CANTO
PRIMO
I
SENSO
LETTERALE
[Lez.
II]
[Resta a venire
all’ordine della lettura, e primieramente alle divisioni. Dividesi
adunque il presente volume in tre parti principali, le quali sono li
tre libri ne’ quali l’autore medesimo l’ha diviso: de’ quali il
primo, il quale per leggere siamo al presente, si divide in due
parti, in proemio e trattato. La seconda comincia nel principio del
secondo canto. La prima parte si divide in due: nella prima discrive
l’autore la sua ruina; nella seconda dimostra il soccorso venutogli
per sua salute. La seconda comincia quivi: «Mentre ch’io rovinava in
basso loco». Nella prima fa l’autore tre cose: primieramente
discrive il luogo dove si ritrovò; appresso mostra donde gli
nascesse speranza di potersi partire di quel luogo; ultimamente pone
qual cosa fosse quella che lo ‘mpedisse a dover di quello luogo
uscire: la seconda quivi: «Io non so ben ridir»; la terza quivi:
«Ed ecco quasi».]
[Dice adunque cosí:
«Nel mezzo del cammin di nostra vita». Ove ad evidenzia di questo
principio è da sapere, la vita de’ mortali è, massimamente di
quegli li quali a quel termine divengono, il quale pare che per
convenevole ne sia posto, di settanta anni; quantunque alquanti, e
pochi, piú ne vivano, e infinita moltitudine meno, sí come per lo
salmista si comprende nel salmo ottantanovesimo, dove dice: «Anni
nostri sicut aranea meditabuntur; dies annorum nostrorum in
ipsis
septuaginta anni. Si autem in potentatibus, octoginta anni; et
amplius eorum, labor et dolor»;
e
perciò colui il quale perviene a trentacinque anni, si può dire
essere nel mezzo della nostra vita. Ed è figurata in forma d’uno
arco, dalla prima estremitá del quale infino al mezzo si salga, e
dal mezzo infino all’altra estremitá si discenda; e questo è
stimato, percioché infino all’etá di trentacinque anni, o in quel
torno, pare sempre le forze degli uomini aumentarsi, e quel termine
passato diminuirsi. E a questo termine d’anni pare che l’autore
pervenuto fosse, quando prima s’accorse del suo errore. E che egli
fosse cosí, assai bene si verifica per quello che giá mi ragionasse
un valente uomo chiamato ser Piero di messer Giardino da Ravenna, il
quale fu uno de’ piú intimi amici e servidori che Dante avesse in
Ravenna; affermandomi avere avuto da Dante, giacendo egli nella
infermitá della quale e’ morí, lui avere di tanto trapassato il
cinquantesimosesto anno, quanto dal preterito maggio aveva infino a
quel dí. E assai ne consta Dante esser morto negli anni di Cristo
1321, dí 14 di settembre: per che, sottraendo ventuno di
cinquantasei, restano trentacinque; e cotanti anni avea nel 1300,
quando mostra d’avere la presente opera incominciata. Per che appare
ottimamente la sua etá esser discritta dicendo: «Nel mezzo del
cammin», cioè dello spazio, «di nostra vita», cioè di noi
mortali. «Mi ritrovai», errando, «per una selva oscura»; a
differenza d’alcune selve, che sono dilettevoli e luminose, come è
la pineta di Chiassi. «Ché la diritta via era smarrita». Vuole
mostrare qui che di suo proponimento non era entrato in questa selva,
ma per ismarrimento.]
[«E quanto a dir»,
cioè a discrivere, «qual era», questa selva, «è cosa dura»,
quasi voglia dire impossibile, «esta selva selvaggia e aspra e
forte». Pon qui tre condizioni di questa selva: dice prima che
ell’era «selvaggia», quasi voglia dinotare non avere in questa
alcuna umana abitazione, e per conseguente essere orribile; dice
appresso ch’ella era «aspra», a dimostrare la qualitá degli alberi
e de’ virgulti di quella, li quali doveano essere antichi, con rami
lunghi e ravvolti, contessuti e intrecciati intra se stessi, e
similemente piena di pruni, di tribuli e di stecchi, senza alcuno
ordine cresciuti, e in qua e in lá distesi: per le quali cose era
aspra cosa e malagevole ad andare per quella; e in quanto dice
«forte», dichiara lo ‘mpedimento giá premostrato, vogliendo per
l’asprezza di quelli, essa esser forte, cioè difficile a potere per
essa andare e fuori uscirne. E questo dice esser tanto, «Che nel
pensier», cioè nella rammemorazione d’esservi stato dentro,
«rinnova la paura». Umano costume è, tante volte
da capo rimpaurire quante l’uom si ricorda de’ pericoli ne’ quali
l’uomo è stato.]
[«Tanto è amara»,
non al gusto ma alla sensibilitá umana, «che poco è piú morte».
Ed è la morte, secondo il filosofo, l’ultima delle cose terribili,
intanto che ciascuno animale naturalmente ad ogni estremo pericolo si
mette per fuggirla. Adunque, se la morte è poco piú amara che
quella selva, assai chiaro appare lei dovere essere molto amara, cioè
ispaventevole ed intricata: le quali cose prestano amaritudine
gravissima di mente. «Ma, per trattar del ben ch’io vi trovai».
Maravigliosa cosa pare quella che l’autore dice qui, e cioè che egli
alcun bene trovasse in una selva tanto orribile quanto egli ha
mostrato esser questa; e, percioché egli nella lettera non esprime
qual bene in quella trovasse, assai si può vedere questo bene
trovato da lui convenirsi trarre di sotto alla corteccia litterale; e
perciò, dove di questa parte apriremo l’allegoria, chiariremo quello
che qui voglia intendere. «Dirò dell’altre cose», cioè che non
sono bene, «ch’io v’ho scorte», cioè vedute; e questo altresí si
conoscerá nell’allegoria.]
[«I’ non so ben ridir
com’io v’entrai». In questa parte mostra l’autore donde gli nascesse
speranza di potersi partire di quel luogo, e primieramente risponde a
una tacita quistione. Potrebbe alcuno domandare: – Se questa selva
era cosí paurosa e amara cosa, come v’entrastú entro? – A che egli
risponde sé non saperlo, e assegna la ragione, dicendo: «Sí era
pien di sonno in su quel punto, Che la verace via», la quale mi
menava lá dove io dovea e volea andare, «abbandonai».]
«Ma poi ch’i’ fui»,
errando e cercando come di quella uscir potessi, «appiè d’un colle
giunto», cioè pervenuto, «Lá dove terminava», finiva, «quella
valle», nella quale era questa selva oscura, «Che m’avea di paura
il cor compunto», cioè afflitto, «Guardai in alto e vidi le sue
spalle», cioè la sommitá quasi, sí come le spalle nostre sono
quasi la piú alta parte della persona nostra, «Coperte giá de’
raggi del pianeta», cioè del sole, il quale è l’uno de’ sette
pianeti. E perciò dice del sole, percioché esso solo è di sua
natura luminoso, e ogni altro corpo che luce, o pianeto o stella o
qualunque altro, ha da questo la luce, sí come da fonte di quella,
sí come per esperienza si vede negli eclissi lunari; e questa luce
ha solo, non per la sua potenza, ma per singular dono del suo
Creatore, e hanne in tanta abbondanza, che ad ogni parte dintorno a
sé manda infinita moltitudine di raggi, per li quali, ovunque
pervenir possano, si diffonde copiosamente la luce sua; e questi
raggi, sagliendo il sole dallo inferiore emisperio al superiore, le
prime parti che toccano del corpo della terra, alla quale, sagliendo
il sole, pervengono, sono le sommitá de’ monti. Per la qual cosa
appare qui che il giorno cominciava ad apparire, quando l’autore
cominciò ad avvedersi dove era, ed a volere di quel luogo uscire; e
di potere ciò fare gli venne speranza, rammemorandosi che la luce di
questo pianeto «mena diritto altrui per ogni calle», cioè per ogni
via, in quanto, essendo il sole sopra la terra, vede l’uomo dov’e’ si
va, e ancora con miglior giudicio si dirizza lá dove andar vuole,
mediante la luce di costui.
E, per questa speranza
presa, dice: «Allor fu la paura un poco queta», cioè meno infesta,
«Che nel lago del cuor». È nel cuore una parte concava, sempre
abbondante di sangue, [nel quale, secondo l’oppinione di alcuni,
abitano li spiriti vitali], e di quella, sí come di fonte perpetuo,
si ministra alle vene quel sangue e il calore, il quale per tutto il
corpo si spande; ed è quella parte ricettacolo di ogni nostra
passione: e perciò dice che in quella gli era perseverata la
passione della paura avuta. E perciò dice: «m’era durata, La notte
ch’i’ passai con tanta pièta», cioè con tanta afflizione, sí per
la diritta via la quale smarrita avea, e sí per lo non vedere, per
le tenebre della notte, donde né come egli si potesse alla diritta
via ritornare.
