CANTO QUARTO, I, SENSO LETTERALE

CANTO
QUARTO

I

SENSO
LETTERALE

[Lez.
XI]

«Ruppemi l’alto sonno
nella testa», ecc. Nel principio del presente canto, sí come usato
è l’autore, alle cose dette nella fine del precedente si continua.
Dissesi nella fine del precedente canto come un vento balenò una
luce vermiglia, la quale, toltogli ogni sentimento, il fece cadere,
come l’uomo il quale è preso dal sonno; per che, nel principio di
questo, dimostra come questo suo sonno gli fosse rotto. E dividesi
questo canto in due parti: nella prima dimostra come rotto gli fosse
il sonno e come nello ‘nferno si ritrovasse; nella seconda,
procedendo dietro a Virgilio, racconta sé avere molti spiriti
veduti, pieni di gravi e cocenti sospiri, senza alcuna altra visibile
pena. E questa seconda comincia quivi: «Or discendiam quaggiú nel
cieco mondo».

Dice adunque nella
prima parte cosí: «Ruppemi». Questo vocabolo suona violenza,
volendo in ciò dimostrare che ogni atto, che in inferno si fa, sia
violento e non naturale. La qual cosa non è senza cagione, la quale
è questa: giusta cosa è che chi, peccando, fece violenza a’
comandamenti e a’ piaceri di Dio in questa vita, violentemente sia
da’ ministri della giustizia punito nell’altra.

«L’alto sonno». Il
sonno, secondo che ad alcuno pare, è un costrignimento del caldo
interiore e una quiete diffusa per li membri indeboliti dalla fatica;
altri dicono il sonno essere un riposo delle virtú animali, con una
intensione delle virtú naturali. Del qual, volendo i suoi effetti
mostrare, scrive Ovidio cosí:

Somne,
quies rerum, placidissime somne deorum,

pax
animi, quem cura fugit, qui corpora duris

fessa
ministeriis mulces, reparasque labori, ecc.

E, appresso costui,
assai piú pienamente ne scrive Seneca tragedo,
in
tragedia Herculis

furentis,
dove dice:

…..
tuque o domitor,


somne, malorum,
requies animi,

pars
humanae melior vitae,

volucer,
matris genus Astreae,

frater
durae languidae Mortis,

veris
miscens falsa, futuri

certus
et idem pessimus auctor:

pater
o rerum, portus vitae,

lucis
requies noctisque comes,

qui
par regi famuloque venis,

placidus,
fessum lenisque fovens:

pavidum
Leti genus humanum

cogis
longam discere mortem, ecc.

Di costui ancora Ovidio
nel suo maggior volume discrive la casa, la camera e il letto e la
sua famiglia, se quella per avventura alcun disiderasse.

«Nella testa». La
testa è alcuna volta posta per quella parte del viso, la qual noi
chiamiamo «fronte», e alcuna volta per tutto il capo; e cosí in
questo luogo intende l’autore, percioché nel capo dimora il sonno
causato da’ vapori surgenti dallo stomaco e saglienti per l’arterie
al cerebro.

«Un greve tuono». È
il tuono quel suono il quale nasce da’ nuvoli, quando sono per
violenza rotti; e causasi il tuono da esalazioni della terra fredde e
umide e da esalazioni calde e secche, sí come Aristotile mostra nel
terzo libro della sua
Meteora;
percioché, essendo l’esalazioni calde e secche dalle fredde e umide
circundate, sforzandosi quelle d’uscir fuori e queste di ritenerle,
avviene che, per lo violento moto delle calde e secche, elle
s’accendono, e, per quella virtú aumentata, assottiglian tanto la
spessezza della umiditá, ch’ella si rompe, ed in quel rompere fa il
suono, il qual noi udiamo. Il quale è tanto maggiore e piú
ponderoso, quanto la materia della esalazione umida si truova esser
piú spessa quando si rompe. La qual cosa intervenir non può in
quello luogo dove l’autore disegna che era, percioché in quello non
possono esalazioni surgere che possano tuono causare: per che assai
chiaro puote apparere l’autore per questo «tuono» intendere altro
che quello che la lettera suona, sí come giá è stato mostrato
nell’allegoria del precedente canto.

«Sí, ch’io mi
riscossi, Come persona ch’è per forza desta». E in queste parole
mostra ancor l’autore gli atti infernali tutti essere violenti. «E
l’occhio riposato». Dice «riposato» percioché prima invano si
faticherebbe di guardare chi è desto per forza, se prima alquanto
non fosse lo stupore dello essere stato desto, cessato;
conciosiacosaché non solamente l’occhio, ma ciascun altro senso n’è
incerto di sé divenuto. «Intorno mossi, Dritto levato»: in questo
dimostra l’autore il suo reducere i sensi nelli loro debiti ufici; «e
fiso riguardai», le parti circustanti: ed a questo segue la cagione
perché ciò fece, cioè «Per conoscer lo loco, dov’io fossi»,
percioché quello non gli pareva dove il sonno l’avea preso.

«Vero è»: qui
dimostra d’aver conosciuto il luogo nel quale era, e dimostra qual
fosse, dicendo «che in sulla proda io mi trovai», cosí desto,
«Della valle d’abisso dolorosa», sopra la quale come esso
pervenisse è nella fine del senso allegorico del precedente canto
mostrato: «Che tuono accoglie d’infiniti guai», cioè un romore
tumultuoso ed orribile simile a un tuono. «Oscura», all’apparenza,
«profonda era», all’esistenza, «e nebulosa», per la qual cosa,
oltre all’oscuritá, era noiosa agli occhi; «Tanto che per ficcare»,
cioè agutamente mandare, «il viso», cioè il senso visivo, 
«a fondo», cioè
verso il fondo, «Io non vi discerneva alcuna cosa». Pur dunque
alcuna cosa vi vedea, ma quello che fosse non discerneva, per la
grossezza delle tenebre e della nebbia.

«Or
discendiam quaggiú nel cieco mondo». In questa seconda parte del
presente canto dimostra l’autore per una medesima colpa, cioè per
non avere avuto battesimo, tre maniere di genti essere dannate; e
questa si divide in due parti: nella prima dichiara delle due
maniere de’ predetti; nella seconda scrive della terza. E comincia
la seconda quivi: «Non lasciavam l’andar», ecc. Nella prima parte
l’autore fa due cose: primieramente discrive la pena delle tre
maniere di genti di sopra dette, e pone delle due, delle quali l’una
dice essere stati infanti, cioè piccioli fanciulli, l’altra dice
essere stati uomini e femmine. Nella seconda muove un dubbio a
Virgilio, il quale Virgilio gli solve. E comincia questa seconda
quivi: – «Dimmi maestro mio», ecc.

Dice adunque cosí: –
«Or discendiam», percioché in quel luogo sempre infino al centro
si diclina; «quaggiú nel cieco mondo», – cioè in inferno, il qual
pertanto dice esser «cieco», percioché alcuna natural luce non
v’è: «Cominciò il maestro», cioè Virgilio, «tutto smorto»,
cioè pallido oltre l’usato. È il vero che l’uomo impallidisce per
l’una delle tre cagioni, o per infermitá di corpo (nella quale
intervengono le diminuzioni del sangue, le diete e l’altre
evacuazioni, le quali vanno a tôrre il vivido colore), o per paura,
o per compassione. E qui, come appresso si dirá, Virgilio,
discendendo giú, impallidí per compassione. – «Io sarò primo»,
cioè andrò avanti, «e tu sarai secondo», – cioè mi seguirai;
volendo, per questo ordine dell’andare, renderlo piú sicuro, in
quanto colui, che va davanti, trova prima ogni ostacolo, il quale
l’andare impedisce, e quello rimuove, se egli è buono e valoroso
duca.

«Ed io, che del
color», pallido di Virgilio, «mi fui accorto», riguardandolo nel
viso, «Dissi: – Come verrò», io appresso, «se tu», che vai
avanti ed ha’mi fatto vedere di menarmi salvamente, «paventi», cioè
hai paura, «Che suogli al mio dubbiare esser conforto»? sí come
nel primo canto appare, dove tu mi levasti dinanzi a quella lupa, e
nel secondo canto, dove tu dell’animo cacciasti la viltá
sopravvenutavi. –

«Ed egli», cioè
Virgilio, «a me», disse: – «L’angoscia delle genti», onorevoli e
d’alta fama, «Che son quaggiú», in questo primo cerchio dello
‘nferno, «nel viso mi dipigne», cioè colora, «Quella pietá»,
cioè compassione, «che tu per téma», cioè per paura, «senti»,
cioè estimi che sia per paura. Altri vogliono che il senso di questa
lettera sia questo: percioché tu senti te pauroso, tu estimi da
questo mio colore che io similmente abbia paura; ma non è cosí: io
son pallido per compassione, ecc. La prima esposizione mi piace piú.

«Andiam», confortalo
ad andare, e dimostragli la cagione dicendo: «ché la via lunga ne
sospigne» – a dover andare. «Cosí si mise», procedendo, «e cosí
mi fe’ entrare», seguendolo io, «Nel primo cerchio», cioè nel
limbo, «che l’Abisso», cioè inferno, «cigne», cioè attornia.

«Quivi», in quel
primo cerchio, «secondo che per ascoltare», potea comprendere, «Non
avea pianto mai», cioè d’altro, «che di sospiri». È il sospiro
una esalazione che muove dal cuore, da alcuna noia faticato, il quale
il detto cuore, per agevolamento di sé, manda fuori; e, se cosí non
facesse, potrebbe l’angoscia, ritenuta dentro, tanto ampliarsi e
tanto gonfiare d’intorno a lui, che ella potrebbe interchiuder sí lo
spirito vitale, che il cuore perirebbe; e, percioché la quantitá
dell’angoscia di quelle anime, che eran laggiú, era molta, pare i
sospiri dovere essere molti, e con impeto mandati fuori. Per la qual
cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè: «Che l’aura
eterna», in quanto non si muta la qualitá di quella aura (ed è
«aura» un soave movimento d’aere: per questa cagione non credo
voglia dire il testo «aura», percioché alcuna soavitá non ha in
inferno, anzi v’è ogni moto impetuoso e noioso; e quinci credo
voglia dire «aere eterno»), «facevan», gl’impeti de’ sospiri,
«tremare», cioè avere un movimento non maggiore che il tremare.

«E ciò avvenía»,
cioè questo sospirare, «da duol senza martiri». Non eran dunque
quelle anime, che quivi erano, da alcuna pena estrinseca stimolate,
ma solamente da affanno intrinseco, il 
quale si causava dal
conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza di
Dio, non per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere avuto
battesimo, come appresso si dice. «Che avean le turbe», cioè
moltitudini, «ch’eran grandi, D’infanti», cioè di pargoli, li
quali «infanti» si chiamano, percioché ancora non eran venuti ad
etá che perfettamente potesson parlare (e questa è l’una delle due
maniere di genti, delle quali dissi che l’autor trattava in questa
parte), «e di femmine e di viri», cioè d’uomini (e questa è
l’altra maniera, in tanto dalla prima differenti, in quanto i primi
morirono infanti, come detto è, e questi secondi morirono non
battezzati in etá perfetta). [Li quali una medesima cosa direi loro
essere e gl’infanti, se quella copula, la quale vi pone quando dice:
«D’infanti e di femmine e di viri», non mi togliesse da questa
opinione. E la ragion che mi moverebbe sarebbe questa; percioché io
non estimo che da creder sia, quantunque nella presente vita
gl’infanti in tenerissima etá morissono, che essi sieno, al
supplicio, in quella etá, cioè in quello poco o nullo conoscimento;
anzi credo sia da credere loro essere in quello intero conoscimento
che 
qualunque degli altri,
che piú attempati morirono: la qual perfezione del conoscimento
credo sia lor data in tormento e in noia, e non in alcuna
consolazione, come a noi mortali, quando bene usare il vogliamo, è
conceduto.]

«Lo buon maestro»,
cioè Virgilio (il quale in questa parte, per ammaestrarlo che
domandar dovesse quando alcuna cosa vedesse nuova e da doverne
meritamente addomandare, o forse per assicurarlo al domandare;
percioché nel precedente canto, perché non gli parve che Virgilio
tanto pienamente al suo domando gli rispondesse, vergognandosi
sospicò non grave fosse a Virgilio l’essere domandato, per che poi
d’alcuna cosa domandato non l’avea) «a me» disse: – «Tu non
dimandi, Che spiriti son questi, che tu vedi»? qui che sospirando si
dolgono. Ed appresso fa come il buon maestro dee fare, il quale,
vedendo quello di che meritamente può dubitare il suo auditore, gli
si fa incontro, col farlo chiaro di ciò che l’uditore addomandar
dovea, e dice: «Or vo’ che sappi, avanti che piú andi, Ch’e’ non
peccâro», questi spiriti che tu vedi qui; «e s’egli hanno
mercedi», cioè se essi adoperarono alcun bene il quale meritasse
guiderdone, «Non basta», cioè non è questo bene avere adoperato
sufficiente alla loro salvazione: e la cagione è, «perch’e’ non
ebber battesmo». E questo n’è assai manifesto per lo Evangelio,
dove Cristo parlando a Nicodemo dice: «
Amen,
amen,

dico
tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non potest
intrare in regnum Dei
».
È

adunque
il battesimo una regenerazion nuova, per la quale si toglie via il
peccato originale, del quale tutti, nascendo, siamo maculati, e
divegnamo per quello figliuoli di Dio, dove davanti eravamo figliuoli
delle tenebre; e fa questo sacramento valevoli le nostre buone
operazioni alla nostra salute, dove senza esso son tutte perdute, sí
come qui afferma l’autore. «Ch’è parte della fede, che tu credi»,
cioè della fede cattolica; e però dice che è «parte» di quella,
percioché gli articoli della fede son dodici, de’ quali dodici è il
battesimo uno.

