: dicon
primieramente che «flere»,
il quale per volgare noi diciam «piagnere», fa l’uomo quando piagne
versando abbondantissimamente lagrime; «plorare»,
il quale similmente per volgare viene a dir «piagnere», è piagnere
con mandar fuori alcuna boce; «lugere»,
il quale similmente per volgare viene a dir «piagnere», è quello
che con miserabili parole e detti si fa. E dicono etimologizzando:
«lugere,
quasi luce egere»,
cioè aver bisogno di luce. E questo pare che sia quella spezie di
piagnere la quale facciamo essendo morto alcuno amico, percioché,
chiuse le finestre della casa, dove è il corpo morto, quasi
all’oscuro piagnamo; ma meglio credo sia detto quegli, che per cotale
cagion piangono, avviluppati per lo dolore nella oscuritá della
ignoranza, avere bisogno in lor consolazione della luce della veritá,
per la qual noi cognosciamo noi nati tutti per morire;
e però, quando questo avviene che alcuno ne muoia, non essere
altramenti da piagnere che noi facciamo per gli altri effetti
naturali. E da questo «lugere»
viene «lutto», il vocabolo che qui usa l’autore. «Eiulare»,
che per volgare viene a dir «piagnere», e, secondo piace a’
gramatici, «piagnere con alte boci»: e dicesi ab
«hei», quod est interiectio dolentis;
«gemere»,
ancora in volgare viene a dir «piagnere», e quel pianto che si fa
singhiozzando; «ululare»
in volgare vuol dir «piagnere»: e vogliono alcuni questa spezie di
piagnere esser quella che fanno le femmine quando gridando piangono.
E però. dicendo l’autore a questa anima che con piagnere e con lutto
si rimanga, non fa alcuna inculcazione di parole, come alcuni
stimano, apparendo che le spezie del pianto e di lutto sieno intra sé
diverse.
Segue adunque: «Spirito
maladetto, ti rimani», in questo tormento, «Ch’io ti conosco, ancor
sii lordo tutto». – Questo gli dice l’autore, percioché esso, da
lui domandato chi el fosse, non l’avea voluto dire.
«Allora tese al
legno», quella anima, «ambo le mani»; e questo si dee credere
quella anima aver fatto sí come iracundo, il quale per vaghezza di
vendetta avrebbe voluto offendere e noiare, se potuto avesse,
l’autore, percioché ingiurioso si reputava l’autore aver detto di
conoscerlo, quantunque egli fosse tutto fangoso. «Per che ‘l maestro
accorto», della intenzione di quest’anima adirata, «lo sospinse»,
cioè il rimosse della barca, «Dicendo: – Via costá con gli altri
cani!», – de’ quali, adirati e commossi, è usanza di stracciarsi le
pelli co’ denti, come quivi dice si stracciavano gl’iracundi.
[Lez.
XXXIV]
«Lo collo poi». Qui
comincia la seconda particella della seconda parte principale, nella
quale Virgilio fa festa all’autore, percioché ha avuto in dispregio
lo spirito fangoso. [E mostra in questa particella l’autore una
spezie d’ira, la quale non solamente non è peccato ad averla, ma è
meritorio a saperla usare: la quale vertú, cioè sapere usare questa
spezie d’ira, Aristotile nel quarto dell’Etica
chiama «mansuetudine», e quegli cotali, che questa virtú hanno,
dice che s’adirano per quelle cose e contro a quelle persone, contro
alle quali è convenevole d’adirarsi, e ancora come si conviene, e
quando, e quanto tempo; e questi, che questo fanno, dice che sono
commendabili. E séguita che i mansueti vogliono essere senza alcuna
perturbazione, e non vogliono esser tirati da alcuna passione, ma
quello solamente fare che la ragione ordinerá: cioè in quelle cose
nelle quali s’adira, tanto tempo essere adirato, quanto la ragione
richiederá. Questa cotale spezie d’ira n’è conceduta da’ santi.