«E
qual è quei, che con lena», cioè virtú, «affannata»,
affaticata. «Uscito fuor del pelago alla riva»:
come colui il quale rompe in mare, che, dopo molto notare, faticato e
vinto perviene alla riva, e
«Volgesi all’acqua perigliosa», della quale è uscito, «e guata»;
e in quel guatare, cognosce molto meglio
il pericolo del quale è scampato, che esso non cognosceva, mentre
che in esso era, percioché allora,
spronandolo la paura del perire, a null’altra cosa aveva l’animo che
solo allo scampare; ma, scampato,
con piú riposato giudicio vede quante cose poteano la sua salute
impedire e, quasi in esso fosse, molto piú teme,
che non facea quando v’era: e però séguita adattando sé alla
comparazione: «Cosí l’animo mio, ch’ancor fuggiva», cioè che
ancora scampato esser non gli parea, ma come se nel pericolo fosse
ancora, di fuggire si sforzava; e, cosí parendogli, «Si volse
indietro», come fa colui che notando è pervenuto alla riva, «a
rimirar lo passo», pericoloso della oscura selva, «Che non lasciò
giammai» uscire di sé «persona viva». Questa parola non si vuole
strettamente intendere [esser viva], percioché qui usa l’autore una
figura che si chiama «iperbole», per la quale non solamente alcuna
volta si dice il vero, ma si trapassa oltre al vero: come fa
Vergilio, che, per manifestare la leggerezza della Cammilla, dice
ch’ella sarebbe corsa sopra l’onde del mare turbato, e non s’arebbe
immollate le piante de’ piedi. E perciò si vuole intender qui
sanamente l’autore, cioè che di quello pericoloso passo pochi ne
sieno usciti vivi; percioché, se alcuno non avesse vivo lasciato
giammai, l’autore, che dice sé esserne uscito, come sarebbe vivo?
«E poi ch’ebbi posato
il corpo lasso», per la fatica sostenuta, «Ripresi via per la
piaggia diserta»; e cosí mostra avere abbandonata la valle per
dover salire al monte, cioè in sí fatta maniera andando, «Sí che
‘l piè fermo sempre era il piú basso». [Mostra l’usato costume di
coloro che salgono, che sempre si ferman piú in su quel piè che piú
basso rimane.]
«Ed ecco, quasi al
cominciar dell’erta». In questa terza parte dimostra l’autore qual
cosa fosse quella che lo ‘mpedisse a dovere di quel luogo uscire, e
dice ciò essere stato tre bestie, per la fierezza delle quali, non
che salir piú avanti, ma egli fu per tornare indietro nel pericolo
del quale era incominciato ad uscire. Dice adunque: «Ed ecco quasi
al cominciar dell’erta», cioè della costa, su per la quale salir
dovea per partirsi della pericolosa valle, «Una lonza leggera e
presta molto, Che di pel maculato era coperta».
Poi, discritta la forma della bestia, dice: «E non mi si partía dinanzi al volto».
Appresso dice che questo stargli sempre davanti, che essa «impediva
tanto il mio cammino», per lo quale al monte salir volea, «Ch’i’
fui per ritornar», nella valle, «piú volte vòlto».
«Temp’era dal
principio». Discrive qui l’autore l’ora che era del dí, quando egli
era da questa bestia impedito, e la qualitá della stagione
dell’anno; e quanto a l’ora del dí, dice ch’era principio «del
mattino»: il che assai appare per li raggi del sole, li quali ancora
non si vedeano se non nella sommitá del monte. «E ‘l sol montava ‘n
su», cioè sopra l’orizzonte orientale di quella regione, vegnendo
dallo emisperio inferiore al superiore; «con quelle stelle», in
compagnia, «Ch’eran con lui, quando l’Amor divino», cioè lo
Spirito santo, «Mosse da prima», cioè nel principio del mondo,
«quelle cose belle», cioè il cielo e le stelle. Dimostra qui
l’autore per una bella e leggiadra discrizione la qualitá della
stagione dell’anno. Ad evidenzia della quale è da sapere che gli
antichi filosofi caldei, e appresso loro gli egizi, furono li primi
che per considerazione conobbero il movimento dell’ottava sfera e de’
pianeti, e similmente quello che per gli movimenti de’ corpi
superiori negl’inferiori ne seguiva; e per lunghe esperienzie
avvedendosi che, essendo il sole in diverse parti del cielo,
evidentemente quaggiú si permutavano le qualitá dell’anno, e queste
qualitá essere quattro, cioè quelle che noi primavera, state,
autunno e verno chiamiamo; intesa giá qual fosse nel cielo la via
del sole, quella, secondo il numero di queste, divisero in quattro
parti eguali. E poi, perché sentirono ciascuna di queste parti avere
i principi differenti dalle fini, e ‘l mezzo sentire della natura del
principio e della fine; ciascuna di queste quattro parti divisero in
tre parti equali; e cosí fu da loro la via del sole divisa in dodici
parti equali, e quelle chiamaron «segni». E, accioché l’uno si
cognoscesse dall’altro, immaginando figurarono in ciascuna parte
alcun animale [ornato di certa quantitá di stelle, ingegnandosi di
figurare, in quelle, animali], la natura del quale fosse conforme
agli effetti di quella parte, nella quale con la immaginazione il
figuravano. E, percioché la prima qualitá dell’anno estimarono
essere la primavera, quella vollero fosse il principio dell’anno; e
cosí quella parte del cielo, nella quale essendo il sole questa
primavera veniva, vollero che fosse la prima parte della via del
sole, e quivi figurarono un segno, il quale noi chiamiamo Ariete; nel
principio del quale affermano alcuni Nostro Signore aver creato e
posto il corpo del sole. E perciò, volendo l’autore dimostrare per
questa discrizione il principio della primavera, dice che il sole
saliva su dallo emisperio
inferiore al superiore, con quelle stelle le quali eran con lui,
quando il divino Amore lui e l’altre cose belle creò, e diede loro
il movimento, il qual sempre poi continuato hanno; volendo per questo
darne ad intendere che, quando da prima pose la mano alla presente
opera, è circa al principio della primavera; e cosí fu, sí come
appresso apparirá. [Egli nella presente fantasia entrò a dí 25 di
marzo.]
«Sí ch’a bene
sperar». Questa lettera si vuole cosí ordinare: «L’ora del tempo e
la dolce stagione m’era cagione a sperar bene di quella fiera alla
gaetta pelle»; o vero, se la lettera dice «di quella fiera la
gaetta pelle», si vuole ordinare cosí: «m’era cagione a sperar
bene la gaetta pelle di quella fiera». Ciascuna di queste due
lettere si può sostenere, percioché sentenzia quasi non se ne muta.
Reassumendo adunque la lettera come giace nel testo, dice: «Sí che
a bene sperar m’era cagione Di quella fiera», cioè di quella lonza,
«alla gaetta pelle», cioè leggiadretta, percioché pulita molto è
la pelle della lonza; o vero, secondo l’altra lettera, «m’era
cagione di bene sperar» di dovere ottenere la pelle di quella fiera
(la quale esso intendea di prendere, se potuto avesse, con una corda
la quale cinta avea, secondo che esso medesimo dice in questo
medesimo libro, nel canto sedicesimo, dove scrive: «Io aveva una
corda intorno cinta, E con essa pensai, alcuna volta, Prender la
lonza alla pelle dipinta») «L’ora del tempo», cioè il principio
del dí, «e la dolce stagione», cioè la primavera.
Ma puossi qui
domandare: che speranza poteva qui porgere di vittoria sopra la lonza
l’ora del mattino e la stagion della primavera? Conciosiacosaché in
questi due tempi soglia piú di ferocitá essere negli animali,
percioché l’ora del mattino gli suole generalmente tutti rendere
affamati, e per conseguente feroci, e la stagione del tempo gli
soglia render innamorati piú che alcun altra stagion del tempo; e
gli animali sogliono per queste due cose, per lo cibo e per venere,
esser ferocissimi, e massimamente la lonza, la quale è di sua natura
lussuriosissimo animale: e cosí pare che di quello, di che si
conforta, si dovesse piú tosto sconfortare. Puossi nondimeno cosí
rispondere: che, conceduto quello, che detto è, essere negli animali
bruti, è credibile negli uomini similemente in questo tempo crescere
il vigore, in quanto essi, che razionali sono, veggendo partire le
tenebre della notte, le quali sogliono essere e sono piene di paura,
nel tempo lucido veggono come possano l’arti del loro ingegno usare a
vincere, e in che guisa possano i pericoli e l’esser vinti fuggire. E
il tempo della primavera, secondo i fisici, è conforme alla
compression sanguinea, e però in quella il sangue piú chiaro, piú
caldo e piú ardire amministra al cuore e forze al corpo; e quinci
per avventura si puote nell’autore accendere ottima speranza di
vittoria.
«Ma non sí», gli
diede speranza l’ora del tempo ecc., «Che paura non mi desse La
vista», cioè la veduta, «che m’apparve», appresso la lonza, «d’un
leone. Questi parea che contr’a me venesse» (e cosí appare questo
leone essere il secondo ostaculo, il quale il suo cammino di salire
al monte impedí) «Colla test’alta», nel qual atto si mostrava
audace, «e con rabbiosa fame» (questo il faceva meritamente da
temere, come di sopra è detto), «Sí che parea che l’aer ne
temesse», in quanto l’aere, impulso dall’impeto del venire del
leone, indietro si traeva, il quale è atto di chi fugge. Con questo
mostrava, impropriamente parlando, di aver paura di lui.
«Ed una lupa» (questo
è il terzo ostaculo, il quale il suo salire impediva) «che di tutte
brame Pareva carca nella sua magrezza». Brama è propriamente il
bestiale appetito di manicare, peroché oltremodo pieno di voler si
mostra; lo quale essere in questa lupa testimonia la magrezza sua,
della quale noi prosumiamo quello animale, in cui la veggiamo, esser
male stato pasciuto, e per conseguente magro e indi bramoso. «Che
molte genti fe’ giá viver grame», cioè dolorose. «Questa» lupa
«mi porse tanto di gravezza», cioè di noia, «Colla paura ch’uscía
di sua vista», cioè era sí orribile nello aspetto, che ella porgea
paura altrui, «Ch’io perdei la speranza dell’altezza», cioè di
poter pervenire alla sommitá del monte, sopra le cui spalle avea
veduti i raggi del sole.