Appresso questo
risponde Virgilio ad una questione, la quale esso medesimo muove,
dicendo: «E se pur fûr», costoro de’ quali noi parliamo, «dinanzi
al cristianesmo», cioè avanti che Cristo per le sue opere e per li
suoi ammaestramenti introducesse questa fede, e mostrasse il
battesimo essere necessario a volere aver vita eterna; perciò son
perduti, perché «Non adorar debitamente Iddio». E in tanto non
l’adoraron debitamente, in quanto non dirittamente sentivano di Dio,
cioè lui essere una deitá in tre persone, lui dover venire a
prendere carne per la nostra redenzione; non sentirono de’
comandamenti dati da lui al popol suo, ne’ quali, ben intesi, stava
la salute di coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono
suoi buoni e fedeli servidori; ma adoravano Iddio secondo loro riti,
del tutto deformi al modo nel quale Iddio voleva essere adorato e
onorato. «E di questi cotai», cioè che dinanzi al cristianesimo
furono, «son io medesmo»: percioché Virgilio, sí come in
libro
Temporum

d’Eusebio si comprende, avanti la predicazion di Cristo e il
battesimo da lui introdotto morí, nel torno di quarantacinque anni;
[né della venuta di Cristo nella Vergine, per quello che comprender
si possa, sentí alcuna cosa: come che santo Augustino, in un sermone
Della
nativitá di Cristo
,
scriva lui avere la venuta di Cristo profetata ne’ versi scritti
nella quarta egloga della sua
Buccolica,
dove dice:

Ultima
Cumaei venit iam carminis aetas:


magnus ab integro
saeclorum nascitur ordo.

Iam
redit et virgo, redeunt Saturnia regna:

iam
nova progenies caelo delabitur alto.

De’ quali versi alcun
santo non sente quello che forse vuole pretendere santo Augustino; e,
se pure son di quegli che ‘l sentono (e per avventura santo Augustino
medesimo), non credono lui avere inteso quello che esso medesimo
disse, se non come fece Caifas, quando al popolo giudaico disse, per
Cristo giá preso da loro, che «bisognava che uno morisse per lo
popolo, accioché tutta la gente non perisse». Non adunque sentí
Virgilio di Dio, come sentir si volea a chi volea avanti al
cristianesmo salvarsi.]

«Per tai difetti»,
cioè per cose omesse, non per cose commesse, o vogliam dire per non
avere avuto battesimo e per non aver debitamente adorato Iddio; «e
non per altro rio», cioè per avere contro alle morali o naturali
leggi commesso; «Semo perduti», cioè dannati a non dovere in
perpetuo vedere Iddio; «e sol di tanto offesi, Che senza speme
vivemo in disio»: – il quale disio non 
altro
che di vedere Iddio, nel quale consiste la gloria de’ beati. E come
che molto faticosa cosa sia il ferventemente disiderare, è, oltre a
ciò, quasi fatica e noia importabile l’ardentemente disiderare e
non conoscere né avere speranza alcuna di dover potere quello, che
si disidera, ottenere: e perciò, quantunque
prima
facie

paia non molto gravosa pena essere il disiderare senza sperare, io
credo ch’ella sia gravissima; e ancora piú se le aggiugne di pena,
in quanto questo disiderio è senza alcuna intermissione.

«Gran duol mi prese al
cuor quando l’intesi», sí per Virgilio, e sí ancora «Peroché
gente di molto valore», stati intorno agli esercizi temporali,
«Conobbi», non qui, ma nel processo, quando co’ cinque savi entrò
nel castello sette volte cerchiato d’alte mura, «che in quel limbo»,
cioè in quello cerchio superiore, vicino alla superficie della terra
(chiamano gli astrologi un cerchio dello astrolabio, contiguo alla
circunferenza di quello, e nel quale sono segnati i segni del zodiaco
e i gradi di quegli, «limbo»; dal quale per avventura gli antichi
dinominarono questo cerchio, percioché quasi immediatamente è posto
sotto la circunferenza della terra), «eran sospesi», dall’ardore
del lor desiderio.

«Dimmi,
maestro mio». Qui, dissi, cominciava la seconda particella della
prima parte della seconda division principale, nella quale l’autore
muove una questione a Virgilio, ed esso gliele solve. Dice adunque:
«Dimmi, maestro mio, dimmi, signore». – Assai l’onora l’autore per
farselo benivolo, accioché egli piú pienamente gli risponda, che
fatto non avea alla dimanda fattagli nel precedente canto: dopo la
quale alcuna altra, che questa, infino a qui fatta non gli avea. [Ed
intende, in questa domanda, non di voler sapere de’ santi padri che
da Cristo ne furon tratti, che dobbiam credere il sapea, ma per ciò
fa la domanda, per sapere se in altra guisa che in questa, cioè che
fatta fu per la venuta di Cristo, alcun altro n’uscí mai: quasi per
questo voglia farsi benivolo Virgilio, dandogli intenzione
occultamente che, se alcuna altra via che quella che da Cristo
tenuta fu, vi fosse, egli s’ingegnerebbe d’adoperare di farne uscir
lui e di farlo pervenire a salute.] «Comincia’ io, per volere esser
certo Di quella fede, che vince ogni errore», cioè per sapere se
quello era stato che per la nostra fede n’è porto, cioè che Cristo
scendesse nel limbo e traessene i santi padri. [Il che, quantunque
creder si debba senza testimonio ciò che nella divina Scrittura n’è
scritto, son nondimeno di quegli che stimano potersi delle cose
preterite domandare. Ma io per me non credo che senza colpa far si
possa, percioché pare un derogare alla fede debita alle Scritture;
e però cosí le cose passate, come quelle che venir debbono, senza
cercarne testimonianza d’alcuno, si vogliono fermamente credere e
semplicemente confessare]. – «Uscicci mai», di questo luogo,
«alcuno, o per suo merto», cioè per l’avere con intera pazienza
lungamente sostenuta questa pena, o per l’avere sí nella mortal
vita adoperato, che egli dopo alcuno spazio di tempo meritasse
salute: «O per l’altrui», opera, [o fatta o che far si possa per
l’avvenire,] «che poi fosse beato?» – uscendo di qui e sagliendo
in vita eterna.


«Ed e’», cioè
Virgilio, «che ‘ntese il mio parlar coverto», cioè intorno a
quella parte, per la quale io, tacitamente intendendo, faceva la
domanda generale, «Rispose: – Io era nuovo in questo stato». Dice
«nuovo» per rispetto a quegli che forse migliaia d’anni v’erano
stati, dov’egli stato non v’era oltre a quarantotto anni; percioché
tanti anni erano passati dopo la morte di Virgilio, infino alla
passion di Cristo, nel qual tempo quello avvenne che esso dee dire,
cioè «Quando ei vidi venire», in questo luogo, «un possente»,
cioè Cristo, il quale Virgilio non nomina percioché nol conobbe. E
meritamente dice «possente», percioché egli per propria potenza
aveva quel potuto fare, che alcun altro non poté mai, cioè vincere
la morte e risuscitare; avea vinta la potenza del diavolo, oppostasi
alla sua entrata in quel luogo. Ed era, questo possente, «Con segno
di vittoria incoronato». Non mi ricorda d’avere né udito né letto
che segno di vittoria Cristo si portasse al limbo, altro che lo
splendore della sua divinitá; il quale fu tanto, che il luogo di sua
natura oscurissimo egli riempiè tutto di luce: donde si scrive che
«
habitantibus
in umbra mortis lux orta est eis
».

«Trasseci l’ombra del
primo parente», cioè d’Adamo. [Adamo fu, sí come noi leggiamo nel
principio quasi del Genesi, il primiero uomo il sesto dí creato da
Dio, e fu creato del limo della terra in quella parte del mondo,
secondo che tengono i santi, che poi chiamata fu il «campo
damasceno». Ed essendo da Dio la statura sua fatta di terra, gli
soffiò nel viso, e in quel soffiare mise nel petto suo l’anima
dotata di libero arbitrio e di ragione, per la quale egli, il quale
ancora era immobile ed insensibile, divenne sensibile e mobile per se
medesimo; e secondo che i santi credono, egli fu creato in etá
perfetta, la quale tengono esser quella nella quale Cristo morí,
cioè di trentatré anni. E lui cosí creato e fatto alla immagine di
Dio, in quanto avea in sé intelletto, volontá e memoria, il
trasportò nel paradiso terrestro, dove essendosi addormentato,
nostro Signore non del capo né de’ piedi, ma del costato gli trasse
Eva, nostra prima madre, similemente di perfetta etá. La quale come
Adamo desto vide, disse: – Questa è osso dell’ossa mie, e per costei
lascerá l’uomo il padre e la madre, ed accosterassi alla moglie. –
La qual’è tratta dal suo costato, per darne ad intendere che per
compagna, non per donna né per serva dell’uomo, l’avea prodotta
Iddio; e ad Adamo non per sollecitudine perpetua e guerra senza pace
e senza triegua, come l’odierne mogli odo che sono, ma per sollazzo e
consolazione a lui la diede. E comandò loro che tutte le cose, le
quali nel paradiso erano, usassero, sí come produtte al lor piacere,
ma del frutto d’uno albero solo, il qual v’era, cioè di quello
«della scienza del bene e del male», s’astenessero, percioché, se
di quello gustassero, morrebbero: e quindi in cosí bello e cosí
dilettevale luogo gli lasciò nelle lor mani. Ma l’antico nostro
nimico, invidioso che costoro prodotti fossero a dover riempiere
quelle sedie, le quali per la ruina sua e de’ suoi compagni evacuate
erano, presa forma di serpente, disse ad Eva che, s’ella mangiasse
del frutto proibito, ella non morrebbe, ma s’aprirebbero gli occhi
suoi e saprebbe il bene e il male e sarebbe simile a Dio. Per la qual
cosa Eva, mangiato del frutto proibito, e datone ad Adamo,
incontanente s’apersero gli occhi loro, e cognobbero che essi erano
ignudi: e fattesi alcune coperture di foglie di fico davanti, si
nascosero per vergogna; e quindi, ripresi da Dio, furono cacciati di
paradiso, e, nelle fatiche del lavorio della terra divenuti, ebbero
piú figliuoli e figliuole. Ultimamente Adamo, divenuto vecchio,
d’etá di novecentotrenta anni si morí.]

[Ma qui son certo si
moverá un dubbio, e dirá alcuno: – Tu hai detto davanti che ciò,
che Iddio crea senza alcun mezzo, è perpetuo; Adam fu creato da Dio
senza alcun mezzo; come dunque non fu immortale? – A questo si può
in questa forma rispondere: egli è vero che ciò, che Iddio senza
mezzo crea, è perpetuo; ma è questo da intendere delle creature
semplici, sí come furono e sono gli angioli, li quali sono
semplicemente spiriti, come sono i cieli, le stelle, gli elementi, li
quali tutti sono di semplice materia creati: ma l’uomo non fu cosí;
anzi fu creato di materia composta, sí come 
d’anima
e di corpo, e perciò non è perpetuo come sono le predette
creature. – Ma quinci può sorgere un’altra obiezione, e dirsi: egli
è vero che l’uomo è composto d’anima e di corpo, e queste due cose
amendue furon create da Dio; perch’è dunque l’anima perpetua, e ‘l
corpo mortale? Dirò allora l’anima essere stata da Dio composta di
materia semplice, come furon gli angioli, ma il corpo non cosí;
percioché non fu composto del semplice elemento della terra, senza
alcuna mistura d’altro elemento, sí come d’acqua: percioché della
terra semplice non si sarebbe potuta fare la statura 
dell’uomo, fu adunque
fatta del limo della terra, avente alcuna mistura d’acqua. Non che io
non creda che a Dio fosse stato possibile averlo fatto di terra
semplice, il quale di nulla cosa fece tutte le cose, ma la
commistione de’ corpi ne mostra quegli essere stati fatti di materia
composta: e perciò, quantunque in perpetuo viva l’anima, non séguita
il corpo dovere essere perpetuo. Sarebbon di quegli che alla
obiezione prima risponderebbono: Adamo aversi questa corruzione e
morte de’ corpi con la inobbedienza acquistata, avendolo Domeneddio,
avanti il peccato, fatto accorto. Ma potrebbe qui dire alcuno: Adam
peccò, e di perpetuo divenne mortale; gli angioli che peccarono,
perché non divenner mortali? Alla quale obiezione è assai risposto
di sopra: percioché, di semplice materia creati, non posson morire,
se non come l’anima nostra, la quale, quantunque peccasse col corpo
d’Adamo, non però la sua perpetuitá perdé, ma perdella il corpo,
al quale, sí come a cosa atta a ricevere la morte, ella era stata
minacciata da Dio. Ma questa è materia da molto piú sublime ingegno
che il mio non è, e perciò, per la vera soluzione di tanto dubbio,
si vuole ricorrere, a’ teologi ed a’ sufficientissimi litterati, la
scienza de’ quali propriamente dintorno a cosí fatte quistioni si
distende.]

«D’Abél, suo figlio»,
cioè d’Adam. Questi si crede che fosse il primiero uomo che morí,
ucciso da Cain suo fratello per invidia. Leggesi nel
Genesi
Caino, il quale fu il primo figliuolo d’Adam, essersi dato
all’agricoltura, e Abél, similmente figliuol d’Adam e che appresso a
Cain nacque, essere divenuto pastore: ed avendo questi due cominciato
a far, prima che alcuni altri, de’ frutti delle loro fatiche
sacrificio a Dio, era costume di Cain, per avarizia, quando eran per
far sacrificio, d’eleggere le piú cattive biade, o che avessero le
spighe vòte, o che fossero per altro accidente guaste, e di quelle
sacrificare. Per la qual cosa non essendo il suo sacrificio accetto a
Dio, come in quelle il fuoco acceso avea, incontanente il fummo di
quel fuoco non andava diritto verso il cielo, ma si piegava e
andavagli nel viso. Abél in contrario, quando a fare il sacrificio
veniva, sempre eleggeva il migliore e il piú grasso agnello delle
greggi sue, e quello sacrificava: di che seguiva che, essendo il
sacrificio d’Abél accetto a Dio, il fummo dello olocausto saliva
dirittamente verso il cielo. La qual cosa vedendo Caino, c avendone
invidia, cominciò a portare odio al fratello; e un dí, con lui
insieme discendendo in un loro campo, non prendendosene Abél
guardia, Caino il ferí in su la testa d’un bastone ed ucciselo.