Dice il salmista: «Irascimini,
et nolite peccare»;
volendo per queste parole che ne sia licito il commuoversi per le
cose non debitamente fatte, sí come fa il padre quando vede alcuna
cosa men che ben fare al figliuolo, o il maestro al discepolo, o
l’uno amico all’altro, accioché per quella commozione egli
l’ammonisca e corregga con viso significante la sua indegnazione, non
come uomo che, della ingiuria la quale gli pare per lo non ben fare
d’alcuno, disideri vendetta; e, fatta la debita ammonizione, ponga
giú l’ira. E in questa maniera adirandosi, e per cosí fatta
cagione, non si pecca. In questa maniera si dee intendere Dio verso
noi adirarsi, come spesso nella Scrittura si legge: e il salmista
spesse volte priega che da questa ira il guardi, cioè da adoperare
sí, che esso contra di lui si debba adirare. E da questa ira dobbiam
credere essere stato commosso Cristo, nel quale mai non fu peccato
alcuno, quando, preso un mazzo di funi, cacciò dal tempio i
venditori e’ compratori, dicendo: «Domus
mea, domus orationis»,
ecc. Questa spezie d’ira chiamano molti «sdegno» (e cosí mostra di
voler qui intendere l’autore): il qual non voglion cadere se non in
animi gentili, cioè ordinati e ben disposti e savi. E tanto voglion
che sia maggiore, quanto colui è piú savio in cui egli cade;
percioché quanto piú è savio l’uomo, tanto piú cognosce le
qualitá e’ motivi de’ difetti che si commettono, e per conseguente
piú si commuove. E però dice Salomone: «Ubi
multum sapientiae, ibi multum indignationis».
E vuole l’autore in questa particella mostrare questa virtú essere
stata in lui, in quanto in parte alcuna non si mostra per lo
supplicio de’ dannati in questo cerchio esser commosso, come ne’
superiori è stato: ma avergli Virgilio, cioè la ragione, fatta
festa abbracciandolo, e chiamandolo «alma sdegnosa», e benedicendo,
in segno di congratulazione, la madre di lui; e
questa festa, questa congratulazione non gli avrebbe mai fatta
Virgilio, se non in dimostrazione che nobilissima cosa e virtuosa sia
l’essere isdegnoso. È il vero che, come di molte altre cose avviene,
questo adiettivo, cioè «sdegnoso», spessissimamente in mala parte
si pone: il che, quantunque non vizi la veritá del subietto,
nondimeno è da’ discreti da distinguere e da riguardare, dove
debitamente si pone; e, dove non debitamente si pone, averlo per
alcuna di quelle spezie d’ira, le quali di sopra son mostrate esser
dannose.]
Dice adunque il testo
cosí: «Lo collo poi» che dal legno ebbe cacciata quella anima
iracunda, «con le braccia mi cinse», abbracciandomi; «Baciommi il
volto», in segno di singulare benivolenzia; percioché noi
abbracciamo e baciamo coloro li quali noi amiamo molto. E dice «il
volto», non dice la bocca, accioché per questo noi sentiamo
primieramente l’onestá del costume, percioché il baciar nel volto è
segno caritativo, ove il baciare in bocca, quantunque quel medesimo
sia alcuna volta, le piú delle volte è segno lascivo. E, oltre a
ciò, il volto nostro è detto «volto» da «volo
vis»,
percioché per quello ne’ non viziati uomini si dimostra il voler del
cuore: e percioché il voler del cuore dell’autore era buono e
onesto, Virgilio, approvando quel buon volere, mostrò la sua
approvazione, baciando quella parte del corpo dell’autore, nella
quale quella buona disposizione si dimostrava.
«E disse: – Alma
sdegnosa». Non disse iracunda, ma «sdegnosa», in quanto,
giustamente adirandosi e quanto si conviene servando l’ira, mostrò
lo sdegno della sua nobile anima. «Benedetta colei che in te», cioè
sopra te, «si cinse!». Cingonsi sopra noi le madri nostre nel
mentre nel ventre ci portano; e dice qui l’autor «benedetta», a
dimostrazion che, come l’albero, il qual porta buon frutto, si dice
«benedetto», cosí ancora si dice «benedetta» la madre che porta
buon figliuolo. E in questa parte non si commenda poco l’autore; ma
egli è in ciò da avere per iscusato, in quanto non fa questo per
commendar sé, ma per commendar la virtú della mansuetudine, della
quale era di necessitá di trattare in questa parte, accioché noi
non credessimo ogni ira esser peccato.