«E quale è que’ che
volentieri acquista». Per questa comparazione ne dimostra l’autore
qual divenisse per lo impedimento pórtogli da questa bestia,
dicendo: «E quale è que’», o mercatante o altro, «che volentieri
acquista», cioè guadagna, «E giugne ‘l tempo che perder lo face»,
qual che sia
la cagione, «Che ‘n
tutti i suoi pensier», ne’ quali si solea guadagnando rallegrare,
perdendo «piange e s’attrista; Tal mi fece la bestia senza pace»,
cioè questa lupa, la qual dice esser animale senza pace, percioché
la notte e ‘l dí sempre sta attenta e sollecita a poter predare e
divorare: «Che venendomi incontro», come soglion fare le bestie che
vogliono altrui assalire, «a poco a poco», tirandom’io indietro,
«Mi ripignea lá ove il sol tace», cioè nella oscura selva, della
quale io era uscito. Ed è questo, cioè «dove ‘l sol tace»,
improprio parlare, e non l’usa l’autore pur qui, ma ancora in altre
parti in questa opera, sí come nel canto quinto quando dice: «I’
venni in luogo d’ogni luce muto». Assai manifesta cosa è che il
sole non parla, né similemente alcuno luogo, de’ quai dice qui che
l’un tace, cioè il sole, e il luogo è muto di luce; e sono questi
due accidenti, il tacere e l’esser muto, propriamente dell’uomo
(quantunque il Vangelo dica che uno avea un dimonio addosso, e quello
era muto): ma questo modo di parlare si scusa per una figura, la qual
si chiama «acirologia». Vuole adunque dir qui l’autore, che la
paura, ch’egli avea di questo animale, il ripignea lá dove il sol
non luce, cioè in quella oscuritá, la quale egli disiderava di
fuggire.
«Mentre ch’io rovinava
in basso loco». Qui dissi si cominciava la seconda parte di questo
canto, nella quale l’autor dimostra il soccorso venutogli ad aiutarlo
uscire di quella valle. E fa in questa parte sei cose: egli
primieramente chiede misericordia a Virgilio quivi apparitogli,
quantunque nol conoscesse; appresso, senza nominarsi, per piú segni
dimostra Virgilio chi egli è; poi l’autore, estollendo con piú
titoli Virgilio, s’ingegna di accattare la benivolenza sua, e
mostragli di quello che egli teme; oltre a ciò, Virgilio gli
dichiara la natura di quella lupa, e il disfacimento di lei,
consigliandolo della via, la quale dee tenere; appresso, l’autore
priega Virgilio che gli mostri quello che detto gli ha; ultimamente,
movendosi Virgilio, l’autore il segue. E segue la seconda quivi: «Ed
egli a me»; la terza quivi: «Or se’ tu quel Virgilio»; la quarta
quivi: «A te conviene»; la quinta quivi: «Ed io a lui: – Poeta»;
la sesta quivi: «Allor si mosse».
Dice adunque nella
prima: «Mentre ch’io rovinava», cioè tornava, «in basso loco»,
cioè nella valle della quale era cominciato a partire, «Dinanzi
agli occhi mi si fu offerto Chi per lungo silenzio parea fioco». Il
che avviene, o perché da alcuna secchezza intrinsica è sí
rasciutta la via del polmone, dal quale la prolazione si muove, che
le parole non ne possono uscire sonore e chiare, come fanno quando in
quella via è alquanta d’umiditá rivocata; o è talvolta che il
lungo silenzio, per alcun difetto intrinsico dell’uomo, provoca tanta
umiditá viscosa in questa via, che similemente rende l’uomo meno
espeditamente parlante, infino a tanto che o rasciutta o sputata non
è. [Ma non credo l’autore questo intenda qui, ma piú tosto, per
difetto delli nostri ingegni, i libri di Virgilio essere
intralasciati giá e tanto tempo, che la chiara fama di loro è quasi
perduta o divenuta piú oscura che esser non solea.]
[«Quando vidi costui»,
cioè Virgilio apparitogli dinanzi, «pel gran diserto», cioè per
quella tenebrosa valle, meritamente chiamata dall’autore «diserto»,
sendo sí aspra, come di sopra ha detto, e priva di luce; «-Miserere
di me – gridai a lui». Sí come molte volte gl’impauriti e
sbigottiti usano, per essere del loro avvenuto caso soccorsi,
gridare; tale l’autore, nella paura presa della orribile bestia, fece
alla veduta di Virgilio, umilmente verso di lui gridando: – Abbi
misericordia di me, – quasi dicendo: – Aiutami, – come piú innanzi
si dichiarerá.]
«- Qual che tu sii, od
ombra od uomo certo». – Non conosceva quivi l’autore, per lo
impedimento della paura, se costui, che apparito gli era, era piú
tosto spirito che uomo o uomo che spirito; e in questo parlare in
forse il chiama «ombra», il qual è vocabolo usitatissimo de’
poeti; e questo muove da ciò, che altrimenti prendere non si
possono, che l’uomo possa pigliare l’ombra che alcun corpo faccia. E,
percioché questa materia, cioè che cosa sia l’ombra ovvero anima, e
come l’ombra prenda quel corpo, il quale agli occhi nostri appare che
ella abbia, quando talvolta n’appaiono, si tratterá, sí come in
luogo ciò richiedente, nel venticinquesimo canto del Purgatorio,
non curo qui di farne piú luogo sermone.
«Risposemi: – Non
uom». In questa seconda particella si dimostra chi costui fosse che
apparito gli era; e questo si dimostra per sei cose spettanti al
domandato. Dice adunque «non uomo», a dimostrare
che l’uomo è composto d’anima e di corpo, e però, separato l’uno
dall’altro, non rimane uomo, né il corpo per se medesimo, né
l’anima per sé; e in quanto dice «uomo giá fui», mostra sé
essere spirito giá stato congiunto con corpo.
«E li parenti miei».
È colui che si manifesta qui, Virgilio; e prima si manifesta dalla
regione nella quale nacque, in quanto dice, «furon lombardi». Dove
è da sapere che Virgilio fu figliuolo di Virgilio lutifigolo, cioè
d’uomo il quale faceva quell’arte, cioè di comporre diversi vasi di
terra; e la madre di lui, secondo che dice Servio Sopra
l’«Eneida»,
quasi nel principio, ebbe nome Maia. Dice adunque che costoro furono
lombardi, cosí dinominati da Lombardia, provincia situata tra ‘l
monte Appennino e gli Alpi e ‘l mare Adriano; e avanti che Lombardia
si chiamasse, fu chiamata Gallia, da’ galli che quella occuparono e
cacciaronne i toscani; e prima che Gallia si chiamasse, quella parte
dove è Mantova, fu chiamata Venezia, da quegli èneti che seguirono
Antenore troiano dopo il disfacimento di Troia. La cagione perché
Lombardia si chiama, è che, partitisi certi popoli dell’isola di
Scandinavia, la quale è tra ponente e tramontana in Oceano, chiamati
dalle barbe grandi e da’ capegli, li quali s’intorcevano davanti al
viso, «longobardi», e sotto diversi signori, e dopo lunghissimo
tempo in varie regioni venendo, dimorati, si fermarono in Ungheria, e
in quella stettero nel torno di quarantasei anni; poi, a’ tempi di
Giustiniano imperadore, essendo patricio in Italia per lui un suo
eunuco, chiamato Narsete, e non essendo bene nella grazia di Sofia,
moglie di Giustiniano, ed essendo da lei minacciato che richiamare il
farebbe e metterebbelo a filare colle femmine sue, sdegnato rispose
che, s’ella sapesse filare, al bisogno le sarebbe venuto, percioché
egli ordirebbe tal tela, ch’ella non la fornirebbe di tessere in vita
sua; e carichi molti somieri di diversi frutti, con una solenne
ambasciata gli mandò in Ungheria ad Albuino, il quale allora era re
de’ longobardi, mandandolo pregando che egli co’ suoi popoli
venissero ad abitare quel paese, ove quegli frutti nascevano.
Albuino, che giá in Gallia era stato, ed era amico di Narsete,
lasciata Ungheria a certi popoli vicini, li quali si chiamavano
ávari, in Gallia con tutti i suoi maschi e femmine, piccoli e
grandi, ne venne, e con la loro forza, e col consiglio e aiuto di
Narsete, tutto il paese occuparono; e, toltogli il nome antico, da sé
lo dinominarono Lombardia, il qual nome infino a’ nostri dí
persevera.
«Mantovani, per
patria, amendui». Mantova fu giá notabil cittá; ma, percioché
d’essa si tratterá nel ventesimo canto di questo pienamente, qui non
curo di piú scriverne.
«Nacqui sub Iulio,
ancor che fosse tardi». Qui dimostra Virgilio chi egli fosse dal
tempo della sua nativitá. E’ pare che l’autore voglia lui esser nato
vicino al fine della dettatura di Giulio Cesare, la qual cosa non
veggo come esser potesse; percioché se al fine della dettatura di
Giulio nato fosse, ed essendo cinquantadue anni vissuto come fece,
sarebbe Cristo nato avanti la sua morte: dove Eusebio, in libro De
temporibus,
scrive lui essere morto l’anno dello ‘mperio d’Ottaviano Cesare…,
che fu avanti la nativitá di Cristo da quattordici o quindici anni;
e il predetto Eusebio scrive, nel detto libro, della sua nativitá
cosí: «Virgilius
Maro in vico Andes, haud longe a
Mantua
natus, Crasso et Pompeio consulibus»;
il quale anno fu avanti che Giulio Cesare occupasse
la
dettatura (la qual tenne quattro anni e parte del quinto) bene venti
anni.