«E quella di Noé».
Dispiacendo a Domeneddio l’opere degli uomini sopra la terra, e per
questo essendo disposto a mandare il diluvio, conoscendo Noé essere
buono uomo, diliberò di riservar lui, e tre suoi figliuoli e le lor
mogli, e ordinògli in che maniera facesse un’arca e come dentro
v’entrasse, e similemente quanti e quali animali vi mettesse; e, ciò
fatto, mandò il diluvio, il quale fu universale sopra ogni altezza
di monte, e tra ‘l crescere e scemare perseverò nel torno di dieci
mesi. Ed essendo pervenuta l’arca, la qual notava sopra l’acque,
sopra le montagne d’Ermenia, e non movendosi piú per l’acque che
scemavano, aperta una finestra, la quale era sopra l’arca, mandò
fuori il corvo: il qual non tornando, mandò la colomba, e quella
tornò con un ramo d’ulivo in becco: per la qual cosa Noé conobbe
che il diluvio era cessato, e, uscito fuori dell’arca, fece
sacrificio a Dio. E appresso piantò la vigna, della qual poi nel
tempo debito ricolto del vino, inebriò, e, addormentato nel
tabernacolo suo, fu da Cam suo figliuolo trovato scoperto. Il quale,
di lui beffatosi, il disse a’ fratelli, a Sem e a Iafet, li quali,
portato un mantello, ricopersero il padre; ed egli poscia, desto e
risaputo questo, maladisse Cam. Ed essendo vivuto novecentocinquanta
anni nella grazia di Dio, passò di questa vita.

«Di Moisé, legista ed
ubbidiente». Moisé nacque in Egitto; ed essendo stato per lo re
d’Egitto comandato che tutti i figliuoli degli ebrei maschi fossero
uccisi, e le femmine servate, avvenne che, percioché bello figliuolo
era paruto alla madre, non l’uccise, ma servollo tre mesi
occultamente; ma poi, non potendolo piú occultare, fatto un picciolo
vasello di giunchi e quello imbiutato di bitume, sí che passarvi
l’acqua dentro non poteva, il mise nel fiume; e l’acqua menandolo
giú, la sorella di lui seguitava il vasello per vedere che
divenisse. Ed essendo per ventura la figliuola di Faraone con le sue
femmine discesa al fiume per bagnarsi, vide questo vasello, e,
fattolo prendere ad una delle sue femmine, l’aperse, e, trovatovi
dentro il picciol fanciullo 
che piangea, disse: –
Questi dee essere de’ figliuoli delle ebree. – Allora la fanciulla,
che il vasello 
seguiva,
disse: – Madonna, vuogli che io vada e truovi una ebrea che il
balisca? – A cui la donna disse: – Va’. – Ed ella andò e menò la
madre medesima, la quale, come cresciuto l’ebbe, il rendé alla
donna, la quale il nominò Moisé, quasi «tratto dall’acqua», e a
modo che figliuolo se l’adottò. Moisé crebbe, ed avendo un egizio,
percioch’egli batteva un ebreo, ucciso, temendo del re, se n’andò in
Madian, e quivi co’ sacerdoti di Madian si mise a stare, e prese per
moglie una fanciulla chiamata Sefora: e dopo alcun tempo, secondo il
piacer di Dio, venne davanti a Faraone, e comandògli che liberasse
il popolo d’Israel della servitudine, nella quale il tenea. La qual
cosa non volendo far Faraone, piú segni, secondo il comandamento di
Dio, gli mostrò: ed ultimamente, comandato agli ebrei che quelle
cose, che accattar potessero dagli egizi, e’ prendessero e
seguitasserlo, ché egli gli menerebbe nella terra di promissione: il
che fatto, e con loro messosi in via, e pervenuti al mare Rosso,
quello percosse con la sua verga in dodici parti, sí come gli ebrei
erano dodici tribi, ed in tante s’aperse subitamente il mare, per le
quali gli ebrei passarono salvamente, e gli egizi, che dietro a loro
seguitandogli per quelle vie medesime si misero, rinchiuso, come
passati furono gli ebrei, il mare, tutti annegarono. Guidò adunque
Moisé costoro per lo diserto, e, per le sue orazioni, di manna
furono nutricati in esso, e piovvero loro dal cielo coturnici; e
percossa da Moisé con la verga una pietra, subitamente n’uscí per
divino miracolo un fiume d’acqua di soavissimo sapore, del quale gli
ebrei saziaron la sete loro; e, oltre a questo, esso ordinò loro il
tabernacolo, nel quale dovessero sacrificare a Dio; ordinò i
sacerdoti e li loro vestimenti, e similemente le vittime e gli
olocausti; e diede loro i giudici, a udire e determinare le loro
quistioni; e, oltre a ciò, salito in sul monte Sinai, e quivi
dimorato in digiuni e penitenza quaranta dí, ebbe da Dio due tavole,
nelle quali erano scritti i comandamenti della legge, la quale esso,
disceso del monte, diede al popolo: e però il soprannomina l’autore
«legista». Alfine, dopo molte fatiche, morí nella terra di Moab,
essendo d’etá di centoventi anni, e fu seppellito nella valle della
terra di Moab di contra a Segor: né fu alcuno che conoscesse il
luogo della sua sepoltura.

«Abraam patriarca».
Abraam fu figliuolo di Tara, e nacque in Ur cittá de’ caldei, l’anno
quarantatré del regno di Nino, re d’Assiria. Questi, per
comandamento di Dio, insieme con Sara, sua moglie, venne in Canaan, e
qui, essendo giá d’etá di novantanove anni, avendo prima d’Agar,
serva egizia, avuto Ismael, generò in Sara giá vecchia, come
annunziato gli fu dai tre li quali gli apparvero nella valle di
Mambre, un figliuolo, il quale chiamò Isaac. E, avendogli comandato
Iddio che gli facesse sacrificio del detto Isaac, con lui insieme,
portando esso un fascio di legne in collo, e Abraam il fuoco e ‘l
coltello in mano, n’andò sopra una montagna, e quivi, essendo per
uccidere il figliuolo, per immolarlo secondo il comandamento d’Iddio,
gli fu preso il braccio, e mostratogli un montone, il quale in una
macchia di pruni era, ritenuto da quegli per le corna: come Iddio
volle, veduto la sua obbedienza, lasciato il figliuolo, sacrificò il
montone. Costui fu quegli che, vinti i re di Sogdoma, e riscosso Lot
suo nipote, primieramente offerse per sacrificio pane e vino a
Melchisedech, re e sacerdote di Salem; a costui fece Iddio la
promessione di dare a’ suoi discendenti la terra abbondante di latte
e di miele. Il quale, essendo giá d’etá di centosettantacinque
anni, morí, e fu da’ figliuoli seppellito nel campo d’Efron de’
figliuoli di Soar Itteo della regione di Mambre, il quale avea
comperato in quello uso, quando morí Sara, sua moglie, da’ figliuoli
di Het. È costui chiamato «patriarca», da «
pater»,
che in latino viene a dir «padre», e «arcos», che viene a dire
«principe»: e cosí resulta «principe de’ padri».

«E David re». Questi
fu figliuolo di Iesse della tribú di Giuda; e levato giovane da
guardare le pecore del padre, percioché ammaestrato era di sonare la
cetera, venne al servigio di Saul re, il quale esso col suo suono
alquanto mitigava dalla noia che il dimonio alcuna volta gli dava; ed
essendo giovanetto andò a combattere con Golia filisteo, il quale
aveva statura di gigante, e lui con la fionda, la quale ottimamente
sapea adoperare, e con alquante pietre uccise: ond’egli meritò la
grazia del popolo, ed ebbe Micol, figliuola di Saul, per moglie.
Racquistò l’arca
foederis,
la quale al popolo d’Israel era stata per forza di guerra tolta; e fu
valoroso uomo in guerra, e lunga persecuzione patí da Saul, al quale
per invidia era venuto in odio; ultimamente, essendo da’ filistei 
stato sconfitto Saul e’
figliuoli in Gelboè, e quivi se medesimo avendo ucciso, fu in suo
luogo coronato re. E nelle sue opere fu grato a Dio; e, avuti di piú
femmine figliuoli, e invecchiato molto, si morí e lasciò in suo
luogo re Salomone, suo figliuolo.

«E Israel», cioè
Iacob, il quale fu figliuolo di Isaac: ed essendo prima del ventre
della madre uscito Esaú, e per quello appartenendosi a lui le
primogeniture, quelle acquistò con una scodella di lenti, la quale
gli donò, tornando esso affamato da cacciare. E tornandosi esso di
Mesopotamia, dove, dopo la morte d’Isaac, per paura d’Esaú fuggito
s’era, sí come nel
Genesi
si legge, tutta una notte fece con un uomo da lui non conosciuto alle
braccia; e, non potendo da quell’uomo esser vinto, venendo l’aurora,
disse quell’uomo: – Lasciami. – Al qual Giacob rispose di non
lasciarlo, se da lui benedetto non fosse; il quale colui domandò
come era il nome suo, a cui esso rispose: – Io son chiamato Iacob. –
E quell’uomo disse: – Non fia cosí: il tuo nome sará Israel,
percioché, se tu se’ forte contro Dio, pensa quello che tu potrai
contro agli altri uomini. – E, toccatogli il nervo dell’anca, gliele
indebolí in sí fatta maniera, che sempre poi andò sciancato: per
questa cagione i giudei non mangiano di nervo.

«Col padre», cioè
Isaac, il quale fu figliuolo d’Abraam, «e co’ suoi nati», cioè di
Iacob, li quali furono dodici, acquistati di quattro femmine: e da’
quali li dodici tribi d’Israel ebbero origine, e ciascuna fu
dinominata da uno di questi dodici, cioè da quello dal quale aveva
origine tratta.

«E con Rachele, per
cui tanto fe’». Iacob, il quale avendo per li consigli di Rebecca,
sua madre, ricevute tutte le benedizioni da Isaac, suo padre, le
quali Esaú, quantunque per una minestra di lenti vendute gli avesse,
come di sopra è detto, diceva che a lui appartenevano, sí come a
primogenito, per paura di lui se n’andò in Mesopotamia a Laban,
fratello di Rebecca, sua madre. Il quale Laban avea due figliuole,
Lia e Rachel: e piacendogli Rachel, si convenne con Laban di servirlo
sette anni, ed esso, in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli
dovesse dare per moglie Rachel: e, avendo sette anni servito, ed
essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel essergli data,
la mattina seguente trovò che gli era stata data Laban, messa la
notte preterita nel letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era
cispa. Di che dolendosi al suocero, gli fu risposto che l’usanza
della contrada non pativa che la piú giovane si maritasse prima che
colei che di piú etá fosse; ma, se servire il volesse, gli darebbe,
in capo del tempo, similemente Rachel. Di che convenutisi insieme che
esso servisse altri sette anni, come serviti gli ebbe, gli fu da
Laban conceduta Rachel. E questo è quello che l’autore intende,
quando dice: «Rachele, per cui tanto fe’», cioè tanto tempo serví.

Fu questo Iacob buono
uomo nel cospetto di Dio. E per fame fu costretto egli e’ figliuoli
e’ nipoti di partirsi del paese di Cananea e d’andarne in Egitto; lá
dove Iosef, suo figliuolo, il quale esso per inganno degli altri
figliuoli lungo tempo davanti credeva morto, era prefetto de’ granai
di Faraone; e quivi onoratamente ricevuto, giá vecchio d’etá di
cento dieci anni, morí. E fu il corpo suo con odorifere spezie
seppellito in Egitto, avendo egli avanti la morte scongiurati i
figliuoli che, quando da Dio vicitati fossero e nella terra di
promissione tornassero, seco di quindi l’ossa sue ne portassero.

«E altri molti», sí
come Eva, Set, Sara, Rebecca, Isaia, Ieremia, Ezechiel, Daniel, e gli
altri profeti e Giovanni Batista, e simili a questi; «e fecegli
beati», menandonegli in vita eterna, nella quale è vera e perpetua
beatitudine. «E vo’ che sappi che dinanzi ad essi», cioè innanzi
che costoro beatificati fossero, «Spiriti umani non eran salvati;»
– e ciò era per lo peccato del primo parente, il quale ancora non
era purgato: ma, tolta via quella colpa per la passione di Cristo,
furon quegli, che bene aveano adoperato, liberati dalla prigione del
diavolo, e aperta loro, e a coloro che appresso doveano venire e bene
adoperare, la porta del paradiso.

[Lez.
XII]


«Non lasciavam
l’andar». Questa è la seconda parte principale della seconda di
questo canto, nella quale l’autore dimostra come, procedendo avanti,
pervenisse a vedere la terza spezie degli spiriti che in quel cerchio
dimoravano. Ed in questa parte fa l’autore quattro cose: nella prima
dice sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice come
Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto; nella terza dice
come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel qual vide i
magnifichi spiriti; nella quarta dice come egli e Virgilio dagli
quattro poeti si partissero. La seconda comincia quivi: «Intanto
voce»; la terza quivi: «Cosí andammo infino»; la quarta quivi:
«La sesta compagnia».

Dice adunque: «Non
lasciavam», Virgilio ed io, «l’andar, perch’ei dicessi», cioè
ragionasse; «Ma passavam», andando, «la selva tuttavia»; e,
appresso questo, dichiara se medesimo qual selva voglia dire,
dicendo: «La selva, dico, di spiriti spessi»; volendo in questo
dare ad intendere quello luogo essere cosí spesso di spiriti come le
selve sono d’alberi.

«Non era lunga ancor
la nostra via», cioè non c’eravam molto dilungati, «Di qua dal
sonno», il quale nel principio di questo canto mostra gli fosse
rotto. Alcuna lettera ha: «Di qua dal suono»; ed allora si dee
intendere questo «suono», per quello che fece il tuono il quale il
destò. Ed alcuna lettera ha: «Di qua dal tuono», il quale di sopra
dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è buona, percioché
per alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dell’autore.
«Quando io vidi un fuoco», un lume, «Che emisperio» (emisperio è
la mezza parte d’una spera, cioè d’un corpo ritondo come è una
palla, del quale alcun lume, quantunque grande sia, non può piú
vedere) «di tenebre vincía». Qui non vuole altro dir l’autore, se
non che quel fuoco, ovver lume, vinceva le tenebre, alluminandole
della mezza parte di quello luogo ritondo, a dimostrare che questo
lume non toccava quelle altre due maniere di genti, delle quali di
sopra ha detto, percioché non furon tali, che per gran cose
conosciuti fossero.

«Di lungi n’eravamo»,
da questo lume, «ancora un poco; Ma non sí», n’eravamo lontani,
«che io non discernessi», per lo splendore di quel lume, «in
parte», quasi dica non perciò appieno, «Che orrevol», cioè
onorevole, «gente possedea», cioè dimorando occupava, «quel
loco», nel quale eravamo.