«Questi», che ti si
mostrò, «fu al mondo», cioè in questa vita, «persona
orgogliosa», cioè arrogante: «Bontá», cioè virtú, «non è che
sua memoria fregi», cioè adorni; percioché le virtú adornano cosí
il nome e la memoria dell’uomo, nel quale state sono, come il fregio
adorna il vestimento; «Cosí», cioè come fu arrogante nel mondo,
«s’è l’ombra sua qui furiosa», per rabbia e per dolore del
tormento.
«Quanti si tengono or
lassú». Poi che egli ha biasimata la furiosa e sconvenevole vita di
quello spirito, meritamente si volge Virgilio a biasimare, sotto i
nomi de’ piú eminenti prencipi, i fastidi e le stomacaggini, non
dico solamente degli uomini di maggiore stato, ma eziandio di molti
plebei, li quali, per apparere d’esser quel che non sono, si sforzano
d’esser ponderosi ne’ passi, gravi nel parlare, e nell’adoperare di
sentimento sublime, dove nell’effetto di niuno valore sono; dicendo:
«Quanti si tengono or lassú», cioè nel mondo, il quale è di
sopra da noi, «gran regi», cioè gran maestri. Nondimeno il «re»
è dinominato da «rego
regis»,
il quale sta per «reggere» e per «governare». Di questi cotali,
quantunque di molti sieno le lor teste ornate di corona, non son però
tutti da dovere essere reputati re; e però dice l’autore bene «si
tengono»; ma, perché essi si tengano, essi non sono.
A dimostrazione della
qual veritá ottimamente favella Seneca tragedo in quella tragedia la
quale è nominata Tieste,
dove dice: «Non fanno le ricchezze li re, non il colore del
vestimento tirio, non la corona della quale essi adornano la fronte
loro, non le travi dorate de’ lor palagi: re è colui il quale ha
posta giú la paura e ciascun altro male del crudel petto; re è
colui il quale non è mosso dalla impotente ambizione e dal favore
non stabile del precipitante popolo; sola la buona mente è quella
che possiede il regno: questa non ha bisogno di cavalli né d’armi;
re è colui il quale alcuna cosa non teme da non temere». Dalle
quali parole possiam comprendere quanti sieno oggi quegli li quali
degnamente si possano tenere re. Non sono adunque re questi cotali
che re si tengono, anzi son tiranni.
E però meritamente
séguita che questi cotali, che re si tengono perché posson far male
quando vogliono, «Che qui staranno, come porci, in brago»; e
meritamente, accioché nel brago e nella bruttura riconoscano i mali
usati splendori nella vita presente; e, che ancora piú vituperevole
fia, morranno «Di sé lasciando», in questa vita, «orribili
dispregi», cioè memoria di cose orribili e meritamente da
dispregiare, state operate per loro.
«Ed io: – Maestro».
Qui comincia la quarta particola della seconda parte principale di
questo canto, nella quale l’autor discrive come, secondo il suo
desiderio, vide straziare all’anime dannate quello pien di fango che
davanti gli s’era parato. E primieramente apre il suo desiderio a
Virgilio, dicendo: «Ed io: – Maestro, molto sarei vago Di vederlo
attuffare», costui, il qual tu mi di’ che fu persona orgogliosa (e
questa vaghezza par che sia generale in ciascuno virtuoso uomo, di
vedere gl’incorreggibili punire), «in questa broda». Il proprio
significato di «broda», secondo il nostro parlare, è quel
superfluo della minestra, il qual davanti si leva a coloro che
mangiato hanno: ma qui l’usa l’autore largamente, prendendolo per
l’acqua di quella padule mescolata con loto, il quale le paduli fanno
nel fondo, e percioché cosí son grasse e unte come la broda.
«Anzi che noi
uscissimo del lago», – cioè di questa padule. È il «lago» una
ragunanza d’acque, la quale in luoghi concavi tra montagne si fa, per
lo non avere uscita; ed è in tanto differente dal padule, in quanto
il lago ha grandissimo fondo ed hal buono, ed è in continuo
movimento; per le quai cose l’acqua senza corrompersi vi si conserva
buona; dove la padule ha poco fondo e cattivo, ed è oziosa. Pone
adunque qui l’autore il vocabolo del «lago» per lo vocabolo della
«padule», usando la licenza poetica, e largamente parlando.