«E vissi a Roma».
Certa cosa è che Vergilio, avendo lo ingegno disposto e acuto agli
studi, primieramente studiò a Cremona, e di quindi n’andò a Milano,
lá dov’egli studiò in medicina; e, avendo lo ‘ngegno pronto alla
poesia, e vedendo i poeti esser nel cospetto d’Ottaviano accetti, se
n’andò a Napoli, e quivi si crede sotto Cornuto poeta udisse
alquanto tempo. E quivi similmente dimorando, sí come egli medesimo
testimonia nel fine del libro, avendo prima composto la Buccolica,
e racquistato per opera d’Ottaviano i campi paterni, li quali a
Mantova erano stati
conceduti
ad un centurione chiamato Arrio, compose la Georgica.
Poi, sí come Macrobio in libro Saturnaliorum
scrive,
mostra mentre che scrisse l’Eneida
si
stesse in villa: il dove non dice, ma, per
quello
che delle sue ossa fece Ottaviano, si presume che questa villa fosse
propinqua a Napoli, e prossimana al promontorio di Posillipo, tra
Napoli e Pozzuolo. [E portò tanto amore a quella cittá che, essendo
solennissimo astrolago, vi fece certe cose notabili con l’aiuto della
strologia; percioché, essendo
Napoli fieramente infestato da continua moltitudine di mosche, di
zenzare e di tafani, egli vi fece una mosca di rame, sotto sí fatta
costellazione che, postala sopra il muro della cittá, verso quella
parte onde le mosche e’ tafani da un padule indi vicino, vi venivano,
mai, mentre star fu lasciata, in Napoli non entrò né mosca né
tafano. Fecevi similmente un cavallo di bronzo, il quale avea a far
sano ogni cavallo che avesse i dolori, o altra naturale infermitá,
avendo tre volte menatolo d’intorno a questo. Fece, oltre a questo,
due teste di marmo intagliate, delle quali l’una piagnea e l’altra
ridea, e posele ad una porta, la quale si chiamava porta Nolana,
l’una dall’un lato della porta, e l’altra dall’altro; ed avevan
questa proprietá, che chi veniva per alcuna sua vicenda a Napoli, e
disavvedutamente entrava per quella porta, se egli passava dalla
parte della porta dove era posta quella che piagnea, mai non potea
recare a fine quello per che egli venuto v’era, e se pure il recava,
penava molto, e con gran noia e fatica il faceva; se passava
dall’altra parte, dove era quella che rideva, di presente spacciava
la bisogna sua.] E però credo che egli vivesse poco a Roma, ma che
egli talvolta vi usasse, questo è credibile.
«Sotto il buono
Augusto», cioè Ottaviano Cesare, il quale, essendo per nazione
della gente Ottavia, anticamente cittadina di Velletri, d’Ottavio
padre e di Giulia, sirocchia di Giulio Cesare, nacque; il quale poi
Giulio Cesare s’adottò in figliuolo e per testamento gli lasciò
questo nome di Cesare. Poi, avendo egli perseguitati e disfatti tutti
coloro li quali avevano congiurato contro a Giulio Cesare, e finite
nella morte d’Antonio e di Cleopatra le guerre cittadine, e molte
nazioni aggiunte allo ‘mperio di Roma; ed essendo a Roma venuti
ambasciadori indiani e di Scizia, genti ancora appena da’ romani
conosciute, a domandare l’amicizia e la compagnia sua e de’ romani;
e, oltre a ciò, avendo i parti renduti i regni romani tolti a Crasso
e ad Antonio; parendo a’ romani questo essere maravigliosa cosa, il
vollero, secondo che alcuni dicono, adorare per iddio: la qual cosa
egli rifiutò del tutto. E nondimeno, avendogli tutto il governo
della republica commesso, e tenendo ragionamento di doverlo
cognominare Romolo, per consiglio di Numacio Planco senatore fu
cognominato Augusto, cioè accrescitore. Ma, percioché in molte
parti di questo libro si fa di lui menzione, per questa credo assai
sia detto. Chiamalo il «buon Augusto» l’autore, percioché,
quantunque crudel giovane fosse, nella etá matura diventò umano e
benigno prencipe e buono per la republica.
«Nel tempo degl’iddii
falsi e bugiardi». Sono falsi, non veri iddii, «quia
dii gentium
daemonia»:
«bugiardi» gli chiama, percioché il demonio, sí come e’ medesimo
in altra parte dice, è
padre
di menzogna.
[Lez.III]
«Poeta fui». Apresi
ancora qui Virgilio per questo nome di «poeta» piú all’autore;
[intorno al qual nome, chiamato da molti e conosciuto da pochi,
estimo sia alquanto da estendersi. È dunque da vedere donde avesse
la poesia e questo nome origine, qual sia l’uficio del poeta, e che
onore sia retribuito al buon poeta. Estimaron molti, forse piú da
invidia che da altro sentimento ammaestrati, questo nome «poeta»
venire da un verbo detto «poio
pois»,
il quale, secondo che li grammatici vogliono, vuol tanto dire, quanto
«fingo
fingis»:
il qual «fingo»
ha piú significazioni; percioché egli sta per «comporre», per
«ornare», per «mentire» e per altri significati. Quegli adunque
che dall’avvilire altrui credon sé esaltare, dissono e dicono che
dal detto verbo «poio»
viene questo nome «poeta»; e percioché quello suona «poio»
che «fingo»,
lasciati stare gli altri significati di «fingo»,
e preso quel solo nel quale egli significa «mentire», conchiudendo,
vogliono che «poeta» e «mentitore» sieno una medesima cosa; e per
questo sprezzano e avviliscono e annullano in quanto possono i poeti,
ingegnandosi, oltre a questo, di scacciargli e di sterminargli del
mondo, nel cospetto del non intendente vulgo gridando: i poeti per
autoritá di Platone dover esser cacciati delle cittá. E, oltre a
ciò, prendendo d’una pistola di Geronimo a Damaso papa De
filio prodigo
questa parola: «Carmina
poëtarum sunt cibus daemoniorum»;
quasi armati dell’arme d’Achille, con ardita fronte contra i poeti
tumultuosamente insultano; aggiugnendo a’ loro argomenti le parole
della Filosofia a Boezio, dove dice: – «Quis
– inquit – has scenicas meretriculas ad hunc aegrum permisit
accedere, quae dolores eius
non modo nullis remediis foverent, verum dulcibus insuper alerent
venenis?»
– E,
se
piú alcuna cosa truovano, similmente, come contro a nemici della
repubblica, contro ad essi l’oppongono.]
[Ma, percioché a
questi cotali a tempo sará risposto, vengo alla prima parte, cioè
donde avesse origine il nome del «poeta». Ad evidenza della qual
cosa è da sapere, secondo che il mio padre e maestro messer
Francesco Petrarca scrive a Gherardo suo fratello, monaco di Certosa,
gli antichi greci, poiché per l’ordinato movimento del cielo e
mutamento appo noi de’ tempi dell’anno, e per altri assai evidenti
argomenti, ebbero compreso uno dover essere colui il quale con
perpetua ragione dá ordine a queste cose, e quello essere Iddio, e
tra loro gli ebbero edificati templi, e ordinati sacerdoti e
sacrifici; estimando di necessitá essere il dovere nelle oblazioni
di questi sacrifici dire alcune parole, nelle quali le laudi degne a
Dio, e ancora i lor prieghi a Dio si contenessero; e conoscendo non
esser degna cosa a tanta deitá dir parole simili a quelle che noi,
l’uno amico con l’altro, familiarmente diciamo o il signore al servo
suo: costituirono che i sacerdoti, li quali eletti e sommi uomini
erano, queste parole trovassero. Le quali questi sacerdoti trovarono;
e, per farle ancora piú strane dall’usitato parlare degli uomini,
artificiosamente le composero in versi. E perché in quelle si
contenevano gli alti misteri della divinitá, accioché per troppa
notizia non venissero in poco pregio appo il popolo, nascosero quegli
sotto fabuloso velame. Il qual modo di parlare appo gli antichi greci
fu appellato «poetes»;
il qual vocabolo suona in latino, «esquisito parlare»; e da
«poetes»
venne il nome del «poeta», il qual nulla altra cosa suona che
«esquisito parlatore». E quegli, che prima trovarono appo i greci
questo, furono Museo, Lino e Orfeo. E, perché ne’ lor versi
parlavano delle cose divine, furono appellati non solamente «poeti»,
ma «teologi»; e per le opere di costoro dice Aristotile che i primi
che teologizzarono furono i poeti. E, se bene si riguarderá alli
loro stili, essi non sono dal modo del parlare differenti da’
profeti, ne’ quali leggiamo, sotto velamento di parole nella prima
apparenza fabulose, l’opere ammirabili della divina potenza. È vero
che coloro, spirati dallo Spirito santo, quel dissero che si legge,
il quale credo tutto esser vero, sí come da verace dettatore stato
dettato; quello, che i poeti finsero, fecero per forza d’ingegno, e
in assai cose non il vero, ma quello che essi secondo i loro errori
estimavan vero, sotto il velame delle favole ascosero. Ma i poeti
cristiani, de’ quali sono stati assai, non ascosero sotto il loro
fabuloso parlare alcuna cosa non vera, e massimamente dove fingessero
cose spettanti alla divinitá e alla fede cristiana: la qual cosa
assai bene si può cognoscere per la Buccolica
del mio eccellente maestro messer Francesco Petrarca, la quale chi
prenderá e aprirá, non con invidia, ma con caritevole discrezione,
troverá sotto alle dure cortecce salutevoli e dolcissimi
ammaestramenti; e similmente nella presente opera, sí come io spero
che nel processo apparirá. E cosí si cognoscerá i poeti non essere
mentitori, come gl’invidiosi e ignoranti li fanno.]