«O
tu», Virgilio; e domanda qui l’autore chi coloro sieno, li quali
hanno luce, dove quegli, che passati sono, non l’hanno: «che
onori», col ben sapere l’una e col bene esercitar l’altra, «ogni
scienza ed arte». [Capta qui l’autore la benivolenza del suo
maestro, commendandolo, e dicendo lui essere onoratore di scienza e
d’arte. Dove è da sapere che, secondo che scrive Alberto sopra il
sesto dell’
Etica
d’Aristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza ed intelletto sono
in cotal maniera differenti, che la sapienza è delle cose divine,
le quali trascendono la natura delle cose inferiori; scienza è
delle cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose
operate da noi, e questa propriamente appartiene alle cose
meccaniche, e, se per avventura questa si prende per la scienza
speculativa, impropriamente è detta «arte», in quanto con le sue
regole e dimostrazioni ne costringe infra certi termini; prudenza è
delle cose che deono essere considerate da noi, onde noi diciamo
colui esser prudente, il quale è buono consigliatore; ma
l’intelletto si dee propriamente alle proposizioni che si fanno, sí
come «ogni tutto è maggiore che la sua parte». Estolle adunque
qui l’autore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che egli
onora «scienza ed arte», bene e maestrevolmente operandole, sí
come appare ne’ suoi libri, ne’ quali esso agl’intelligenti si
dimostra ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale,
il che aspetta alla scienza; ed oltre a ciò si dimostra
mirabilmente avere adoperato in ciò che alla composizione de’ suoi
poemi o alle parti di quegli si richiede, usando in essi l’artificio
di qualunque liberale arte, secondo che le opportunitá hanno
richiesto; e questo appartiene all’arte non meccanica, ma
speculativa. E perciò meritamente queste lode dall’autore
attribuite gli sono.]

«Questi chi sono,
c’hanno tanta orranza», cioè onoranza: il qual vocabolo per cagion
del verso gli conviene assincopare, e dire, per «onoranza»,
«orranza»; «Che dal modo degli altri», li 
quali per infino a qui
abbiam veduti, «gli diparte?» – in quanto hanno alcuna luce, dove
quegli, che passati sono, non hanno.

«E quegli», cioè
Virgilio, disse «a me: – L’onrata», cioè l’onorata, «nominanza»;
puossi qui «nominanza» intender per «fama»; «Che di lor suona su
nella tua vita», nella quale questi cotali, sí nelle scritture
degli antichi, e sí ancora ne’ ragionamenti de’ moderni, raccordati
sono; «Grazia», singulare, «acquista nel ciel», da Dio, «che sí
gli avanza», oltre a quegli che senza luce lasciati abbiamo. –
[Intorno alla qual risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che
della divina giustizia si dice, cioè che ella non lascia alcun male
impunito, né alcun bene inremunerato: percioché questi, de’ quali
l’autor domanda, sono genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene
della republica umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma,
percioché non conobbero Iddio, non fecero le loro buone operazioni
per Dio, e per questo non meritarono l’eterna gloria, la quale Iddio
concede per merito a coloro che, avendo rispetto a lui, adoperan
bene; ma nondimeno, percioché bene adoperarono e dispiacquero loro i
vizi e le mal fatte cose, quantunque il rispetto per ignoranza non
fosse buono, pur pare che essi di ciò alcun premio meritino. Il qual
è, secondo la ‘ntenzion di Virgilio, che la giustizia di Dio renda
loro in sofferire che essi per fama vivano nella presente vita; per
che bene dice esso Virgilio, che la loro onorata nominanza, delle
operazioni ben fatte da loro, acquista grazia nel cielo, la quale
concede loro lume, dove agli altri nol concede.]

«Intanto voce fu».
Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda principale, nella
qual mostra Virgilio essere stato da quattro poeti onoratamente
ricevuto; e dice: «Intanto», cioè mentre Virgilio mi rispondeva
alla domanda fatta, come di sopra appare, «voce». A differenza del
suono, è la voce propriamente dell’uomo, in quanto esprime il
concetto della mente, quando è prolata; ogni altra cosa per la bocca
dell’uomo, o d’alcun altro animale, o di qualunque altra cosa, è [o]
suono [o sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi, secondo la
diversitá delle cose dalle quali nascono. «Fu per me», cioè da
me, «udita», cosí fatta: – «Onorate l’altissimo poeta»; e
questa, per quello che poi segue, mostra che detta fosse, da chi che
se la dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli si fecero.
Ed assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice «altissimo», il
quale adiettivo degnamente si confá a Virgilio, percioché egli di
gran lunga trapassò in iscienza ed in arte ogni latin poeta, stato
davanti da lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia.
«L’ombra sua», cioè di Virgilio, «torna, ch’era dipartita», –
quando andò al soccorso dell’autore, come di sopra è dimostrato.

«Poi che la voce»,
giá detta, «fu ristata e queta, Vidi quattro grand’ombre», non di
statura, ma grandi per dignitá, «a noi venire», come l’uno amico
va a ricoglier l’altro, quando d’alcuna parte torna: «Sembianza
avevan né trista né lieta». In questa discrizione della sembianza
di questi poeti, dimostra l’autore la gravitá e la costanza di
questi solenni uomini; percioché costume laudevole è de’ maturi e
savi uomini non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera o
avversa, ma con eguale e viso e animo le felicitá e le avversitá
sopravvegnenti ricevere; percioché chi altrimenti fa, mostra sé
esser di leggiere animo e di volubile.

«Lo buon maestro»,
Virgilio, «cominciò a dire: – Mira colui con quella spada in mano».
È la spada un istrumento bellico, e però per quella vuol dare
l’autore ad intendere di che materia colui, che la portava, cantasse:
e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in mano,
percioché il primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di
guerre e di battaglie, e per conseguente pare che, chi dopo lui
scritto n’ha, l’abbia avuto da lui. «Che vien dinanzi a’ tre»,
poeti che ‘l seguono, «sí come sire», cioè signore e maggiore.

«Egli è Omero poeta
sovrano». Dell’origine, della vita e degli studi d’Omero, secondo
che diceva Leon tessalo, scrisse un valente uomo greco, chiamato
Callimaco, piú pienamente che alcun altro: nelle scritture del quale
si legge che Omero fu d’umile nazione; percioché in Ismirna, in que’
tempi nobile cittá d’Asia, il padre di lui in publica taverna fu
venditore di vino a minuto, e la madre fu venditrice d’erbe nella
piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, come che in
Ismirna i suoi parenti facessero i predetti esercizi, non si sa
certamente di qual cittá esso natio fosse. È il vero che, per la
sua singular sufficienza in poesí, sette nobili cittá di Grecia
insieme lungamente ebber 
quistione della sua
origine, affermando ciascuna d’esse, e con alcune ragioni
dimostrando, lui essere stato suo cittadino; e le cittá furon
queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon, Pilos, Argos, Atene. E alcune
di queste furono, le quali gli feciono onorevole e magnifica
sepoltura, quantunque fittizia fosse; e ciò fecero per rendere con
quella a coloro, li quali non sapevano dove stato si fosse
seppellito, testimonianza lui essere stato suo cittadino; e quegli di
Smirne, non solamente sepoltura, ma gli fecero un notabile tempio,
nel quale non altrimenti che se del numero de’ loro iddii stato
fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per molte
centinaia d’anni. Fu nondimeno dai piú reputato che egli fosse
ismirneo; o peroché, come detto è, in Smirne fu allevato,
dimorandovi il padre e la madre di lui, o che di ciò gli smirnei
mostrassero piú chiara testimonianza che gli altri dell’altre cittá;
e cosí mostra di credere Lucano dove dice:

Quantum
Smirnaei durabunt vatis honores,

dicendo
d’Omero.

Fu questo valente uomo,
secondo Callimaco, nominato Omero per lo vaticinio di lui detto da un
matematico, il quale per avventura intervenne, nascendo egli, il
quale disse: – Colui che al presente nasce morrá cieco; – e per
questo fu dal padre nominato Omero. Il quale nome è composto
ab
«o»,
che in latino viene a dire «io», e «
mi»,
che in latino viene a dire «non», ed «
ero»,
che in

latino
viene a dire «veggio»: e cosí tutt’insieme viene a dire «io non
veggio»; e, come nel processo apparirá, secondo il vaticinio morí
cieco. Questi dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la
madre, si diede agli studi; e, udite sotto diversi dottori le
liberali arti, lungo tempo udí sotto un poeta chiamato Pronapide,
chiarissimo in quei tempi in quella facultá; e appresso questo,
partitosi di Grecia, seguendo i famosi studi, se n’andò in Egitto,
dove sotto molti valenti uomini udí poesia e filosofia e altre
scienze, e massimamente sotto un filosofo chiamato Falacro, in quegli
tempi sopra ogni altro famoso; ed in Egitto perseverò nel torno di
venti anni, con maravigliosa sollecitudine; e quindi poi se ne tornò
in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere. E cieco e povero si
crede che componesse nel torno di tredici volumi variamente titolati,
e tutti in istilo eroico, de’ quali si trovano ancora alquanti, e
massimamente la
Iliade,
distinta in ventiquattro libri, nella quale tratta delle battaglie
de’ greci e de’ troiani infino alla morte d’Ettore, mirabilmente
commendando Achille. Compose similmente l’
Odissea,
in ventiquattro libri partita, nella quale tratta gli errori
d’Ulisse, li quali dieci anni perseverarono dopo il disfacimento di
Troia. Scrisse similmente un libro delle laude degl’iddii, il cui
titolo non mi ricorda d’aver udito. Scrisse ancora un libro, distinto
in due, nel quale scrisse una battaglia, ovvero guerra, stata tra le
rane e’ topi, la qual non finse senza maravigliosa e laudevole
intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion
degl’iddii, e composene uno chiamato
Egam,
la materia del quale non trovai mai qual fosse; e similmente piú
altri infino in tredici, de’ quali il tempo ogni cosa divorante, e
massimamente dove la negligenza degli uomini il permetta, ha non
solamente tolta la notizia delle materie, ma ancora li loro nomi
nascosi, e spezialmente a noi latini. E, accioché questo non sia
pretermesso, in tanto pregio fu la sua
Iliade
appo gli scienziati e valenti uomini, che, avendo Alessandro
macedonio vinto Dario re di Persia, e presa Persida reale cittá,
trovò in essa tanto tesoro che, vedendolo, obstupefece; ed essendo
in quello molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta
preziosissima per maestero e carissima per ornamento di pietre e di
perle; e co’ suoi baroni, sí come scrive Quinto Curzio, il quale in
leggiadro e laudevole stilo scrisse l’opere del detto Alessandro,
come cosa mirabile riguardandola, domandò qual cosa di quelle, che
essi sapessero, paresse loro piú tosto che alcuna altra da servare
in cosí caro vasello. Non v’ebbe alcuno che la real corona o lo
scettro o altro reale ornamento dicesse; ma tutti con Alessandro
insieme in una sentenza concorsono, cioè che sí preziosa cassa cosa
alcuna piú degnamente serbar non potea che la
Iliada
d’Omero: e cosí a servar questo libro fu deputata.

[Fu Omero nel mangiare
e nel bere moderatissimo, e non solamente fu di breve e poco sonno,
ma quello prese con gran disagio; percioché, o povertá o astinenza
che ne fosse cagione, il suo dormire era in su un pezzo di rete di
funi, alquanto sospeso da terra, senza alcuni altri panni. Fu, oltre
a ciò, poverissimo tanto, che, essendo cieco, non aveva di che
potesse dare le spese ad un 
fanticello che il
guidasse per la via, quando in parte alcuna andar volesse: e la sua
povertá era volontaria, percioché delle temporali sustanze niente
si curava. Fu di piccola statura, con poca barba e con pochi capelli;
di mansueto animo e d’onesta vita e di poche parole. Fu, oltre a ciò,
alcuna volta fieramente infestato dalla fortuna, e, tra l’altre,
essendo in Atene ed avendo parte della sua
Iliade
recitata, il vollero gli ateniesi lapidare, percioché in essa,
poeticamente parlando, aveva scritto gl’iddii l’un contro all’altro
aver combattuto, non sentendo gli ateniesi ancora quali fossero i
velamenti poetici, né quello che per quelle battaglie degl’iddii
Omero s’intendesse: e per questo, credendosi lui esser pazzo, il
vollero uccidere; e, se stato non fosse un valente uomo e potente
nella cittá, chiamato Leontonio, il quale dal furioso émpito degli
ateniesi il liberò, senza dubbio l’avrebbono ucciso. La quale
bestiale ingiuria il povero poeta non lasciò senza vendetta passare,
percioché, appresso questo, egli scrisse un libro il cui titolo fu
De
verbositate Atheniensium
,
nel quale egli morse fieramente i vizi degli ateniesi, mostrando nel
vulgo di quegli nulla altra cosa essere che parole. E altra fiata,
essendo chiamato da Ermolao, re ovvero tiranno d’Atene, quasi
sprezzandolo, disse che, per lui né per tutto il suo regno, non
vorrebbe perdere una menoma sillaba d’un suo verso, e che esso co’
suoi versi possedeva maggior regno che Ermolao non faceva con la sua
gente d’arme. Per la qual cosa, turbato, Ermolao il fece prendere e
crudelmente battere e poi metterlo in pregione; nella quale avendolo
otto mesi tenuto, né per questo vedendolo piegarsi in parte alcuna
dalla libertá dell’animo suo, il fece lasciare; né poté fare che
con lui volesse rimanere.]

[Della morte sua,
secondo che scrive Callimaco, fu uno strano accidente cagione;
percioché, essendo egli in Arcadia ed andando solo su per lo lito
del mare, sentí pescatori, li quali sovra uno scoglio si stavano,
forse tendendo o racconciando lor reti: li quali esso domandò se
preso avessero, intendendo seco medesimo de’ pesci. Costoro risposero
che quegli, che presi aveano, avean perduti, e quegli, che presi non
aveano, se ne portavano. Era stata fortuna in mare, e però, non
avendo i pescatori potuto pescare, come loro usanza è, s’erano stati
al sole, e i vestimenti loro aveano cerchi e purgati di que’ vermini
che in essi nascono: e quegli, che nel cercar trovati e presi aveano,
gli aveano uccisi, e quegli, che presi non aveano, essendosi ne’
vestimenti rimasi, ne portavan seco. Omero, udita la risposta de’
pescatori, ed essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava
sospeso, per caso percosse in una pietra, per la qual cosa cadde, e
fieramente nel cader percosse, e di quella percossa il terzo dí
appresso si morí. Alcuni voglion dire che, non potendo intender la
risposta fattagli da’ pescatori, entrò in tanta maninconia, che una
febbre il prese, della quale in pochi dí si morí, e poveramente in
Arcadia fu seppellito; onde poi, portando gli ateniesi le sue ossa in
Atene, in quella onorevolmente il seppellirono].