«Ed egli a me: –
Avanti che la proda», cioè la estremitá di questa padule. La quale
l’uomo, come de’ fiumi, chiama «riva»; ma pone l’autore questo
vocabolo «proda», percioché egli è proprio nome di quelle rive
dove i navili pongono; e ciò è, perché sempre i navili,
accostandosi alla riva, dove scaricar debbono il carico il qual
portano, o caricar quello che prendono, pongono la lor proda alla
riva. «Ti si lasci veder, tu sará’ sazio», di quel che disideri. E
poi ancora gliele rafferma dicendo: «Di tal disio», chente tu di’
che hai, «converrá che tu goda», – cioè ti rallegri.
«Dopo ciò poco»,
cioè poco dopo queste parole di Virgilio, «vidi quello strazio Far
di costui», del quale io disiderava, «alle fangose genti», cioè
agl’iracundi, li quali erano in quel padule, «Che Dio ancor ne lodo
e ne ringrazio».
«Tutti gridavano»,
que’ dannati, animando l’un l’altro ad offender quest’anima. E che
gridavano? – «A Filippo Argenti!» – quasi voglian dire: corriam
tutti addosso a Filippo Argenti.
Fu questo Filippo
Argenti (secondo che ragionar solea Coppo di Borghese Domenichi) de’
Cavicciuli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna volta fece
il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare d’ariento, e da
questo trasse il sopranome. Fu uomo di persona grande, bruno e
nerboruto e di maravigliosa forza e, piú che alcuno altro, iracundo,
eziandio per qualunque menoma cagione. Né di sue opere piú si sanno
che queste due, assai ciascuna per se medesima biasimevole. E per lo
suo molto essere iracundo scrive l’autore lui essere a questa pena
dannato.
«E ‘l fiorentino
spirito bizzarro», cioè iracundo. E credo questo vocabolo
«bizzarro» sia solo de’ fiorentini, e suona sempre in mala parte:
percioché noi tegnamo bizzarri coloro che subitamente e per ogni
piccola cagione corrono in ira, né mai da quella per alcuna
dimostrazione rimuover si possono. «In se medesmo», vedendosi
schernire o assalire dagli altri, «si volvea co’ denti», per ira
mordendosi. «Quivi il lasciammo», procedendo avanti, «che piú non
ne narro», che di lui dopo questo si seguisse.
«Ma negli orecchi mi
percosse un duolo». Qui si può comprendere quello, che poco avanti
dissi, venire a ciascun senso quello che da essi si percepe: in
quanto dice che un «duolo», cioè una voce dolorosa, gli percosse
gli orecchi, di lá venendo dove quella dolorosa voce era nata. E
segue:
«Per che io»,
avendolo udito, per conoscere onde venisse, «avanti», cioè innanzi
a me, «intento», a riguardare, «gli occhi sbarro», cioè, quanto
posso apro.
«Lo buon maestro».
Qui comincia la quarta particella della seconda parte principale del
presente canto, nella quale l’autore dimostra come venissero ne’
fossi della cittá di Dite. Dice adunque: «Lo buon maestro disse: –
Omai, figliuolo, S’appressa la cittá che ha nome Dite, Co’ gravi
cittadin», non gravi per costumi o per virtú, ma per peccati, «col
grande stuolo», – cioè con la gran quantitá.
«Ed io: – Maestro, giá
le sue meschite». «Meschite» chiamano i saracini i luoghi dove
vanno ad adorare, fatti ad onore di Maometto, come noi chiamiamo
«chiese» quelle che ad onore di Dio facciamo; e percioché questi
cosí fatti luoghi si soglion fare piú alti e piú eminenti che gli
edifici cittadini, è usanza di vederle piú tosto, uno che di fuori
della cittá venga, che l’altre case; e perciò non fa l’autor
menzione dell’altre parti della cittá dolente, ma di questa sola,
chiamandole «meschite», sí come edifici composti ad onor del
dimonio, e non di Dio.
«Lá entro certo nella
valle cerno»; dice «nella valle», percioché la cittá era molto
piú bassa che esso non era; e dice le discernea «Vermiglie, come se
di foco uscite Fossero». – E questo dice a rimuovere una obiezione
che gli potrebbe esser fatta, in quanto di sopra ha alcuna volta
detto sé non potere guari vedere avanti per lo fummo del padule; e
cosí vuol dire che né ancora qui vedrebbe quelle meschite, se non
fosse che esse medesime si facevan vedere per l’essere affocate, cioè
rosse.