[Appresso l’uficio del
poeta è, sí come per le cose sopradette assai chiaro si può
comprendere, questo nascondere la veritá sotto favoloso e ornato
parlare: il che avere sempre fatto i valorosi poeti si troverá da
chi con diligenza ne cercherá. Ma ciò che io ora ho detto, è da
intendere sanamente. Io dico «la veritá», secondo l’oppenione di
quegli tali poeti; percioché il poeta gentile, al quale niuna
notizia fu della cattolica fede, non poté la veritá di quella
nascondere nelle sue fizioni, nascosevi quelle che la sua erronea
religione estimava esser vere; percioché, se altro che quello, che
vero avesse istimato, avesse nascoso, non sarebbe stato buon poeta.]
[E, percioché i poeti
furono estimati non solamente teologi, ma eziandio esaltatori
dell’opere de’ valorosi uomini, per li quali li stati de’ regni,
delle province e delle cittá si servano; e, oltre a ciò, quegli ne’
lor versi di fare eterni si sforzarono; e similemente furono
grandissimi commendatori delle virtú e vituperatori de’ vizi:
estimarono lor dovere estollere con quel singulare onore che i
principi triunfanti per alcuna vittoria erano onorati; cioè che dopo
la vittoria d’alcuna loro laudevole impresa, in comporre alcun
singular libro, essi fossero coronati di alloro, a dimostrare che,
come l’alloro serva sempre la sua verdezza, cosí sempre era da
conservare la lor fama. Le fatiche de’ quali, se molto laudevoli non
fossero, non è credibile che il senato di Roma, al qual solo
apparteneva il concedere, a cui degno ne reputava, la laurea, avesse
quella ad un poeta conceduta, ch’egli concedette ad
Affricano, a Pompeo, a Ottaviano e agli altri vittoriosi prencipi e
solenni uomini: la qual cosa per avventura non considerano coloro che
meno avvedutamente gli biasimano. E se per avventura volesson dire: –
Noi gli biasimiamo perché furon gentili, le scritture de’ quali sono
da schifare sí come erronee; – direi che da tollerar fosse, se
Platone, Aristotile, Ipocrate, Galieno, Euclide, Tolomeo e altri
simili assai, cosí gentili come i poeti furono, fossero similemente
schifati; il che non avvenendo, non si può forse altro dire se non
che singular malivolenzia il faccia fare.]
[Ma
da rispondere è alle obbiezioni di questi valenti uomini fatte
contro a’ poeti.]
[Dicono adunque,
aiutati dall’autoritá di Platone, che i poeti sono da esser cacciati
delle cittá, quasi corrompitori de’ buoni costumi. La qual cosa
negare non si può che Plato nel libro della sua Republica
non
lo scriva; ma le sue parole non bene intese da questi cotali fanno
loro queste cose
senza
sentimento dire. Fu ne’ tempi di Platone, e avanti, e poi perseverò
lungamente, ed eziandio in Roma, una spezie di poeti comici, li
quali, per acquistare ricchezze e il favore del popolo, componevan
lor commedie, nelle quali fingevano certi adultèri e altre disoneste
cose, state perpetrate dagli uomini, li quali la stoltizia di quella
etá aveva mescolati nel numero degl’iddii; e queste cotal commedie
poi recitavano nella scena, cioè in una piccola casetta, la quale
era constituita nel mezzo del teatro, stando dintorno alla detta
scena tutto il popolo, e gli uomini e le femmine, della cittá ad
udire. E non gli traeva tanto il diletto e il disiderio di udire,
quanto di vedere i giuochi che dalla recitazione del commedo
procedevano; i quali erano in questa forma: che una spezie di
buffoni, chiamati «mimi», l’uficio de’ quali è sapere contraffare
gli atti degli uomini, uscivano di quella scena, informati dal
commedo in quegli abiti ch’erano convenienti a quelle persone, gli
atti delle quali dovevano contraffare, e questi cotali atti, onesti o
disonesti che fossero, secondo che il commedo diceva, facevano. E,
percioché spesso vi si facevano intorno agli adultèri, che i
commedi recitavano, di disoneste cose, si movevano gli appetiti degli
uomini e delle femmine, riguardanti, a simili cose disiderare e
adoperare; di che i buon costumi e le menti sane si corrompevano, e
ad ogni disonestá discorrevano. Perciò, accioché questo cessasse,
Platone, considerando, se la republica non fosse onesta, non poter
consistere, scrisse, e meritamente, questi cotali dovere essere
cacciati delle cittá. Non adunque disse d’ogni poeta. Chi fia di sí
folle sentimento, che creda che Platone volesse che Omero fosse
cacciato della cittá, il quale è dalle leggi chiamato «padre
d’ogni virtú»? chi Solone, che nello estremo de’ suoi dí, ogni
altro studio lasciato, ferventissimamente studiava in poesia? Le
leggi del qual Solone, non solamente lo scapestrato vivere degli
ateniesi regolarono, ma ancora composero i costumi de’ romani, giá
cominciati a divenire grandi. Chi crederá ch’egli avesse cacciato
Virgilio, chi Orazio o Giovenale, acerrimi riprenditori de’ vizi? chi
crederá ch’egli avesse cacciato il venerabile mio maestro messer
Francesco Petrarca, la cui vita e i cui costumi sono manifestissimo
esemplo d’onestá? chi il nostro autore, la cui dottrina si può dire
evangelica? E se egli questi cosí fatti poeti cacciasse, cui
riceverá egli poi per cittadino? Sardanapalo, Tolomeo Evergete,
Lucio Catellina, Neron cesare? Ma in veritá questa obbiezione
potevano essi o potrebbono agevolmente tacere. Non è egli sí gran
calca fatta da’ poeti onesti d’abitare nelle cittá: Omero abitò il
piú per li luoghi solitari d’Arcadia; Virgilio, come detto è, in
villa; messer Francesco Petrarca a Valchiusa, luogo separato d’ogni
usanza d’uomini; e, se investigando si verrá, questo medesimo si
troverá di molti altri.]
[Dicono oltre a questo,
le parole scritte da san Girolamo: «Daemonum
cibus sunt carmina
poëtarum».
Le quali parole senza alcun dubbio son vere. Ma chi avesse in questa
medesima pístola
letto,
avrebbe potuto vedere di quali versi san Girolamo avesse inteso; e
massimamente nella figura, la qual pone, d’una femmina non giudea, ma
prigione de’ giudei, la qual dice che, avendo raso il capo, e posti
giú i vestimenti suoi, e toltesi l’unghie e i peli, potersi ad uno
ismaelita per via di matrimonio congiugnere: forse con minor fervore,
avendo la figura intesa, avrebbero quelle parole contro a’ poeti
allegate. E, accioché questo piú apertamente s’intenda, non vuole
altro la figura posta da san Girolamo, se non, per quegli atti che la
scrittura di Dio dice dover fare, se non, una purgazione del
paganesimo o d’altra setta fatta, potere qualunque femmina nel
matrimonio venir de’ giudei: e cosí, purgate certe inconvenienze del
numero de’ poeti, restare i versi de’ poeti non come cibo di dimonio, ma
come angelico potersi da’ fedeli cristiani usare. E questa purgazione
per la grazia di Dio si può dir fatta, poi che Costantino
imperadore, battezzato da san Silvestro, diede luogo al lume della
veritá; percioché per la santitá e sollecitudine dei papi e degli
altri ecclesiastici pastori, scacciando i sopradetti comici e ogni
disonesto libro ardendo, par questa poesia antica purgata, e potersi,
ne’ libri autorevoli e laudevoli rimasi, congiugnere con ogni
cristiano.]
[Non dico perciò (che
è quello, a che san Girolamo nella predetta pistola attende molto)
che il prete o il monaco, o qual altro religioso voglian dire, al
divino oficio obbligato, debba il breviario posporre a Virgilio; ma,
avendo con divozione e con lagrime il divino oficio detto, non è
peccare in Spirito santo il vedere gli onesti versi di qualunque
poeta. E, se questi cotali non fossero piú religiosi o piú
dilicati, che stati sieno i santi dottori, essi ritroverebbero questo
cibo, il quale dicono de’ demòni, non solamente non essere stato
gittato via o messo nel fuoco, come alcuni per avventura vorrebbono,
ma essere stato con diligenzia servato, trattato e gustato da
Fulgenzio, dottore e pontefice cattolico, sí come appare in quello
libro, il quale esso appella delle Mitologiae,
da lui con elegantissimo stilo scritto, esponendo le favole de’
poeti. E similmente troverebbono sant’Agostino, nobilissimo dottore,
non avere avuto in odio la poesia, né i versi de’ poeti, ma con
solerte vigilanza quegli avere studiati e intesi: il che se negare
alcun volesse, non puote; conciosiacosaché spessissime volte questo
santo uomo ne’ suoi volumi induca Virgilio e gli altri poeti; né
quasi mai nomina Virgilio senza alcun titolo di laude.]