Fu adunque costui
estimato il piú solenne poeta che avesse Grecia, né fu pure appo i
greci in sommo pregio, ma ancora appo i latini in tanta grazia, che
per molti eccellenti uomini si trova essere stato maravigliosamente
commendato: e intra gli altri nel quinto delle sue
Quistioni
tusculane
scrive
Tullio cosí di lui: «
Traditum
est etiam Homerum caecum fuisse: at eius picturam, non poësin
videmus. Quae regio, quae ora, qui locus Graeciae, quae species
formae, quae pugna quaeque artes, quod remigium, qui motus hominum,
qui ferarum non ita expictus est, ut quae ipse non viderit, nos ut
videremus effecerit?
»,
ecc. Né si sono vergognati i nostri poeti di seguire in

molte
cose le sue vestigie, e massimamente Virgilio; per la qual cosa
meritamente qui il nostro autore il chiama «poeta sovrano».

[Fiorí adunque questo
mirabile uomo, chiamato da Giustiniano cesare padre d’ogni virtú,
secondo l’opinione d’alcuni, ne’ tempi che Melanto regnava in Atene,
ed Enea Silvio regnava in Alba. Eratostene dice che egli fu cento
anni poi che Troia fu presa. Aristarco dice lui essere stato dopo
l’emigrazion ionica cento anni, regnante Echestrato re di Lacedemonia
e Latino Silvio re d’Alba. Altri voglion che fosse dopo questo tempo
detto, essendo Labot re di Lacedemonia ed Alba Silvio re d’Alba.
Filocoro dice che egli fu a’ tempi di Archippo, il quale era appo gli
ateniesi nel supremo maestrato, cioè centonovanta anni dopo la
presura di Troia. Archiloco dice che egli fu corrente la
ventitreesima olimpiade, cioè cinquecento anni dopo il disfacimento
di Troia. Apollodoro grammatico ed Euforbo istoriografo testimoniano
Omero essere stato avanti che Roma 
fosse fatta,
centoventiquattro anni: e, come dice Cornelio Nepote, avanti la prima
olimpiade cento anni, regnante appo i latini Agrippa Silvio ed in
Lacedemonia Archelao. Del quale per ciò cosí particulare
investigazion del suo tempo ho fatta, perché comprender si possa,
poi tanti valenti uomini di lui scrissero, quantunque concordi non
fossero, ciò avvenuto non poter essere se non per la sua preeminenza
singulare].

[Lez.
XIII]

«L’altro è Orazio
satira, che viene». Orazio Flacco fu di nazione assai umile e
depressa, percioché egli fu figliuolo d’uomo libertino: e
«libertini» si dicevan quegli, li quali erano stati figliuoli
d’alcun servo, il quale dal suo signore fosse stato in libertá
ridotto, e chiamavansi questi cotali «liberti»; e fu di Venosa,
cittá di Puglia, e nacque sedici anni avanti che Giulio Cesare fosse
fatto dettatore perpetuo. Dove si studiasse, e sotto cui, non lessi
mai che io mi ricordi; ma uomo d’altissima scienza e di profonda fu,
e massimamente in poesia fu espertissimo. La dimora sua, per quello
che comprender si possa nelle sue opere, fu il piú a Roma, dove
venuto, meritò la grazia d’Ottavian Cesare, e fugli conceduto
d’essere dell’ordine equestre, il quale in Roma a que’ tempi era
venerabile assai. Fu, oltre a ciò, fatto maestro della scena; e
singularmente usò l’amistá di Mecenate, nobilissimo uomo di Roma ed
in poesia ottimamente ammaestro. Usò similmente quella di Virgilio e
d’alcuni altri eccellenti uomini; e fu il primiero poeta che in
Italia recò lo stile de’ versi lirici, il quale, come che in Roma
conosciuto non fosse, era lungamente davanti da altre nazioni avuto
in pregio, e massimamente appo gli ebrei; percioché, secondo che san
Geronimo scrive nel proemio
libri
Temporum
d’Eusebio
cesariense, il quale esso traslatò di greco in latino, in versi
lirici fu da’

salmisti
composto il salterio. E questo stile usò Orazio in un suo libro, il
quale è nominato
Ode.
Compose, oltre a ciò, un libro chiamato
Poetria,
nel quale egli ammaestra coloro, li quali a poesia vogliono
attendere, di quello che operando seguir debbono e di quello da che
si debbon guardare, volendo laudevolmente comporre. Negli altri suoi
libri, sí come nelle
Pistole
e nei
Sermoni,
fu acerrimo riprenditore de’ vizi; per la qual cosa meritò d’essere
chiamato poeta «satiro». Altri libri de’ suoi, che i quattro
predetti, non credo si truovino. Morí in Roma d’etá di
cinquantasette anni, secondo Eusebio dice
in
libro Temporum
,
l’anno trentasei dello ‘mperio d’Ottaviano Augusto.

«Ovidio è il terzo».
Publio Ovidio Nasone fu nativo della cittá di Sulmona in Abruzzo, sí
come egli medesimo in un suo libro, il quale si chiama
De
tristibus
,
testimonia, dicendo:

Sulmo
mihi patria est, gelidis uberrimus undis,

milia
qui decies distat ab Urbe novem.

E, secondo che Eusebio
in
libro Temporum

dice, egli nacque nella patria sua il primo anno del triumvirato di
Ottaviano Cesare: e fu di famiglia assai onesta di quella cittá, e
dalla sua fanciullezza maravigliosamente fu il suo ingegno
inchinevole agli studi della scienza. Per la qual cosa, sí come esso
mostra nel preallegato libro, il padre piú volte si sforzò di farlo
studiare in legge, sí come faceva un suo fratello, il quale era di
piú tempo di lui; ma, traendolo la sua natura agli studi poetici,
avveniva che, non che egli in legge potesse studiare, ma, sforzandosi
talvolta di volere alcuna cosa scrivere in soluto stile, quasi senza
avvedersene, gli venivano scritti versi; per la qual cosa esso dice
nel detto libro:

Quidquid
conabar scribere, versus erat.

Della
qual cosa il padre, dice, che piú volte il riprese, dicendo:

Saepe
pater dixit: – Studium quid inutile temptas?

Maeonides
nullas ipse reliquit opes. –

Per la qual cosa,
eziandio contro al piacer del padre, si diede tutto alla poesia; e,
divenuto in ciò eruditissimo uomo, lasciata la patria, se ne venne a
Roma, giá imperando Ottaviano Augusto, 
dove singularmente
meritò la grazia e la familiaritá di lui; e per la sua opera fu
ascritto all’ordine equestre, il quale, per quello che io possa
comprendere, era quel medesimo che noi oggi chiamiamo «cavalleria»;
e, oltre a ciò, fu sommamente nell’amore de’ romani giovani.

Compose costui piú
libri, essendo in Roma, de’ quali fu il primo quello che chiamiamo
l’
Epistole.
Appresso ne compose uno, partito in tre, il quale alcuno chiama
Liber
amorum
,
altri il chiamano
Sine
titulo
:
e può l’un titolo e l’altro avere, percioché d’alcun’altra cosa non
parla che di suoi innamoramenti e di sue lascivie usate con una
giovane amata da lui, la quale egli nomina Corinna; e puossi dire
similmente
Sine
titulo
,
percioché d’alcuna materia continuata, della quale si possa
intitolare, non favella, ma alquanti versi d’una e alquanti
d’un’altra, e cosí possiamo dir di pezzi, dicendo, procede. Compose
ancora un libro, il quale egli intitolò
De
fastis et nefastis
,
cioè de’ dí ne’ quali era licito di fare alcuna cosa e di quegli
che licito non era, narrando in quello le feste e’ dí solenni
degl’iddii de’ romani, ed in che tempo e giorno vengano, come appo
noi fanno i nostri calendari; e questo libro è partito in sei libri,
nei quali tratta di sei mesi: e per questo appare non esser compiuto,
o che piú non ne facesse, o che perduti sien gli altri. Fece, oltre
a questo, un libro, il quale è partito in tre, e chiamasi
De
arte amandi
,
dove egli insegna e a’ giovani ed alle fanciulle amare. E, oltre a
questo, ne fece un altro, il quale intitolò
De
remedio
,
dove egli s’ingegna d’insegnare disamorare. E fece piú altri
piccioli libretti, li quali tutti sono in versi elegiati, nel quale
stilo egli valse piú che alcun altro poeta. Ultimamente compose il
suo maggior volume in versi esametri, e questo distinse in quindici
libri; e secondo che esso medesimo scrive nel libro
De
tristibus,
convenendogli di Roma andare in esilio, non ebbe spazio d’emendarlo.

Appresso, qual che la
cagion si fosse, venuto in indegnazione d’Ottaviano, per comandamento
di lui ne gli convenne, ogni sua cosa lasciata, andare in una isola,
la quale è nel Mar maggiore, chiamata Tomitania: ed in quella
relegato da Ottaviano, stette infino alla morte. E questa isola nella
piú lontana parte che sia nel Mar maggiore nella foce d’un fiume de’
colchi, il quale si chiama
Phasis.
E in questo esilio dimorando, compose alcuni libri, sí come fu
quello
De
tristibus
,
in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli intitolò
In
Ibin
.
Composevi quello che egli intitola
De
Ponto
,
e tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo.

La
cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, sí come
egli scrive nel libro 
De
tristibus
,
mostra fosse l’una delle due o amendue; e questo mostra scrivendo:

Perdiderunt
me cum duo crimina, carmen et error.

La prima adunque dice
che fu l’aver veduta alcuna cosa d’Ottavian Cesare, la quale esso
Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta avesse: e di questa si
duol molto nel detto libro, dicendo:

Cur
aliquid vidi, cur lumina noxia feci?

Ma
che cosa questa si fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo
convenirgliele tacere, quivi:

Alterius
facti culpa silenda mihi est.

La seconda cagione dice
che fu l’avere composto il libro
De
arte amandi
,
il quale pareva molto dover adoperare contro a’ buon costumi de’
giovani e delle donne di Roma. E di questo nel detto libro si duol
molto, e quanto può s’ingegna di mostrare questo peccato non aver
meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono
lui essersi inteso in Livia moglie d’Ottaviano, e lei esser quella la
quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in
Ottaviano alcuna sospezione, essere stata cagione dello esilio
datogli. Ultimamente, essendo giá d’etá di cinquantotto anni,
l’anno quarto di Tiberio Cesare, secondo che Eusebio
in
libro Temporum

scrive, nella predetta isola Tomitania finí i giorni suoi, e quivi
fu seppellito.

Sono nondimeno alcuni
li quali mostrano credere lui essere stato rivocato da Ottaviano a
Roma: della qual tornata molti romani facendo mirabil festa, e per
questo a lui ritornante fattisi 
incontro, fu tanta la
moltitudine, la quale senza alcuno ordine, volendogli ciascun far
motto e festa, che nel mezzo di sé inconsideratamente stringendolo,
il costrinse a morire.

«E l’ultimo è
Lucano». Il nome di costui, secondo che Eusebio
in
libro Temporum

scrive, fu Marco Anneo Lucano. Dove nascesse, o in Corduba, donde i
suoi furono, o in Roma, non è assai chiaro. Fu figliuolo di Lucio
Anneo Mela e d’Atilla sua moglie; il quale Anneo Mela fu fratel
carnale di Seneca morale, maestro di Nerone. Giovane uomo fu e di
laudevole ingegno molto, sí come nel libro
Delle
guerre cittadine

tra Cesare e Pompeo, da lui composto, appare. Fu alquanto presuntuoso
in estimare della sua sufficienza, oltre al convenevole; percioché
si legge che, avendo egli alcuna volta con gli amici suoi conferito,
leggendo, del suo libro, dovette una volta dire: – Che dite? mancaci
cosa alcuna ad essere equale al Culice? – Culice fu un libretto
metrico, il quale compose Virgilio, essendo ancora giovanetto: e
posto che sia laudevole e bello, non è però da comparare
all’
Eneida:
e quantunque Lucano il Culice nominasse, fu assai bene dagli amici
compreso (in sí fatta maniera il disse) che egli voleva che
s’intendesse se alcuna cosa pareva loro che al suo lavoro mancasse ad
essere equale all’
Eneida;
della qual cosa esso maravigliosamente se medesimo ingannò. Appresso
fu costui, che cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone,
in tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da
alcun letti. Sono, oltre a ciò, e furono assai, li quali estimarono
e stimano costui non essere da mettere nel numero de’ poeti,
affermando essergli stata negata la laurea dal senato, la quale come
poeta addomandava: e la cagione dicono essere stata, percioché nel
collegio dei poeti fu determinato costui non avere nella sua opera
tenuto stilo poetico, ma piú tosto di storiografo metrico: e questo
assai leggermente si conosce esser vero a chi riguarda lo stilo
eroico d’Omero o di Virgilio, o il tragedo di Seneca poeta, o il
comico di Plauto o di Terenzio, o il satiro d’Orazio o di Persio o di
Giovenale, con quello de’ quali quello di Lucano non è in alcuna
cosa conforme: ma come ch’e’ si trattasse, maravigliosa eccellenza
d’ingegno dimostra. Esso, ancora assai giovane uomo, fu da Nerone
Cesare trovato essere in una congiurazione fatta contro a lui da un
nobile giovane romano chiamato Pisone, con molti altri consenziente:
e ritenuto per quella, avendo veduto, secondo che Cornelio Tacito
scrive, una femmina volgare chiamata Epicari, avere tutti i tormenti
vinti, e ultimamente uccisasi, avanti che alcun de’ congiurati
nominar volesse; non solamente alcuno n’aspettò per non accusare se
medesimo, ma eziandio non sofferse di vedere né i tormenti né i
tormentatori, ma, come domandato fu se in questa congiurazione era
colpevole, prestamente il confessò, e non solamente gli bastò
d’avere accusato sè, ma con seco insieme accusò Atilla sua madre.
Per la qual cosa morto giá Lucio Anneo Seneca, suo zio, essendo a
Marco Annenio commesso da Nerone che morire il facesse, si fece in un
bagno aprir le vene; e, sentendo giá per lo diminuimento del sangue
le parti inferiori divenir fredde, secondo che scrive il predetto
Cornelio, ricordatosi di certi versi giá composti da lui d’uno uom
d’arme, il quale per perdimento di sangue morire si vedeva, quegli a’
circustanti raccontò, ed in quegli l’ultime sue parole e la vita
finirono.

