II
SENSO
ALLEGORICO
«Io dico, seguitando,
ch’assai prima», ecc. Nel presente canto non è alcuna ordinaria
allegoria come ne’ passati, percioché non ci si discrive alcuna cosa
che quasi nel precedente non sia stata allegorizzata; e però alcuna
breve cosetta, che ci è, in poche parole si spedirá.
Dicono adunque alcuni
le due torri, le quali l’autore scrive essere in questo quinto
cerchio, e le fiamme su fattevi, avere a dimostrare il trascendimento
della furia degl’iracundi, il quale trasvá sopra ogni debito di
ragione; e vogliono le tre fiamme fatte sopr’esse avere a dimostrare
le tre spezie degl’iracundi discritte nel canto precedente. Ma questo
senso non mi sodisfa, anzi credo e le torri e le fiamme semplicemente
essere state discritte dall’autore a continuazione del suo poema;
peroché qui parev’essere di necessitá porre alcuna cosa, per la
quale segno si désse a Flegias che, dove che si fosse, venisse a
dovere li due venuti a riva passare all’altra riva, sí come
subitamente venne; e perciò intorno ad esse piú non mi pare da por
parole.
Per Flegias, li cui
costumi discritti sono poco avanti, assai ben si può comprendere
l’autore intendere il vizio dell’iracundia, li cui effetti, quanto
piú possono, son conformi a’ costumi del detto Flegias. E bene che
la pena datagli da Apolline, secondo Virgilio, non sia corrispondente
a questo vizio, non perciò toglie che qui per lo detto vizio
attamente porre non si possa; conciosiacosaché Virgilio, dove
discrive la pena postagli da Apolline, abbia ad alcuna altra sua
operazion rispetto, e non a quella per la quale l’autore vuol qui che
egli significhi l’iracundia; e, se contro a Virgilio s’osasse dire,
io direi che in questa parte l’autore avesse avuta assai piú
conveniente considerazione di lui.
Il navicar l’autore con
Virgilio nella padule di Stige puote a questo senso adattarsi: essere
di necessitá a ciascuno, il quale non vuole nel peccato dell’ira
divenire, quanto piú leggiermente può, passare superficialmente le
tristizie di questa vita, le quali sono infinite, sempre accompagnato
dalla ragione, accioché, non essendosi in quelle oltre al dovere
lasciato tirare, possa, senza pervenire nel peccato della
ostinazione, del quale nel seguente canto si tratterá, trapassare a
conoscer con dolcezza di cuore le colpe che ci posson tirare a
perdizione.
Della cittá di Dite,
la qual dice l’autore che avea le mura di ferro, e de’ demòni, che
sopra la porta di quella incontro a Virgilio uscirono, e, oltre a
ciò, l’avergli serrata la porta della detta cittá nel petto: tutto
appartiene a dover dire con quelle cose, le quali nel seguente canto
della detta cittá dimostra. E però quivi, quanto da Dio conceduto
mi fia, ne scriverò.