[Similmente e Geronimo,
dottore esimio e santissimo uomo, maravigliosamente ammaestrato in
tre linguaggi, il quale gli ignoranti si sforzano di tirare in
testimonio di ciò che essi non intendono, con tanta diligenzia i
versi de’ poeti studiò e servò nella memoria, che quasi paia nulla
nelle sue opere non avere senza la testimonianza loro fermata. E, se
essi non credono questo, veggano, tra gli altri suoi libri, il
prologo del libro il quale egli chiama Hebraicarum quaestionum,
e considerino se quello è tutto terenziano. Veggano se esso
spessissime volte, quasi suoi assertori, induce Virgilio e Orazio; e
non solamente questi, ma Persio e gli altri minori poeti. Leggano,
oltre a questo, quella facundissima epistola da lui scritta a
sant’Agostino, e cerchino se in essa l’ammaestrato uomo pone i poeti
nel numero de’ chiarissimi uomini, li quali essi si sforzano di
confondere.]
[Appresso, se essi nol
sanno, leggano negli Atti
degli apostoli
e troveranno se Paolo, vaso d’elezione, studiò i versi poetici, e
quegli conobbe e seppe. Essi troveranno lui non avere avuto in
fastidio, disputando nello areopago contro la ostinazione degli
ateniesi, d’usare la testimonianza de’ poeti; e in altra parte avere
usato il testimonio di Menandro comico poeta, quando disse:
«Corrumpunt
mores bonos colloquia mala».
E similmente, se io bene mi ricordo, egli allega un verso di
Epimenide poeta, il quale attissimamente si potrebbe dire contro a
questi sprezzatori de’ poeti, quando dice: «Cretenses
semper mendaces, malae bestiae, ventres pigri».
E cosí colui, il quale fu rapito insino al terzo cielo, non estimò
quello, che questi piú santi di lui vogliono, cioè esser peccato o
abbominevole cosa aver letti e apparati i versi de’ poeti. Oltre a
tutto questo, cerchino quello che scrisse Dionisio areopagita,
discepolo di Paolo e glorioso martire di Gesú Cristo, nel libro il
quale compose Della
celeste gerarchia.
Esso dice e proseguita e pruova la divina teologia usare le poetiche
fizioni, dicendo intra l’altre cose cosí: «Etenim
valde artificialiter
theologia
poëticis sacris formationibus, in non figuratis intellectibus usa
est, nostram, ut dictum est, animam relevans, et ipsi propria et
coniecturali reductione providens, et ad ipsum reformans anagogicas
sanctas Scripturas»;
ed altre cose ancora assai, le quali a questa somma seguitano. E
ultimamente,
accioché io lasci star gli altri, li quali io potrei inducere
incontro a questi nemici del poetico nome, non esso medesimo Gesú
Cristo, nostro salvadore e signore, nella evangelica dottrina parlò
molte cose in parabole, le quali son conformi in parte allo stilo
comico? Non esso medesimo incontro a Paolo, abbattuto dalla sua
potenza in terra, usò il verso di Terenzio, cioè: «Durum
est tibi
contra
stimulum calcitrare»?
Ma sia di lungi da me che io creda Cristo queste parole, quantunque
molto
davanti fosse, da Terenzio prendesse. Assai mi basta a confermare la
mia intenzione, il nostro Signore aver voluto alcuna volta usare la
parola e la sentenzia prolata giá per la bocca di Terenzio, accioché egli appaia
che del tutto i versi de’ poeti non sono cibo del diavolo. Che
adunque diranno questi li quali cosí presuntuosamente s’ingegnano di
scalpitare il nome poetico? Certo, al giudicio mio, e’ non gli
possono giustamente dannare, se non che co’ versi poetici non si
guadagnan danari, che credo sia quello che in tanta abbominazione gli
ha loro messi nel petto, perché a’ loro desidèri non sono
conformi.]
[Resta a spezzare
l’ultima parte delle loro armi, le quali in gran parte deono esser
rotte, se a quel si riguarda che alla sentenza di Platone fu risposto
di sopra. Essi vogliono che la filosofia abbia cacciate le muse
poetiche da Boezio, sí come femmine meretrici e disoneste, e i
conforti delle quali conducono chi l’ascolta, non a sanitá di mente,
ma a morte. Ma quel testo, male inteso, fa errare chi reca quel testo
in argomento contro a’ poeti. Egli è senza alcun dubbio vero la
filosofia esser venerabile maestra di tutte le scienze e di ciascuna
onesta cosa; e in quello luogo, dove Boezio giaceva della mente
infermo, turbato e commosso dello esilio a gran torto ricevuto, egli,
sí come impaziente, avendo per quello cacciata da sé ogni
conoscenza del vero, non attendeva colla considerazione a trovare i
rimedi opportuni a dover cacciar via le noie che danno gl’infortuni
della presente vita; anzi cercava di comporre cose, le quali non
liberasson lui, ma il mostrassero afflitto molto, e per conseguente
mettessero compassion di lui in altrui. E questa gli pareva sí soave
operazione che (senza guardare che egli in ciò faceva ingiuria alla
filosofica veritá, la cui opera è di sanare, non di lusingare il
passionato), che esso, con la dolcezza delle lusinghe del potersi
dolere, insino alla sua estrema confusione avrebbe in tale impresa
proceduto; e, peroché questo è esercizio de’ comici di sopra detti
(a fine di guadagnare), di lusingare e di compiacere alle inferme
menti, chiama la Filosofia queste muse «meretriculae
scenicae»,
non perché ella creda le muse esser meretrici, ma per vituperare con
questo vocabolo l’ingegno dell’artefice che nelle disoneste cose le
induce. Assai è manifesto non esser difetto del martello fabbrile,
se il fabbro fa piú tosto con esso un coltello, col quale s’uccidono
gli uomini, che un bómere, col quale si fende la terra, e rendesi
abile a ricevere il seme del frutto, del quale noi poscia ci
nutrichiamo. E che le Muse sieno qui istrumento adoperante secondo il
giudicio dell’artefice, e non secondo il loro, ottimamente il
dimostra la Filosofia, dicendo in quel medesimo luogo che è disopra
mostrato, quando dice: – Partitevi di qui, Serene dolci infino alla
morte, e lasciate questo infermo curare alle mie muse, cioè alla
onestá e alla integritá del mio stilo, nel quale mediante le mie
muse io gli mostrerò la veritá, la quale egli al presente non
conosce, sí come uomo passionato e afflitto. – Nelle quali parole si
può comprendere non essere altre muse, quelle della filosofia, che
quelle de’ comici disonesti e degli elegiaci passionati, ma essere
d’altra qualitá l’artefice, il quale questo istrumento dee
adoperare. Non adunque nel disonesto appetito di queste muse, le
quali chiama la Filosofia «meretricule», sono vituperate le muse,
ma coloro che in disonesto esercizio l’adoperano.]
[Restavano sopra la
presente materia a dir cose assai, ma percioché in altra parte piú
distesamente di questo abbiamo scritto, basti questo averne detto al
presente, e alla nostra impresa ne ritorniamo. Fu adunque Virgilio,
poeta, e non fu popolar poeta, ma solennissimo, e le sue opere e la
sua fama chiaro il dimostrano agl’intendenti.]
[Lez.
IV]
«E cantai». Usa
Virgilio questo vocabolo in luogo di «composi [versi»; e la ragione
in parte si dimostrò, dove di sopra si disse perché «cantiche» si
chiamano l’opere de’ poeti; alla quale si puote aggiugnere una usanza
antica de’ greci, dalla qual credo non meno esser mossa la ragione
perché «cantare» si dicono i versi poetici, che da quella che giá
è detta. E l’usanza era questa: ch’e’ nobili giovani greci si
reputavano quasi vergogna il non saper cantare e sonare, e questi
loro canti e suoni usavano molto ne’ lor conviti. E non erano li lor
canti di cose vane, come il piú delle canzoni odierne sono, anzi
erano versi poetici, ne’ quali d’altissime materie o di laudevoli
operazioni da valenti uomini adoperate, sí come noi possiam vedere
nella fine del primo dell’Eneida
di Virgilio, dove, dopo la notabile cena di Didone fatta ad Enea,
Iopa, sonando la cetera, canta gli errori del sole e della luna, e la
prima generazione degli uomini e degli altri animali, e donde fosse
l’origine delle piove e del fuoco, e
altre simili cose: dal quale atto poté nascere il dirsi che i
poetici versi si cantino. E per conseguente Virgilio, dell’opere da
sé composte dice «cantai». Il qual non solamente compuose
l’Eneida,
ma molti altri libri, si come, secondoché Servio scrive, l’Ostirina,
l’Ethna,
il Culice,
la
Priapea,
il
Cathalecthon,
le
Dire,
gli
Epigrammati,
la
Copa,
il
Moreto e
altri; ma sopra
tutti
fu l’Eneida,
la quale in laude d’Ottaviano compuose. Poi, partendosi da Napoli, e
andandone ad Atene ad udir filosofia, non avendo corretto il detto
Eneida,
quello lasciò a due suoi amici valenti poeti, cioè a Tucca e a
Varrone, con questo patto che, se avvenisse che egli avanti la
tornata sua morisse, che essi il dovessero ardere; per che, essendo a
Brandizio morto, senza potere esser pervenuto ad Atene, e Tucca e
Varrone sappiendo questo libro in laude di Ottaviano essere stato
composto, e che esso il sapeva, temettero d’arderlo senza coscienza
d’Ottaviano; e perciò, raccontata a lui la intenzion di Virgilio,
ebbero in comandamento di non doverlo ardere per alcuna cagione, ma
il correggessero, con questo patto, che essi alcuna cosa non
v’aggiugnessero, e, se vi trovasser cosa da doverne sottrarre,
potessero. Il che essi con fede fecero. Poi Ottaviano, fatte recare
le sue ossa da Brandizio a Napoli, vicino al luogo dove gli era
dilettato di vivere, il fece seppellire, cioè infra ‘l secondo
miglio da Napoli, lungo la via che si chiamava Puteolana, accioché
esso quivi giacesse morto, dove gli era dilettato di vivere.]