«Peroché ciascun»,
di questi quattro nominati, «meco si conviene», cioè si confá o è
conforme, «nel nome che sonò la voce sola», cioè quella che dice
che udí: «Onorate l’altissimo poeta». Nella qual voce «sola» non
è alcun altro nome sustantivo se non «poeta»: nel qual nome dice
questi quattro convenirsi con lui, in quanto ciascun di questi
quattro è cosí chiamato poeta come Virgilio: ma in altro con lui
non si convengono; percioché le materie, delle quali ciascun di loro
parlò, non furono uniformi con quella di che scrisse Virgilio: in
quanto Omero scrisse delle battaglie fatte a Troia e degli errori
d’Ulisse, Orazio scrisse ode e satire, Ovidio epistole e
trasformazioni, Lucano le guerre cittadine di Cesare e di Pompeo, e
Virgilio scrisse la venuta d’Enea in Italia e le guerre quivi fatte
da lui con Turno re de’ rutoli. «Fannomi onore, e di ciò fanno
bene». Convenevole cosa è onorare ogni uomo, ma spezialmente quegli
li quali sono d’una medesima professione, come costoro erano con
Virgilio.

«Cosí», come scritto
è, «vidi adunar», cioè congregare, essendosi Virgilio congiunto
con loro, «la bella scuola». «Scuola» in greco viene a dire
«convocazione» in latino, percioché per essa son convocati coloro
li quali disiderano sotto l’audienza de’ piú savi apprendere; il
qual vocabolo,


conciosiacosaché sia
alquanto discrepante da quello che l’autore mostra di voler sentire,
cioè non adunarsi la convocazione, ma i convocati, nondimeno
tollerar si può per licenza poetica, ed intender per la
«convocazione» i «convocati». «Di que’ signor», cioè maestri e
maggiori, «dell’altissimo canto», cioè del parlar poetico, il
quale senza alcun dubbio ogni altro stilo trapassa, sí come nelle
parole seguenti l’autor medesimo dice. «Che sopra ogni altro come
aquila vola». Cioè, come l’aquila vola sopra ogni altro uccello,
cosí il canto poetico, e massimamente quello di questi poeti, vola
sopra ogni altro canto, e ancora sopra quello che alcun altro poeta
da costoro in fuori avesse fatto: il che, posto che d’alcuni, non
credo di tutti si verificasse.

«E poi ch’egli ebber
ragionato alquanto». Puossi qui comprendere per l’atto seguitone,
che dice si volson verso lui «con salutevol cenno», che essi
ragionassero dell’autore, domandando gli altri Virgilio chi fosse
colui il quale seco menava: ed esso dicendolo loro, e commendando
l’autore molto (come i valenti uomini fanno, che sempre commendano
coloro de’ quali parlano, se giá non fossono evidentemente uomini
infami); ne seguí ciò che appresso dice, cioè: «Volsonsi a me con
salutevol cenno, E ‘l mio maestro sorrise di tanto», cioè
rallegrossi, come colui al quale dilettava uomini di tanta autoritá
aver prestata fede alle sue parole, e per quelle onorar colui, il
quale esso commendato avea. È nondimeno qui da considerare la parola
che dice, «sorrise», la qual molti prenderebbono non per essersi
rallegrato, ma quasi schernendo quello aver fatto: la qual cosa del
tutto non è da credere, percioché l’autore non l’avrebbe scritto,
né è verisimile il dottore farsi beffe de’ suoi uditori;
conciosiacosaché nell’ingegno de’ buoni uditori consista gran parte
dell’onor del dottore; ma senza alcun dubbio puose l’autore quella
parola «sorrise» avvedutamente, e la ragione può esser questa. È
il riso solamente all’umana spezie conceduto: alcun altro animale non
è che rida. E questo mostra avere la natura voluto, accioché
l’uomo, non solamente parlando, ma ancora per quello mostri
l’intrinsica qualitá del cuore, la letizia del quale prestamente,
molto piú che per le parole, si dimostra per lo riso. È il vero che
questo riso non in una medesima maniera l’usano gli stolti che fanno
i savi; percioché i poco avveduti uomini fanno le piú delle volte
un riso grasso e sonoro, il quale rende la faccia deforme e fa
lagrimar gli occhi e ampliar la gola e doler gli emuntori del cerebro
e le parti interiori del corpo vicine al polmone; e questo non è
laudevole. Ma i savi non ridono a questo modo, anzi, quando odono o
veggono cosa che piaccia loro, sorridono, e di questo scintilla per
gli occhi una letizia piacevole, la quale rende la faccia piú bella
assai che non è senza quello. Per che assai ben comprender si puote,
l’autore aver detto Virgilio, come savio, aver sorriso di quello che
a grado gli fu. Sono nondimeno alcuni che par talvolta che sorridano
quando alcuna cosa scherniscono, o talvolta, sdegnando, si turbano.
Questo non è da dir «sorridere», anzi è «ghignare»; e procede
non da letizia, ma da malizia d’animo, per la qual ci sforziamo di
volere frodolentemente mostrare che ci piaccia quello che ci
dispiace.

«E piú d’onore ancora
assai mi fenno», cioè feciono, non essendo contenti solamente ad
averlo salutato. E l’onor che gli fecero fu questo: «Che e’ mi fecer
della loro schiera», cioè mi dichiariron fra loro esser poeta; e
questo propriamente aspetta a coloro, li quali conoscono e sanno che
cosa sia poesia, sí come uomini che in quella sono ammaestrati: e
questo fu per certo solenne onore. «Sí ch’io fui sesto tra cotanto
senno», cioè tra’ cinque altri cosí notabili poeti, io mi trovai
essere stato sesto in numero; in sofficienza non dice, percioché
sarebbe paruto troppo superbo parlare. Molti nondimeno redarguiscono
per questa parola l’autor di iattanza, dicendo ad alcuno non star
bene né esser dicevole il commendar se medesimo; la qual cosa è
vera: nondimeno il tacer di se medesimo la veritá alcuna volta
sarebbe dannoso; e perciò par di necessitá il commendarsi d’alcun
suo laudevole merito alcuna fiata. E questo n’è assai dichiarato per
Virgilio pel primo dell’
Eneida,
laddove esso discrive Enea essere stato sospinto da tempestoso mare
nel lito affricano, dove non sapendo in che parte si fosse, e
trovando la madre in forma di cacciatrice in un bosco, e da lei
domandato chi egli fosse, il fa rispondere:

Sum
pius Aeneas, fama super aethera notus.


Direm noi qui Virgilio,
uomo pieno di tanto avvedimento e intento a dimostrare Enea essere
stato in ciascuna sua operazione prudentissimo uomo, aver fatto
rispondere Enea contro al buon costume? Certo no: Né è da credere
lui senza gran cagione aver ciò fatto. Che dunque diremo? Che,
considerato il luogo nel quale Enea era, gli fu di necessitá,
rispondendo, di commendar se medesimo; percioché, se di sé quivi
avesse taciuta la veritá, ne gli potea assai sconcio seguire, in
quanto non sarebbe stato a cui caler di lui, che aveva bisogno, sí
come naufrago, della sovvenzione de’ paesani: il quale non è dubbio
niuno, che, avendo di se medesimo detto il vero, cioè che egli non
rubatore, non di vil condizione, ma che pietoso uomo era, e ancora
molto per fama conosciuto, avrebbe molto piú tosto trovato che se
questo avesse taciuto. E, accioché a provare questa veritá aiutino
i divini esempli, mi piace di producere in mezzo quello che noi nello
Evangelio leggiamo, cioè che Cristo figliuol di Dio, avendo il dí
della sua ultima cena in terra lavati i piedi a’ suoi discepoli, tra
l’altre cose da lui dette loro in ammaestramento, disse queste
parole: – «Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene, percioché
io sono». – Direm noi in questo Cristo aver peccato? o contro ad
alcun buon costume avere adoperato? Certo no, percioché né in
questo né in altra cosa peccò giammai colui che era toglitore de’
peccati, e che col suo preziosissimo sangue lavò le colpe nostre:
anzi cosí questo come gli altri suoi atti tutti ottimamente fece;
percioché, se cosí fatto non avesse, non avrebbe dato l’esempio
dell’umiltá a’ suoi discepoli, il quale lavando loro i piedi aveva
inteso di dare, se confessato non avesse, anzi detto, esser loro
maestro e signore, come il chiamavano. Il che assai si vede per le
parole seguenti dove dice: – «E se io, il quale voi chiamate Maestro
e Signore, e cosí sono, ho fatto questo di lavarvi i piedi: cosí
dovrete voi l’uno all’altro lavare i piedi. Io v’ho dato l’esempio.
Come io ho fatto a voi, e cosí similmente fate voi», – ecc. Adunque
è talvolta di necessitá di parlar bene di se medesimo, senza
incorrere nel disonesto peccato della iattanza: e cosí si può dire
che qui facesse l’autore.

[Dissesi di sopra,
nella esposizione del titolo generale della presente opera, però
convenirsi cognoscere e sapere chi stato fosse l’autore d’alcun
libro, per discernere se da prestar fosse fede alle cose dette da
lui, la qual molto pende dall’autoritá d’esso. E perciò qui
l’autore, dovendo in questo suo trattato poeticamente scrivere dello
stato dell’anime dopo la morte temporale, accioché prestata gli sia
fede, di necessitá confessa qui esser da’ poeti dichiarato poeta.]

«Cosí andammo infino
alla lumera». Questa è la terza parte della seconda principale,
nella quale esso dice come con quegli cinque poeti entrasse in un
castello, nel quale vide i magnifichi spiriti, e di quegli alquanti
nomina. Dice adunque: «Cosí andammo», questi cinque poeti ed io,
«infino alla lumera», cioè insino al luogo dimostrato di sopra,
dove disse sé aver veduto un fuoco, il quale vinceva emisperio di
tenebre; «Parlando», insieme, «cose, che il tacere è bello»,
cioè onesto, «Cosí come», era bello, «il parlar», di quelle
cose, «colá dov’era». Intorno a queste parole sono alcuni che si
sforzano d’indovinare quello che debbano poter aver ragionato questi
savi: il che mi par fatica superflua. Che abbiam noi a cercar che ciò
si fosse, poi che l’autore il volle tacere? «Venimmo a piè d’un
nobile castello», cioè nobilmente edificato, «Sette volte
cerchiato d’alte mura, Difeso intorno», cioè circundato, «d’un bel
fiumicello». «Questo», fiumicello, «passammo come terra dura»,
cioè non altrimenti che se terra dura stato fosse; «Per sette
porti», le quali il castello avea, come sette cerchi di mura,
«entrai con questi savi», predetti; «Venimmo», passate le sette
porti, «in prato di fresca verdura». Allegoricamente è da
intendere il castello e la verdura, percioché né edificio alcun
v’è, né alcun’erba può nascere nel ventre della terra, dove né
sole né aere puote intrare.

«Genti v’avea».
Venuti al luogo dove i famosi sono, discrive l’autor primieramente
alcuno de’ lor costumi e modi, per li quali comprender si puote loro
esser persone di grande autoritá, e appresso ne nomina una parte.
Dice adunque: «Genti v’avea», in quel luogo, «con occhi tardi e
gravi». Dimostrasi molto nel muover degli occhi della qualitá
dell’animo, percioché coloro, li quali muovono la luce dell’occhio
soavemente o con tarditá, o con le palpebre quasi gravi in parte gli
cuoprono, dimostrano l’animo loro esser pesato ne’ consigli, e non
corrente nelle diliberazioni. «Di grande autoritá ne’ lor
sembianti», in quanto sono nel viso modesti, guardandosi dal
superchio e 
grasso riso e dagli
altri atti che abbiano a dimostrare levitá. «Parlavan rado»,
percioché nel molto parlare, se necessitá non richiede, e ancora
nel troppo tosto e veloce parlare, non può esser gravitá; «con
voci soavi», percioché il gridare e l’elevar la voce soperchio si
manifesta piú tosto abbondanza di caldezza di cuore che modestia
d’animo. «Traemmoci cosí dall’un de’ canti», cioè dall’una delle
parti di quel luogo. E son prese queste parole dell’autore da
Virgilio nel sesto dell’
Eneida,
ove dice:

Conventus
trahit in medios, turbamque sonantem:

et
tumulum capit, unde omnes longo ordine possit

adversos
legere, et venientum discere vultus, ecc.

«In luogo aperto»,
cioè senza alcun ostacolo, «luminoso e alto»; percioché, del
pari, non si può vedere ogni cosa, «Sí che veder si potean tutti
quanti», quegli li quali quivi erano.

«Colá diritto, sopra
‘l verde smalto», cioè sopra il verde pavimento. Il qual dice
«verde», percioché di sopra ha detto: «Venimmo in prato di fresca
verdura», per che appare che il luogo era erboso; la qual cosa, come
poco avanti dissi, è contro a natura del luogo, e perciò si può
comprendere lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura;
il che nella esposizione allegorica si dichiarerá. «Mi fûr
mostrati», da quegli cinque poeti, «gli spiriti magni», cioè gli
spiriti di coloro li quali nella presente vita furono di grande
animo, e furono nelle loro operazioni magnifichi; «Che del vedere»,
cosí eccellenti spiriti, «in me stesso n’esalto», cioè me ne
reputo in me medesimo esser maggiore.

[Lez.
XIV]

«I’ vidi Elettra».
Elettra, questa della quale qui si dee credere che l’autore intenda,
fu figliuola di Atalante e di Pleione; ma di quale Atalante non so,
percioché di due si legge che furono. De’ quali l’uno è questi, e
piú famoso: fu re di Mauritania in ponente di contro alla Spagna, ed
il cui nome ancora tiene una gran montagna, la quale, dal mare oceano
Atalantiaco andando verso levante, persevera molte giornate. L’altro
fu greco, e questi nondimeno fu famoso uomo. Ragionasi, oltre a
questi, esserne stato un terzo, e quello essere stato toscano ed
edificatore della cittá di Fiesole, del quale in autentico libro non
lessi giammai. Sono nondimeno di quegli che credono lui essere stato
il padre d’Elettra, né altro ne sanno mostrare, se non la vicinanza
del luogo dove maritata fu, cioè in Corito, cittá, ovvero castello,
non guari lontano a Roma. [Ebbe costei sei sirocchie, chiamate con
lei insieme Pliade, dal nome della madre, chiamata, come detto è,
Pleione: le quali sette sirocchie, secondo le favole de’ poeti,
percioché nutricaron Bacco, meritarono essere trasportate in cielo,
ed in forma di stelle poste nel ginocchio del segno chiamato Tauro.
Delle quali scrive Ovidio nel suo
De
fastis

cosí:

Pliades
incipiunt humeros relevare paternos:

quae
septem dici, sex tamen esse solent.