«E quei mi disse: – Il
fuoco eterno, Ch’entro l’affuoca, le dimostra rosse», cioè roventi,
«Come tu vedi in questo basso inferno». –
Udita la cagione per la
quale erano rosse quelle meschite (la qual fu necessaria d’aprire,
accioché egli non estimasse quelle essere dipinte), ed egli
soggiugne: «Noi pur giugnemmo dentro all’alte fosse, Che vallan
quella terra sconsolata». «Vallo», secondo il suo proprio
significato, è quello palancato, il quale a’ tempi di guerre si fa
dintorno alle terre, accioché siano piú forti, e che noi
volgarmente chiamiamo «steccato»; e da questo pare venga nominata
ogni cosa la qual fuor delle mura si fa per afforzamento della terra.
«Le mura», di quella
terra, «mi parea che ferro fosse». Dice quelle essergli parute
esser di ferro, a dimostrazione della fortezza di questa terra, della
quale dice Virgilio nel sesto dell’Eneida
cosí:
Porta
adversa, ingens, solidoque adamante columnae,
vis
ut nulla virûm, non ipsi excindere ferro
caelicolae
valeant. Stat ferrea turris ad auras,
Tesiphoneque
sedens, palla succinta cruenta,
vestibulum
exsomnis servat noctesque diesque.
Hinc
exaudiri gemitus et saeva sonare
verbera;
tum stridor ferri tractaeque catenae, ecc.
«Non senza prima far»,
ecc. Qui comincia la quarta parte principale del presente canto,
nella quale l’autor discrive la raccolta fatta loro da’ demòni, li
quali erano in su la porta di Dite, e come a Virgilio serrarono la
porta nel petto. E in questa parte fa due cose: primieramente
discrive cui trovassero all’entrare della porta di Dite, e come
Virgilio domandasse di parlar con loro; appresso dimostra come si
sconfortasse per l’andar Virgilio a loro. E comincia questa
particella quivi: «Pensa, lettor».
Dice adunque
primieramente: «Non senza prima far grande aggirata»; nelle quali
parole dimostra che lungamente andassero per li fossi di quella
cittá, avanti che essi giugnessono lá dove era la porta di quella;
e però segue: «Venimmo in parte dove ‘l nocchier», cioè Flegias.
Ed è questo nome «nocchiere» il proprio nome di colui, al quale
aspetta il governo generale di tutto il legno, e a lui aspetta di
comandare a tutti gli altri marinari, secondo che gli pare di
bisogno; e chiamasi «nocchiere» quasi «navichiere». «Forte –
Uscite! – ci gridò». Qui si può comprendere, dal gridar forte di
questo nocchiere, il costume degl’iracundi intorno al parlare, li
quali non pare il possan fare se non impetuosamente e con romore. –
«Qui è l’entrata», – della cittá di Dite.
«Io vidi piú di
mille», cioè molti, «in su le porte», di questa cittá di Dite,
«Dal ciel piovuti», cioè demòni, li quali, cacciati di paradiso,
in guisa di piova caddero nello ‘nferno, «che stizzosamente», cioè
iracundamente, «Dicean», con seco medesimi: – «Chi è costui, che
senza morte», cioè essendo ancor vivo, «Va per lo regno della
morta gente?», – cioè per lo ‘nferno, il qual veramente si può dir
«regno della morta gente», in quanto quegli, che vi sono, son morti
della morte temporale, e morti nella morte eternale.
«E ‘l savio mio
maestro fece segno», a questi demòni, «Di voler lor parlar
segretamente». Per lo qual segno essi «Allor chiusero un poco il
gran disdegno». Non dice che il ponesser giuso, ma alquanto, col non
parlare cosí stizzosamente, il ricopersono. E qui «disdegno» si
prende in mala parte, percioché negli spiriti maladetti non può
essere, né è, alcuna cosa che a virtú aspetti. «E disser: –
Vien’tu solo», qua a noi, «e quei sen vada», cioè Dante, «Che sí
ardito», dietro a te, «entrò per questo regno. Sol si ritorni per
la folle strada», per la quale è venuto dietro a te. E chiamala
«folle», non perché la strada sia folle, percioché non è in
potenza la strada da potere essere o folle o savia, ma a dimostrare
esser folli coloro li quali si adoperano, che per essa convenga loro
scendere alla dannazione eterna. «Pruovi, se sa», tornarsene
indietro solo; «ché tu qui», con noi, «rimarrai. Che gli hai
scorta», insino a questo luogo, «sí buia contrada», – cioè sí
oscura.