«Di quel giusto
Figliuol d’Anchise», cioè d’Enea, del quale Virgilio nel primo
dell’Eneida
fa ad Ilioneo dire alla reina Dido queste parole:
Rex
erat Aeneas nobis, quo iustior alter
nec
pietate fuit, nec bello maior et armis,
nelle
quali testimonia Enea essere stato giustissimo. Anchise fu della
schiatta de’ re di Troia, figliuolo di Capis, figliuolo di Assaraco,
figliuolo di Troio, e fu padre d’Enea, come qui si dice, «che venne
da Troia». Troia è una provincia nella minore Asia, vicina
d’Ellesponto, alla quale è di ver’ ponente il mare Egeo, dal mezzodí
Meonia, da levante Frigia maggiore, da tramontana Bitinia, cosí
dinominata da Troio, re di quella. «Poi che il superbo Ilión fu
combusto». Ilione fu una cittá di Troia, cosí nominata da Ilio, re
di Troia, e fu la cittá reale, e quella, secondo che Pomponio Mela
scrive nel primo della sua Cosmografia,
che fu da’ greci assediata, e ultimamente presa e arsa e disfatta.
Chiamalo «superbo» dall’altezza dello stato del re Priamo e de’
suoi predecessori.
E poi che manifestato
s’è, egli fa una breve domanda all’autore, dicendo: – «Ma tu perché
ritorni a tanta noia?» quanta è a essere nella selva, della quale
partito ti se’; – e quinci segue e fanne un’altra: – «Perché non
sali al dilettoso monte, Ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
–
Espedite queste parole
di Virgilio, segue la terza parte di questa seconda, nella qual dissi
che con ammirazion l’autore rispondeva, e, col commendar Virgilio,
s’ingegnava d’accattare la sua benivolenza. E, rispondendo alla
dimanda di lui, gli mostra quello per che al monte non sale, e il suo
aiuto addimanda, e dice: – «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte,
Che spande di parlar sí largo fiume?». – Commendalo qui l’autore
dell’amplitudine della sua facundia, quella facendo simigliante ad un
fiume. «Rispos’io lui con vergognosa fronte». Vergognossi l’autore
d’essere da tanto uomo veduto in sí miserabile luogo, e dice «con
vergognosa fronte», percioché in quella parte del viso prima
appariscano i segni del nostro vergognarci; comeché qui si può
prendere il tutto per la parte, cioè tutto il viso per la fronte. –
«O degli altri poeti» latini «onore», percioché per Virgilio è
tutto il nome poetico onorato, «e lume». Sono state l’opere di
Virgilio a’ poeti, che appresso di lui sono stati, un esempio, il
quale ha dirizzate le loro invenzioni a laudevole fine, come la luce
dirizza i passi nostri in quella parte dove d’andare intendiamo.
«Vagliami il lungo studio e il grande amore». Poi che l’autore ha
poste le laude di Virgilio, accioché per quelle il muova al suo
bisogno, ora il priega per li meriti di se medesimo, per li quali
estima Virgilio sí come obbligatogli il debba aiutare, e dice:
«Vagliami», a questo bisogno, «il lungo studio». Vuol mostrare
d’avere l’opera di Virgilio studiata, non discorrendo, ma con
diligenza. «E ‘l grande amore». E per questo intende mostrare un
atto caritativo, che
fatto gli ha studiare il libro di Virgilio, e non, come molti fanno,
averlo studiato per trovarvi che potere mordere e biasimare. «Che
m’ha fatto cercare il tuo volume», l’Eneida.
«Tu se’ lo mio
maestro». Qui con reverirlo vuol muover Virgilio chiamandolo
«maestro», «e ‘l mio autore». In altra parte si legge «signore»,
e credo che stia altresí bene; percioché qui, umiliandosi, vuol
pretendere il signore dovere ne’ bisogni il suo servidore aiutare.
«Tu se’ solo colui da cui io tolsi», cioè presi, «il bello
stilo», del trattato, e massimamente dello ‘Nferno,
«che m’ha fatto onore», cioè fará. E pon qui il preterito per lo
futuro, facendo solecismo.
«Vedi la bestia», e
mostragli la lupa, della quale di sopra è detto, «per cui io mi
volsi», dal salire al dilettoso monte. E qui gli risponde
all’interrogazion fatta; appresso il priega dicendo: «Aiutami da
lei, famoso saggio»; nelle quali parole vuol mostrare colui
veramente esser saggio, il quale non solamente è saggio nel suo
segreto, ma eziandio nel giudicio degli altri per lo quale esso
diventa famoso. «Ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». Triemano
le vene e’ polsi quando dal sangue abbandonate sono, il che avviene
quando il cuore ha paura; percioché allora tutto il sangue si ritrae
a lui ad aiutarlo e riscaldarlo, e il rimanente di tutto l’altro
corpo rimane vacuo di sangue, e freddo e palido.
«A
te convien tenere altro viaggio». In questa quarta particella fa
l’autore due cose: prima dichiara ciò che Virgilio dice della
natura di quella lupa, e il suo futuro disfacimento; appresso gli
dimostra Virgilio quel cammino che gli par da tenere, accioché egli
possa di quello luogo pericoloso uscire. La seconda quivi: «Ond’io
per lo tuo me’». Dice dunque: – «A te convien tenere altro
viaggio», che quello il quale di tenere ti sforzi, – «rispose»
Virgilio, «poi che lagrimar mi vide, – Se vuoi campar», senza
morte uscire, «d’esto loco selvaggio», come di sopra è
dimostrato. E, seguendo, Virgilio gli dice la cagione perché a lui
convien tenere altro cammino, dicendo: «Ché quella bestia», cioè
quella lupa, «per la qual tu gride», domandando misericordia, «Non
lascia altrui passar per la sua via», non della lupa, ma di colui
che andar vuole; «Ma tanto lo ‘mpedisce», ora in una maniera e ora
in un’altra, «che l’uccide. Ed ha», questa lupa, «natura sí
malvagia e ria, Che mai non empie la bramosa voglia» del divorare,
«Ma dopo il pasto ha piú fame che pria». Vuole Virgilio per
queste parole rimuovere un pensier vano, il quale potrebbe cadere
nell’autore, dicendo: – Quantunque questa bestia sia bramosa e abbia
la fame grande, egli potrá avvenire che ella prenderá alcuno
animale e pascerassi, e, pasciuta, mi lascerá andare dove io
disidero; – il qual avviso si rimuove per quelle parole: «E dopo il
pasto ha piú fame che pria».
«Molti son gli animali
a cui s’ammoglia», cioè co’ quali si congiugne. Questo è fuori
dell’uso della natura di qualunque animale, congiugnersi con molti
animali di diverse spezie; ma con alcuno assai bestie il fanno, sí
come il cavallo coll’asino, la leonessa col leopardo e la lupa col
cane. E questo non è da dubitare che l’autore non sapesse; per che,
avendol posto, assai bene possiam comprendere l’autore volere altro
sentire che quello che semplicemente suona la lettera, e cosí in ciò
che sèguita del rimettimento di questa lupa in inferno: la
sposizione delle quali cose a suo tempo riserberemo. «E piú saranno
ancora», che stati non sono, «infin che ‘l veltro Verrá». È il
veltro una spezie di cani, maravigliosamente nimica de’ lupi, de’
quali veltri dice, come appare, doverne venire uno, «che la fará
morir con doglia».
«Questi», cioè
questo veltro, «non ciberá», cioè mangerá, «terra né peltro».
Peltro è una spezie vile di metallo composta d’altri. «Ma sapienza,
amore e virtute». Questi non sogliono essere cibi de’ cani; e perciò
assai chiaro appare lui intendere altro che non par che dica la
lettera. «E sua nazion sará tra feltro e feltro». È il feltro
vilissima spezie di panno, come ciascun sa manifestamente.
«Di quella umile».
Usa qui l’autore un tropo, il quale si chiama «ironia», per
vocabolo contrario mostrando quello che egli intende di dimostrare;
cioè per «umile», «superba», sí come noi tutto ‘l dí usiamo,
dicendo d’un pessimo uomo: – Or questi è il buono uomo; – d’un
traditore: – Questi è il leale uomo; – e simili cose. Dice adunque:
«Di quella umile», cioè superba, «Italia fia salute». È
Italia una gran
provincia, nominata da Italo, figliuolo di Corito re e fratello di
Dardano (del quale piú distesamente diremo appresso nel quarto
canto), terminata dall’Alpi e dal mare Tirreno e dall’Adriano,
contenente in sé molte province; e perciò, a voler dimostrare di
qual parte di questa Italia dice, soggiugne: «Per cui morí», cioè
fu uccisa, «la vergine Camilla».