Seu
quod in amplexum sex hinc venere Deorum:

nam
Steropen Marti concubuisse ferunt,

Neptuno
Halcyonen, et te, formosea Celaeno:

Maian
et Electron Taygetenque lovi:

septima
mortali Merope tibi, Sisyphe, nupsit.

Poenitet:
et facti sola pudore latet.

Sive
quod Electra Troiae spectare ruinas


non tulit, ante
oculos opposuitque manum.

Secondo gli astrologi,
l’una di queste sette stelle è nebulosa, e però come l’altre non
apparisce. Chiamanle quelle stelle i latini «virgiliane». Anselmo,
in
libro De imagine mundi
,
dice che queste stelle non si chiamano Pliade dal nome della madre
loro, ma dalla quantitá, percioché «
plion»
in greco viene a dire «moltitudine» in latino. «Virgilie» son
chiamate, percioché in quelli tempi, che i virgulti cominciano a
nascere, si cominciano a levare, cioè all’entrata di marzo. Il
numero loro, che son sette, puote aver data cagione alla favola,
percioché, essendo simili in numero alle predette sette stelle,
furon cominciate a chiamare dalla gente per lo nome di quelle stelle;
e, perseverando eziandio dopo la morte loro questo nome, furon dal
vulgo stolto credute essere state trasportate in cielo. L’avere
nutricato Bacco può essere preso da questo: quando il sole è in
Vergine, queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con la
loro umiditá riconfortano le vigne, le quali per lo calor del dí
sono faticate, avendo patito mancamento d’umido. Che esse abbiano
nutrito Giove si dice per questa cagione: Giove alcuna volta
s’intende per lo elemento del fuoco e dell’aere, e se nell’aere
umiditá non fosse, per la quale il calor del fuoco a lei vicino si
temperasse, l’aere non potrebbe i suoi effetti adoperare, sí sarebbe
affocata: adunque l’umiditá di queste stelle, che è molta, 
cagione di questa
sustentazione, e per conseguente di nutrimento.] E fu costei moglie
di Corito, re della sopra detta cittá di Corito, la quale estimo da
lui denominata fosse. E sono di quegli che vogliono questo Corito
essere quella terra la qual noi oggi chiamiamo Corneto; e a questa
intenzione forse agevolmente s’adatterebbe il nome, percioché,
aggiunta una «n» al nome di Corito, fará Cornito: e queste
addizioni, diminuizioni e permutazioni di lettere essere ne’ nomi
antichi fatte sovente si truovano.

Essendo adunque costei,
come detto è, moglie di Corito re, gli partorí tre figliuoli,
Dardano e Iasio e Italo: né altro di lei mi ricorda aver letto
giammai che memorabile sia. Credo adunque per questo saranno di
quegli che si maraviglieranno perché tra gli spiriti magni non
solamente dall’autor posta sia, ma ancora perché la prima nominata:
della qual cosa può essere la cagion questa. Volle, per quello che
io estimo, l’autore porre qui il fondamento primo della troiana
progenie (e per conseguente de’ discendenti d’Enea) e della famiglia
de’ Iulii, le quali, o vogliam dir la quale, piú che alcun’altra è
stata reputata splendida per nobiltá di sangue, e, oltre a questo,
quella che in piú secoli è perseverata ne’ suoi successori:
percioché, come assai manifestamente per autentichi libri si
comprende, per quattro o per cinque mezzi discendendo, per diritta
linea si pervenne da Dardano, figliuolo d’Elettra, ad Anchise, e da
Anchise, per diciasette o forse diciotto, si pervenne in Numitore,
padre d’Ilia, madre di Romolo, edificatore di Roma; e per Giulio
Proculo, figliuolo d’Agrippa Silvio, che de’ discendenti d’Enea fu,
si fondò in Roma la famiglia Iulia, parte della quale furono i
Cesari, li quali perseverarono infino in Neron Cesare. E d’altra
parte, secondo che alcuni si fanno a credere, essendo per piú mezzi
Ettor disceso di Dardano, dicono che, dopo il disfacimento d’Ilione,
certi figliuoli d’Ettore essersene andati in Trazia, e quivi aver
fatta una cittá chiamata Sicambria; e de’ lor discendenti, dopo
lungo tempo, esserne andati su per lo Danubio e pervenuti infino
sopra il Reno, il quale Germania divide da’ Galli; e appresso, dopo
piú centinaia d’anni, dietro a due giovani reali di quella schiatta
discesi, de’ quali l’un dicono essere stato chiamato Francone e
l’altro Marcomanno, essere passati in Gallia, e quivi aver data
origine e principio alla progenie de’ reali di Francia: e cosí
infino a’ nostri dí voglion dire che pervenuta sia.

Ma potrebbe nondimeno
dire alcuno: se l’autore voleva il principio di cosí nobile e cosí
antica schiatta porre, perché non poneva egli Corito il marito di
questa Elettra? A che si può cosí rispondere: perché,
conciosiacosaché di questa origine fosse Dardano, figliuolo
d’Elettra, cominciamento, per gli errori degli antichi si dubitò di
cui Dardano fosse stato figliuolo, o di Corito o di Giove: e però,
non avendo questo certo, volle porre l’autore inizio di questa
progenie colei di cui era certo Dardano essere stato figliuolo. E il
credere che Dardano fosse stato figliuol di Giove nacque da questo:
che, essendo morto Corito, e per la successione del regno nata
quistione tra Dardano e Iasio, avvenne che Dardano uccise Iasio; di
che vedendo egli i sudditi turbati, prese navi e parte del popolo
suo, e, da Corito partitosi, dopo alcune altre stanzie, pervenne in
Frigia, provincia 
della minore Asia, dove
un re chiamato Tantalo regnava: dal quale in parte del reggimento
ricevuto, fece una cittá la quale nominò Dardania; a’ suoi
cittadini diede ottime e laudevoli leggi: ed essendo umano e benigno
uomo e giustissimo, estimarono quegli cotali lui non essere stato
figliuolo d’uomo, ma di Giove: e questo, percioché le sue operazioni
erano molto conformi agli effetti di quel pianeto, il quale noi
chiamiamo Giove. [E regnò questo Dardano, secondo che scrive Eusebio
in
libro

Temporum,
a’ tempi di Moisé, regnando in Argo Steleno: e in Frigia pervenne
l’anno del mondo

tremila
settecentotrentasette]. Cosí adunque quello che prima era certo,
cioè lui essere stato figliuolo di Corito, si convertí in dubbio, e
però non il padre, ma la madre, come detto è, puose in questo luogo
primiera.

«Con molti compagni.»
Questi estimo erano de’ discesi di lei, tra’ quali ne furono
alquanti, piú che gli altri famosi e laudevoli uomini. De’ quali
compagni ne nomina l’autore alcuno, dicendo:

«Tra’ quai conobbi»,
per fama, «Ettore», figliuol di Priamo, re di Troia, e d’Ecuba.
Costui si crede che fosse in fatti d’arme e forza corporale tra tutti
i mortali maravigliosissimo uomo, e cosí appare nella
Iliada
d’Omero per tutto. Ultimamente, avendo molte vittorie avute de’
greci, avvenne che, avendo Achille, ad istanzia de’ prieghi di
Nestore, non volendo combattere egli, conceduto a Patrocolo, suo
singulare amico, che egli per un dí si vestisse l’armi sue, e
Patrocolo con esse in dosso essendo disceso nella battaglia, come da
Ettor fu veduto, fu da lui estimato esso essere Achille: per la qual
cosa dirizzatosi verso lui, senza troppo affanno vintolo, l’uccise, e
spogliògli quelle armi, e, quasi d’Achille tronfando, se ne tornò
con esse nella cittá. La qual cosa avendo Achille sentita, pianta
amaramente la morte del suo amico, e altre armi trovate, discese
fieramente animoso contro ad Ettore nella battaglia. Avvenutosi ad
Ettore, con lui combatté e, ultimamente vintolo, l’uccise. E tanto
poté in lui l’odio, il quale gli portava per la morte di Patrocolo,
che, spogliatogli l’armi, e legato il morto corpo dietro al carro
suo, tre volte intorno intorno alla cittá d’Ilione lo strascinò: e
quindi alla tenda sua ritornato, il guardò dodici dí senza
sepoltura, infino a tanto che Priamo, di notte e nascostamente venuto
alla sua tenda, quello con grandissimo tesoro e molte care gioie
ricomperò, e, portatonelo nella cittá, con molte sue lacrime e
degli altri suoi e di tutti i troiani, onorevolmente il seppellí.

«Ed Enea». Questi fu
figliuolo, secondo che i poeti scrivono, d’Anchise troiano e di
Venere, e nacque sopra il fiume chiamato Simoente, non guari lontano
ad Ilione, al quale poi Priamo, re di Troia, splendidissimo signore,
diede Creusa, sua figliuola, per moglie, e di lei ebbe un figliuolo
chiamato Ascanio. Fu in arme valoroso uomo, e tra gli altri nobili
troiani andò in Grecia con Paris quando egli rapí Elena: la qual
cosa mostrò sempre che gli spiacesse. Non pertanto valorosamente
contro a’ greci combatté molte volte per la salute della patria, e
tra l’altre si mise una volta a combattere con Achille, non senza suo
gran pericolo. In Troia fu sempre ricevitore degli ambasciatori
greci: per le quali cose, essendo Ilion preso dai greci, in luogo di
guiderdone gli fu conceduto di potersi, con quella quantitá d’uomini
che gli piacesse, del paese di Troia partirsi e andare dove piú gli
piacesse. Per la qual concessione prese le venti navi, con le quali
Paris era primieramente andato in Grecia, e in quelle messi quegli
troiani alli quali piacque di venir con lui, e similemente il padre
di lui ed il figliuolo, e, secondo che ad alcuni piace, uccisa
Creusa, lasciato il troiano lito, primieramente trapassò in Trazia,
e quivi fece una cittá, la quale del suo nome nominò Enea, nella
qual poi esso lungamente fu adorato e onorato di sacrifici come
Iddio, sí come Tito Livio nel quarantesimo libro scrive. E quindi
poi, sospettando di Polinestore re, il quale dislealmente per
avarizia aveva ucciso Polidoro, figliuol di Priamo, si partí, e
andonne con la sua compagnia in Creti, donde, costretto da pestilenza
del cielo, si partí e vennene in Cicilia, dove Anchise morí appo la
cittá di Trapani. Ed esso poi per passare in Italia rimontato co’
suoi amici sopra le navi, e lasciata ad Aceste, nato del sangue
troiano, una cittá da lui fatta, chiamata Acesta, in servigio di
coloro li quali seguir nol poteano, secondo che Virgilio dice, da
tempestoso tempo trasportato in Affrica, e quivi da Didone, reina di
Cartagine, ricevuto ed onorato, per alcuno spazio di tempo dimorò.
Poi da essa partendosi, essendo giá sette anni errato, pervenne in
Italia, e nel seno Baiano, non guari lontano a Napoli, smontato,
quivi per arte nigromantica, appo il lago d’Averno, 
ebbe con gli spiriti
immondi, di quello che per innanzi far dovesse, consiglio; e quindi
partitosi, lá dove è oggi la cittá di Gaeta perdé la nutrice sua,
il cui nome era Gaeta, e sopra le sue ossa fondò quella cittá, e
dal nome di lei la dinominò; e quindi venuto nella foce del Tevero,
ed essendogli, secondo che dice Servio, venuto meno il lume d’una
stella, la quale dice essere stata Venere, estimò dovere esser quivi
il fine del suo cammino. Ed entrato nella foce, e su per lo fiume
salito con le sue navi, lá dove è oggi Roma, fu da Evandro re
ricevuto e onorato; e in compagnia di lui essendo, da Latino re de’
laurenti gli fu data per moglie la figliuola, chiamata Lavina, la
quale primieramente aveva promessa a Turno, figliuolo di Dauno, re
de’ rutoli. Per la qual cosa nacque guerra tra Turno e lui, e molte
battaglie vi furono, e, secondo che scrive Virgilio, egli uccise
Turno. Ma alcuni altri sentono altrimenti.

Della morte sua non è
una medesima opinione in tutti. Scrive Servio che Caton dice che,
andando i compagni d’Enea predando appo Lauro Lavinio, s’incominciò
a combattere, ed in quella battaglia fu ucciso Latino re da Enea, il
quale Enea poi non fu riveduto. Altri dicono che, avendo Enea avuta
vittoria de’ rutoli, e sacrificando sopra il fiume chiamato Numico,
che esso cadde nel detto fiume e in quello annegò, né mai si poté
il suo corpo ritrovare: e questo assai elegantemente tocca Virgilio
nel quarto dell’
Eneida,
dove pone le bestemmie mandategli da Didone, dicendo:

At
bello audacis populi vexatus, et armis,

finibus
extorris, complexu avulsus Iuli,

auxilium
imploret, videatque indigna suorum

funera:
nec, cum se sub lege pacis iniquae

tradiderit,
regno aut optata luce fruatur:

sed
cadat ante diem, mediaque inhumatus arena.

Hoc
precor, ecc.

E Virgilio medesimo
mostra lui essere stato ucciso da Turno, dove nel libro decimo
dell’
Eneida
finge che Giunone, sollecita di Turno, nel mezzo ardore della
battaglia prende la forma d’Enea, e, seguitata da Turno, fugge alle
navi d’Enea, e infino in su le navi essere stata seguitata da Turno,
e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene che non fosse
fittizia, ma vera fuga d’Enea, e che, quivi morto, esso cadesse nel
fiume. Ma, come che egli morisse, fu da quegli della contrada
deificato e chiamato Giove indigete.