E vuole in queste
parole l’autore quello dimostrare, che negli altri cerchi di sopra ha
dimostrato, cioè che per alcun de’ ministri infernali sempre
all’entrar del cerchio sia spaventato: e cosí qui, dovendo del
quinto cerchio passar nel sesto, il quale è dentro della cittá di
Dite, introduce questi demòni a doverlo spaventare, accioché del
suo buon proponimento il rimovessero, e impedisserlo a dover
conoscere quello che si dee fuggire, per non dovere, perduto, in
inferno discendere.
«Pensa, lettor». Qui
comincia la seconda particella di questa parte principale, nella
quale l’autore mostra come si sconfortasse. «Pensa, lettor», che
queste cose leggerai, «se io mi sconfortai, Nel suon delle parole
maladette», cioè dette da quegli spiriti maladetti. E soggiugne la
cagione per la quale esso si sconfortò, dicendo: «Ch’io non
credetti ritornarci mai», cioè in questa vita, vedendomi tôrre
colui che infin quivi guidato m’avea, e senza il quale io non avrei
saputo muovere un passo.
E però, da questa
paura sbigottito, dice: – «O caro duca mio, che piú di sette»,
cioè molte, ponendo il finito per lo ‘nfinito, «Volte m’hai sicurtá
renduta, e tratto D’altro periglio che incontro mi stette»; cioè
quando tu mi levasti dinanzi alle tre bestie, le quali impedivano il
mio cammino, quando tu acchetasti l’ira di Carone, di Minos, di
Cerbero e degli altri che opposti mi si sono; «Non mi lasciar –
diss’io – cosí disfatto», come io sarei qui, ritrovandomi senza te;
«E, se l’andar piú oltre», cioè piú giuso, «ci è negato,
Ritroviam l’orme nostre insieme ratto», – per la via tornandoci, per
la quale venuti siamo.
«E quel signor»,
Virgilio, «che lí m’avea menato, Mi disse: – Non temer, ché ‘l
nostro passo», cioè l’entrare nella cittá di Dite, «Non ci può
tôrre alcun»; quasi dica: quantunque costoro faccian le viste
grandi e dican parole assai, essi non posson però impedire l’andar
nostro; e pone la cagion perché non possono, dicendo: «da Tal n’è
dato», cioè da Dio, al voler del quale non è alcuna creatura che
contrastar possa. «Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso», faticato
per la paura, «Conforta, e ciba di speranza
buona»; e poi pone di che egli debba prender la speranza buona,
dicendo: «Ch’io non ti lascerò nel mondo basso», – cioè nello
‘nferno, il quale piú che alcuna altra cosa è basso.
«Cosí sen va», verso
que’ demòni, «e quivi m’abbandona Lo dolce padre», cioè lascia
solo di sé, «ed io rimango in forse; E ‘l sí e ‘l no», che egli
debba a me ritornare come promesso m’ha, o rimaner con coloro (sí
come essi il minacciavano, dicendo: – Tu qui rimarrai -), «nel capo
mi tenzona», cioè nella virtú estimativa, la quale è nella testa.
E poi segue: «Udir non
potei quel che a lor», cioè a que’ demòni, «si porse», cioè si
disse; «Ma el non stette lá con essi guari, Che ciascun dentro a
pruova si ricorse. Chiuser le porti», della cittá, «quei nostri
avversari Nel petto», cioè contro al petto, «al mio signor, che
fuor rimase».
Puossi per questo atto,
fatto da’ demòni, comprendere che Virgilio dicesse loro esser
piacere di Dio che esso mostrasse lo ‘nferno a colui il quale con
seco avea, e che essi, avendo questo in dispetto, accioché egli non
avvenisse, si ritiraron dentro e serraron le porti.