Fu questa Camilla,
secondo che Virgilio scrive nell’undicesimo dell’Eneida,
figliuola di Metabo, re di Priverno, e di Casmilla, sua moglie. E,
percioché nel partorire questa fanciulla morí la madre, piacque al
padre di levare una lettera sola, cioè quella «s», che era nel
nome di Casmilla, sua moglie, e nominare la figliuola Camilla. La
quale essendo ancora piccolissima, avvenne, per certe divisioni de’
privernati, Metabo re a furore fu cacciato di Priverno. Il quale, non
avendo spazio di potere alcun altra cosa prendere, prese questa
piccola sua figliuola e una lancia, e con essa, essendo dai
privernati seguito, si mise in fuga; e, pervegnendo a un fiume, il
quale si chiamava Amaseno, e trovandol per una grandissima piova
cresciuto molto, e sé veggendo convenirgli lasciar la fanciulla, se
notando il volea trapassare, subitamente prese consiglio d’involgere
questa fanciulla in un suvero e legarla alla sua lancia, e quella
lanciare di lá dal fiume e poi esso notando passarlo. Per che,
legatola e dovendola gittare oltre, umilemente la raccomandò a
Diana, a lei botandola, se ella salva gliela facesse dall’altra parte
del fiume ritrovare; e lanciatola e poi notando seguitola, e
dall’altra parte trovata senza alcuna lesione la figliuola,
andatosene con essa in certe selve vicine, allevò questa sua
figliuola alle poppe d’una cavalla. Alla quale, come crescendo venne,
appiccò una faretra alle spalle, e posele un arco in mano, e
insegnolle non filare, ma saettare e gittar le pietre con la rombola,
e correr dietro agli animali [e i suoi vestimenti erano di pelli
d’animali] salvatichi. Ne’ quali esercizi costei giá divenuta grande
fu maravigliosa femmina; e fu in correre di tanta velocitá, che,
correndo, ella pareva si lasciasse dietro i venti; e fu sí leggiera,
che Virgilio, iperbolicamente parlando, dice che ella sarebbe corsa
sopra l’onde del mare senza immollarsi le piante de’ piedi. Costei da
molti nobili uomini addomandata in matrimonio, mai alcuna cosa non ne
volle udire, ma, virginitá servando, si dilettava d’abitar le selve
nelle quali era stata allevata e di cacciare. Poi pare che richiamata
fosse nel regno paterno; e, ritornatavi, e sentendo la guerra di
Turno con Enea, da Turno richiesta, con molti de’ suoi volsci andò
in aiuto di lui; dove un dí, fieramente contro a’ troiani
combattendo, fu fedita d’una saetta nella poppa da uno che avea nome
Arruns; della qual fedita essa morí incontanente.
«Eurialo, Turno e Niso
di ferute». Eurialo e Niso furono due giovani troiani, li quali in
Italia aveano seguito Enea. Ed essendo insieme con Ascanio, figliuolo
d’Enea, rimasi a guardia del campo d’Enea, il quale era andato a
cercare aiuto contro a Turno a certi popoli circunvicini, avvenne
che, premendo Turno molto Ascanio, si dispose Ascanio, per téma di
non poter sofferire la forza di Turno, di far sentire ad Enea come da
assedio era gravemente stretto, accioché di tornare in soccorso di
lui il padre s’affrettasse. Alla qual cosa fare Niso si profferse, e
ingegnavasi di farlo occultamente da Eurialo; percioché conosceva il
pericolo esser grande, ed Eurialo ancora un garzone, ed egli nol
voleva mettere a quel pericolo. Ma non seppe sí fare che Eurialo nol
sentisse; per la qual cosa convenne che Eurialo andasse con lui. E,
usciti una notte del campo d’Ascanio, convenendo loro passar per lo
mezzo de’ nemici, e tacitamente andando e trovandogli tutti dormire,
n’uccison molti. Ed Eurialo, vago come i garzon sono, di certe
armadure belle, tratte a coloro li quali uccisi aveano, carico,
seguitando Niso, avvenne che si scontrarono in una grande quantitá
di nemici, li quali come Niso vide, tantosto si ricolse in un bosco,
credendo avere appresso di sé Eurialo; ma egli era rimaso, e giá
intorniato da’ nimici, quando Niso lui non esser seco si avvide. Per
che voltosi, e vedendol nel mezzo de’ nemici, e loro correntigli
addosso per ucciderlo, tornando addietro, cominciò a gridare che
perdonassero ad Eurialo, sí come a non colpevole, e uccidesson lui,
il quale aveva tutto quello male fatto. Ma poco valse: essi uccisono
Eurialo e poi ucciser lui; e cosí amenduni quivi morti rimasero.
«Turno». Costui fu
figliuolo di Dauno, re d’Ardea, e nepote carnale d’Amata, moglie di
Latino, re de’ laurenti, giovane ardentissimo e di gran cuore; il
quale, vedendo Latino re avere data Lavina sua figliuola per moglie
ad Enea, la qual prima avea promessa a lui, sdegnato, avea mosso
guerra ad Enea, e per
questo molte battaglie aveano fatte; ultimamente, secondo che
Virgilio scrive nel fine del dodicesimo dell’Eneida,
soprastandogli Enea in una singular battaglia stata fra loro, e
veggendogli cinto il balteo, il qua1e era stato di Pallante, cui
ucciso avea, lui addomandante perdono, uccise.
E cosí dalle morti di
costoro ha l’autore discritta di qual parte d’Italia intenda, cioè
di quella lá dove è Roma, con alcune piccole circustanze: la quale
in tanta superbia crebbe, che le parve poco il voler soprastare a
tutto il mondo; né per la ruina del romano imperio cessò però la
romana superbia, perseverando in essa la sede apostolica. Nella
quale, al tempo che l’autore di prima pose mano alla presente opera,
sedeva Bonifazio papa ottavo, il quale, quantunque altiero signor
fosse molto, parve per avventura ancor molto piú all’autore, in
quanto piegare non fu potuto a’ piaceri né alle domande fatte da
quegli della setta della quale fu l’autore.
«Questi», cioè
questo veltro, «la caccerá per ogni villa», cioè estermineralla
del mondo, «Finché l’avrá rimessa nell’inferno, Lá onde invidia
prima dipartilla». In queste parole chiaramente si può intendere,
l’autore dire una cosa e sentire un’altra; conciosiacosaché
manifesto sia in inferno non generarsi lupi, e perciò di quello non
poterne essere stato tratto alcuno, per doverlo in questa vita
menare.
«Ond’io per lo tuo
me’». In questa particella seconda della quarta, dice l’autore il
consiglio preso da Virgilio per sua salute, e, secondo l’usanza
poetica, mostra in poche parole ciò che dee trattare in tutto questo
suo volume; e dice cosí: «Ond’io», considerata la natura di questa
lupa che t’impedisce, «per lo tuo me’, penso e discerno», giudico,
«Che tu mi segua, ed io sarò tua guida, E trarrotti di qui», cioè
di questo luogo pericoloso, «per luogo eterno», cioè per lo
‘nferno e per lo purgatorio, i quali son luoghi eterni; «Dove»,
cioè in quel luogo, «udirai le dispietate strida», in quanto
paiono d’uomini crudeli e senza alcuna umanitá; «E vederai gli
spiriti dolenti, Che la seconda morte ciascun grida»; cioè la morte
dell’anima, percioché quella del corpo, la quale è la prima, essi
l’hanno avuta. Addomandano adunque la seconda, credendo per quella le
pene, che sentono, non dover poscia sentire. [Ma i nostri teologi
tengono che, quantunque essi la spiritual morte domandino, non
perciò, potendola avere, la vorrebbono, percioché per alcuna
cagione non vorrebbon perdere l’essere. Deesi adunque intendere li
dannati chiamar la seconda morte, sí come noi mortali spesse volte
chiamiamo la prima; la quale se venir la vedessimo, senza alcun
dubbio a nostro potere la fuggiremmo. O puossi sporre cosí: tiensi
per li teologi esser piú spezie di morte, delle quali è la prima
quella della quale tutti corporalmente moiamo; la seconda dicono che
è morte di miseria, la qual veramente io credo essere infissa ne’
dannati, in tanta tribulazione e angoscia sono: e questo è quello
che ciascun dannato grida, non dimandandola, ma dolendosi.]
«E vederai color che
son contenti Nel fuoco», della penitenza; e dice «contenti»,
percioché quella penitenza, che non si facesse con contentamento
d’animo di colui che la facesse, non varrebbe alcuna cosa a salute;
«perché speran di venire, Quando che sia», finito il tempo della
penitenzia, «alle beate genti. Alle quali» beate genti, «se tu
vorrai salire», però che sono in cielo, «Anima fia a ciò di me
piú degna: [Con lei ti lascerò nel mio partire». E questa fia
quella di Stazio poeta, con la quale egli poscia il lasciò in su la
sommitá del monte di purgatorio, sopra la riva del fiume di Lete,
come nel trentesimo canto del Purgatorio
si legge.] «Ché quello imperador», cioè Iddio, «che lassú»,
cioè in cielo, «regna, Perch’io fui ribellante», non seguendola,
«alla sua legge», a’ suoi comandamenti, «Non vuol che in sua
cittá», in paradiso, «per me si vegna. In tutte parti impera»,
comandando, «e quivi», nel cielo empireo, «regge: Quivi è la sua
cittá», nel cielo, «e l’alto seggio», reale. «O felice colui,
cui quivi elegge!», per abitatore di quello, come i beati sono. –
«Io cominciai: –
Poeta». In questa quinta particella l’autore, udito il consiglio di
Virgilio, e approvandolo, lo scongiura che quivi il meni, dicendo:
«io ti richieggio, Per quello Iddio», cioè Gesú Cristo, «che tu
non conoscesti, Accioch’io fugga questo male», cioè il pericolo nel
quale al presente sono, «e peggio», cioè la morte, «Che tu mi
meni lá ove or dicesti», cioè in inferno e in purgatorio, «Sí
ch’i’ vegga la porta di san Pietro», cioè la porta del purgatorio,
dove sta il vicario di san Piero: «Con quelli
i quai tu fai», cioè di’ essere, «cotanto mesti», cioè dolorosi,
dannati alle pene eterne. –
«Allor si mosse»,
entrando nel cammino dimostrato; ed è atto d’uomo disposto a quello
di che è richiesto, che senza eccezione il mette ad esecuzione. Ed è
questa l’ultima particella delle sei, che dissi esser partita la
seconda parte principale del primo canto. «Ed io gli tenni dietro»,
cioè il seguitai.