«E rivolsesi a me»,
tornando, «con passi rari». Disegna in queste parole l’autore
l’atto di coloro li quali per giusta cagione sdegnano e si turbano,
in quanto non furiosamente, non con impeto, come gl’iracundi, corrono
alla vendetta, ma mansuetamente si dolgono di ciò che alcuno ha men
che bene adoperato.
Poi segue: «Gli occhi
alla terra», bassi; nel quale atto si manifesta la turbazione del
mansueto, dove in contrario l’iracundo leva la testa e fa romore; «e
le ciglia avea rase D’ogni baldanza»; in quanto il mansueto
ristrigne dentro con la forza della virtú l’impeto, il quale
vorrebbe correre alla vendetta, e però pare sbaldanzito, cioè senza
alcuno ardire, dove gl’iracundi col capo levato paiono baldanzosi e
arditi; «e dicea ne’ sospiri», cioè sospirando dicea (nel qual
sospirare appaiono alcuni segni della perturbazione del mansueto): –
«Chi m’ha negate le dolenti case?» – quasi dica: questi demòni, li
quali sono in ira di Dio e niente contro a Dio possono, hanno negato
a me, che sono mandato da Dio, le case dolenti. La qual cosa,
percioché era oltre ad ogni convenienza, gli era materia di
sospirare e di rammaricarsi.
«E a me disse», non
ostante la sua perturbazione: – «Tu, perch’io m’adiri», di quella
ira la quale è meritoria, «Non sbigottir», cioè non te n’entri
alcuna paura, per ciò «ch’io vincerò la pruova», dell’entrar
dentro alla cittá, «Qual, ch’alla difension», che io non v’entri,
«dentro s’aggiri», cioè si dea da fare perché io non v’entri.
«Questa lor tracotanza», del fare contro a quello che debbono, «non
m’è nuova, Ché giá l’usâro in men segreta porta», che questa non
è, [e contro al signor del cielo e della terra, cioè di Gesú
Cristo]. E dice «men segreta», in quanto quella è all’entrata
dell’inferno, e questa è quasi al mezzo; perché assai appare questa
esser piú segreta e piú riposta che non è quella. E questo fu,
secondo che si racconta, quando Cristo giá risuscitato scese allo
‘nferno a trarne l’anime de’ santi padri, li quali per molte migliaia
d’anni l’avevano aspettato; intorno al quale il prencipe de’ demòni
co’ suoi seguaci fu di tanta presunzione, che egli ardí ad opporsi,
in ciò che esso poté, perché Cristo non liberasse coloro li quali
lungamente avea tenuto in prigione: e per questo metaphorice
si dice Cristo avere spezzata la porta dello ‘nferno, e rotti i
catenacci del ferro. La qual porta convenne esser quella della quale
fa qui menzione l’autore, cioè la men segreta, alla qual poi non fu
mai fatto alcun serrame, sí come esso medesimo dice: «La qual senza
serrame ancor si truova». Né si dee intendere d’alcuna altra,
percioché, secondo la discrizione dell’autore, nello ‘nferno non ha
che due porte: delle quali è l’una quella di che di sopra è detto,
e della quale esso dice qui: «Sovr’essa vedestú la scritta morta»
(cioè, «Per me si va nella cittá dolente», ecc., la qual chiama
«scritta morta», percioché ha a significare, a quegli che per essa
entrano, eterna morte); ed evvi, oltre a questa, la porta di Dite,
infino alla quale Cristo non discese, percioché si crede che nel
primo cerchio dello ‘nferno, cioè nel limbo, erano quegli li quali
Cristo ne trasse.
E poi séguita: «E giá
di qua da lei», cioè da quella prima porta, la qual senza serrame
ancor si trova, «discende l’erta». «Erta» è a chi volesse
tornare in suso, ma, discendendo, come far conviene a chi dalla prima
porta vuol venire a quella di Dite, si dee dir «china»; ma, come
spesse volte fa l’autore, usa un vocabolo per un altro. «Passando
per li cerchi», dello ‘nferno, «senza scorta», cioè senza guida,
sí come colui che bisogno alcuno non ha, avendo seco la divina
sapienza, alla quale ogni cosa è manifesta; «Tal, che per lui ne
fia la terra aperta»; – di tanta potenza sará; sí come appresso
appare, dove dice l’autore che, toccata la porta di quella solamente
con una verga, l’aperse.