«Cesare armato». Gaio
Giulio Cesare fu figliuol di Lucio Giulio Cesare, disceso d’Enea,
come di sopra è dimostrato, e d’Aurelia, discesa della schiatta
d’Anco Marcio, re de’ romani. Né fu, come si dice, denominato
Cesare, percioché del ventre della madre tagliato, fosse tratto
avanti il tempo del suo nascimento, percioché, sí come Svetonio
in
libro Duodecim Caesarum

dice, quando egli uscí candidato di casa sua, egli lasciò la madre,
e dissele: – Io non tornerò a te se non pontefice massimo; – e cosí
fu che egli tornò a lei disegnato pontefice massimo; ma perciò fu
cognominato Cesare, percioché ad un de’ suoi passati quello
addivenne, che molti credono che a lui addivenisse: e da quel cotale
cognominato Cesare
ab
caesura
,
cioè dalla tagliatura stata fatta della madre, quello lato de’
Giuli, che di lui discesero, tutti furon cognominati Cesari. Fu
adunque e per padre e per madre nobilissimo uomo, e variamente fu
dalla fortuna impulso: e parte della sua adolescenzia fece in
Bittinia appresso al re Nicomede con poco laudevole fama. Militò
sotto diversi imperadori, e divenne nella disciplina militare
ammaestratissimo: e gli onorevoli uffici di Roma tutti ebbe ed
esercitò, e, tra gli altri, due consolati, li quali esso quivi
governò. Ma, essendo egli questore, ed essendogli in provincia
venuta la Spagna ulteriore, ed essendo pervenuto in Gades, e quivi
nel tempio d’Ercole avendo veduta la statua d’Alessandro macedonio,
seco si dolse, dicendo: Alessandro giá in quella etá nella quale
esso era, avere gran parte del mondo sottomessasi, ed esso, da
cattivitá e da pigrizia occupato, non avere alcuna cosa memorabile
fatta; e quinci si crede lui aver 
preso animo alle gran
cose, le quali poi molte adoperò: e con astuzia e con sollecitudine
sempre s’ingegnò d’esser preposto ad alcuna provincia e ad eserciti,
e a farsi grande d’amici in Roma. Ed essendogli, dopo molte altre
cose fatte, venuta in provincia Gallia, ed in quella andato, per
dieci anni fu in continue guerre con que’ popoli; e fatto un ponte
sopra il Reno, trapassò in Germania, e con loro combatté e
vinsegli; e similemente trapassato in Inghilterra, dopo piú
battaglie gli soggiogò. E quindi, tornando in Italia, e domandando
il trionfo ed il consolato, per una legge fatta da Pompeo, gli fu
negato l’un de’ due. Per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne
venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma
partito s’era, infino a Brandizio, e di quindi in Epiro; e, rotte le
forze sue in Tessaglia, il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo, re
d’Egitto, gli fu presentata la testa; e quivi fatte con gli egiziaci
certe battaglie, e vintigli, a Cleopatra, nella cui amicizia
congiunto s’era, concedette il reame, quasi in guiderdone
dell’adulterio commesso. Quindi n’andò in Ponto, e sconfitto
Farnace, re di Ponto, si volse in Affrica, dove Giuba, re di Numidia,
e Scipione, suocero di Pompeo, vinti, trapassò in Ispagna contro a
Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno. Quivi alquanto stette in
pendulo la sua fortuna. Combattendo esso e’ suoi contro a’ pompeiani,
e’ fu in pericolo tanto, che esso, di voler morire disposto, di quale
spezie di morte si volesse uccidere pensava. Respirò la sua fortuna
e rimase vincitore: e quindi si tornò in Roma, dove trionfò de’
galli e degli egiziaci e di Farnace in tre diversi dí. Scrisse
Plinio, in libro
De
naturali historia
,
che egli personalmente fu in cinquanta battaglie ordinate, che ad
alcun altro romano non avvenne d’essere in tante: solo Marco
Marcello, secondo che Plinio predetto dice, fu in quaranta. E di
queste cinquanta, le piú fece in Gallia e in Brettagna ed in
Germania, né, fuorché in una, si trovò esser perdente: e di questo
poté esser cagione la sua mirabile industria, e la fidanza che di
lui aveano coloro li quali il seguivano, li quali non potevano
credere, sotto la sua condotta, in alcuno quantunque gran pericolo
poter perire. E dice il predetto Plinio, sotto la sua capitaneria, in
diverse parti combattendo, essere stati uccisi de’ nemici dalla sua
gente un milione e cento novanta due [centinaia di] migliaia
d’uomini: né si pongono in questo numero quegli che uccisi furono
nelle guerre né nelle battaglie cittadine, le quali tra lui e Pompeo
e’ suoi seguaci furono. Per la qual cosa meritamente dice l’autore:
«Cesare armato».

Fu, oltre a ciò,
costui grandissimo oratore, sí come Tullio, quantunque suo amico non
fosse, in alcuna parte testimonia. Fu solenne poeta, e leggesi lui
nel maggior fervore della guerra cittadina aver due libri metrici
composti, li quali da lui furono intitolati
Anticatoni.
Fu grandissimo perdonatore delle ingiurie, intanto che non solamente
a chi di quelle gli chiese perdono le rimise, ma a molti, senza
addomandarlo, di sua spontanea volontá perdonò. Pazientissimo fu
delle ingiurie in opere od in parole fattegli. Fu lussurioso molto;
percioché, secondo che scrive Svetonio, egli nella sua
concupiscenzia trasse piú nobili femmine romane, sí come Postumia
di Servio Sulpizio, Lollia d’Aulo Gabinio, Tertullia di Marco Crasso,
Muzia di Gneo Pompeo; ma, oltre a tutte l’altre, amò Servilia, madre
di Marco Bruto, la figliuola della quale, chiamata Terzia, si crede
che egli avesse. Usò ancora l’amicizie d’alcune altre forestiere, sí
come quella della figliuola di Nicomede, re di Bitinia, e Eunoe
Maura, moglie di Bogade re de’ mauri, e Cleopatra, reina d’Egitto, e
altre. Né furon questi suoi adultèri taciuti in parte da’ suoi
militi, triunfando egli, percioché nel triunfo gallico fu da molti
cantato: – Cesare si sottomise Gallia, e Nicomede Cesare; – ed altri
dicevano: – Ecco Cesare, che al presente triunfa di Gallia, e
Nicomede non triunfa, che si sottomise Cesare. – Ed, oltre a questo,
in questo medesimo triunfo fu detto da molti: – Romani, guardate le
vostre donne, noi vi rimeniamo il calvo adultero. – E nella persona
di lui proprio furon gittate queste parole: – Tu comperasti per oro
lo stupro in Gallia, e qui l’hai preso in prestanza. –

Costui adunque, tornato
in Roma, ed avendo triunfato, occupò la republica, e fecesi fare,
contro alle leggi romane, dittatore perpetuo, dove, secondo le leggi,
non si poteva piú oltre che sei mesi stendere l’uficio del
dettatore. Ed appartenendo all’autoritá del senato il conceder l’uso
della laurea, da esso ottenne di poterla portare continuo, accioché
con quella ricoprisse la testa sua calva; la quale lungamente a suo
potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro dinanzi. Ed in
questa dignitá perseverando, ed essendo a molti de’ senatori
gravissimo, intanto che gran parte del senato 
avea contro a lui
congiurato, si riscaldò nel disiderio, lungamente portato, d’esser
re; per la qual cosa, essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato
con piú legioni romane ucciso da’ parti, ferocissimi popoli, subornò
Lucio Cotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il
procurare i libri sibillini, di quello che voleva rapportasse; e
Cotta poi in senato disse ne’ libri sibillini trovarsi: «li parti
non poter esser vinti né soggiogati, se non da re»; e però
convenirsi che Cesare si facesse re. La qual cosa parve gravissima a’
senatori ad udire. E, come che essi servassero occulta la loro
intenzione, fu nondimeno questo un avacciare a dare opera a quello
che parte di loro aveano fra sé ragionato: e perciò gl’idi di
marzo, cioè dí quindici di marzo, Giulio Cesare, sollecitato molto
da Bruto, non potendolo Calfurnia, sua moglie, per un sogno da lei
veduto la notte precedente, ritenere, né ancora alcuni altri segni
da lui veduti, pretendenti quello che poi seguí, in su la quinta ora
del dí, uscito di casa, ne venne nella corte di Pompeo, dove quel dí
era ragunato il senato: dove, non dopo lunga dimora, fu da Gaio
Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto, principi della
congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di
ventitré punte di stili. La qual cosa vedendo esso, e conoscendo la
morte sua, recatisi e compostisi, come meglio poté, i panni dinanzi,
accioché disonestamente non cadesse, senza far alcun romore di voce
o di pianto cadde. Ed essendone stato portato da alquanti suoi servi
a casa, e vedute da Antistio medico le piaghe di lui ancora spirante,
disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede
fosse quella che da Marco Bruto ricevette. Appresso, fuggitisi i
congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie giudiciali della
corte, le quali si chiamavano «rostri», gliene fu fatto, secondo
l’antico costume, un rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo
arso; e le ceneri, raccolte diligentemente, furon messe in quel vaso
ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra
quadrangula acuta ed alta, che è oggi dietro alla chiesa di San
Piero in Roma, la quale il vulgo chiama «Aguglia», come che il suo
vero nome sia «Giulia».

[Lez.
XV]

«Con gli occhi
grifagni». Non mi ricorda aver letta la qualitá degli occhi di
Giulio Cesare; ma, percioché gli occhi grifagni, se da «grifone»
vien questo nome, sono riposti nella fronte sotto ciglia aguzzate, e
piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a significare
astuzia e fierezza d’animo dovere essere in colui che gli ha; e
queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo l’autore, o
colui da cui l’ebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti
veri Cesare dovergli cosí avere avuti fatti ragionevolmente.

«Vidi Cammilla». Chi
costei fosse distesamente è scritto sopra il primo canto del
presente libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla nondimeno
qui l’autore per la sua virginitá e per la sua costante perseveranza
in quella, e, oltre a ciò, per lo suo virile animo, per lo quale non
femminilmente, ma virilmente adoperò e morí.

«E la Pantasilea». La
Pantasilea fu reina dell’amazzone, cioè di quelle donne, le quali,
senza volere o compagnia o signoria d’uomini, per se medesime in
Asia, allato al Mar maggiore, sotto piú reine lungo tempo
signoreggiarono parte d’Asia e talora d’Europa. La origine delle
quali fu questa, secondo che Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo,
scrive nel libro terzo della sua Storia. Essendo cacciati di Scizia,
quasi ne’ tempi di Nino, re d’Assiria, Silisio e Scolopico, giovani
di reale schiatta, per divisione la quale era tra’ nobili uomini di
Scizia, grandissima quantitá di giovani scizi avendone seco menata
insieme con le lor mogli e’ figliuoli, nelle contrade di Cappadocia,
allato ad un fiume chiamato Termodonte si posero; e quivi occupati i
campi chiamati Cirii, usati per molti anni di vivere di ratto, e per
questo rubare e spogliare ed infestare i vicini popoli da torno:
avvenne che, per occulto trattato de’ popoli, noiati da loro, essi
furon quasi tutti uccisi. Le mogli de’ quali, veggendo essere
aggiunto al loro esilio l’esser private de’ mariti, preson l’armi, e
con fiero animo andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi
aveano, e quegli cacciarono fuori del loro terreno: e, oltre a ciò,
continuando la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il
difesero. Poi, congiugnendosi per matrimonio co’ popoli circustanti,
posero giú alquanto la ferocitá dell’animo: ma poi ripresala, e
intra sé ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, a’ quali si 
maritavano, non esser
matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per la qual
cosa deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita: e
questa fu, che tutti quegli uomini, li quali con loro erano a casa
rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli
uccisi loro mariti, nella morte degli altri da torno tutte d’uno
animo cospirarono. E per forza d’arme, con quegli che rimasi erano,
avuta pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor
gente, presero questo modo, che a parte a parte andavano a giacere
co’ vicini uomini, e come gravide si sentivano, si tornavano a casa;
e quegli figliuoli maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e
le femmine guardavano e con diligenza allevavano. Le quali non a
stare oziose, o a filare o a cucire, né ad alcuno altro femminile
uficio adusavano, ma in domare cavalli, in cacce, in saettare ed in
fatica continua l’esercitavano. E, accioché esse potessero nutricare
quelle figliuole che di loro nascessero, essendo loro le poppe agli
esercizi delle armi noiose, lasciavano loro la destra, e della
sinistra le privavano: ed il modo era, che quando eran piccole,
tirata alquanto la carne in alto, quella con alcun filo
strettissimamente legavano: di che seguiva che la parte legata, non
potendo avere lo scorso del sangue, si secava, e cosí poi, venendo
in piú matura etá, non v’ingrossava la poppa. E da questa
privazione dell’una delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi
chiamate furono, cioè «Amazzone», il qual tanto vuol dire, quanto
«senza poppa». E, cosí perseverando piú tempo, quando sotto una
reina e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il
loro imperio. E, essendo in processo di tempo morta una loro reina,
la quale fu chiamata Orizia, fu fatta reina la Pantasilea. Costei fu
valorosa donna e governò bene il suo regno. Ed avendo udito il valor
di Ettore, figliuolo del re Priamo, disiderò d’aver alcuna figliuola
di lui, e, per accattare l’amore e la benivolenza sua, con gran
moltitudine delle sue femmine, contro a’ greci venne in aiuto de’
troiani. Ma non poté quello, che desiderava, adempiere, percioché
trovò, quando giunse, Ettore essere giá morto; ma nondimeno
mirabilmente piú volte per la salute di Troia combatté; alfine
combattendo fu uccisa. E, secondo che alcuni scrivono, costei fu che
prima trovò la scure: vero è che quella, che da lei fu trovata,
aveva due tagli, dove le nostre n’hanno un solo.

«Dall’altra parte»,
forse a rincontro a’ nominati, «vidi il re Latino». Latino fu re
de’ laurenti e figliuolo di Fauno re, de’ discendenti di Saturno, e
d’una ninfa laurente, chiamata Marica, sí come Virgilio nell’
Eneida
dice:


Rex arva Latinus et urbes

iam
senior longa placidas in pace regebat.

Hunc
Fauno et nympha genitum laurente Marica

accepimus.

Ma Giustino non dice
cosí, anzi dice che egli fu nepote di Fauno, cioè figliuolo della
figliuola, in questa forma: che, tornando Ercule di Spagna, avendo
vinto Gerione, e pervenendo nella contrada di Fauno, egli giacque con
la figliuola, e di quello congiugnimento nacque Latino. E cosí non
di Fauno, ma d’Ercule sarebbe Latino stato figliuolo. Ma Servio
Sopra
Virgilio

dice che, secondo Esiodo, in quello libro il quale egli compose
chiamato
Aspidopia,
che Latino fu figliuolo d’Ulisse e di Circe, la quale alcuni
chiamaron Marica; e però dice il detto Servio, Virgilio aver detto
di lui, cioè di Latino, «
Solis
avi specimen
»,
percioché Circe fu figliuola del Sole. Ma dice il detto Servio
(percioché la ragione de’ tempi non procede, percioché Latino era
giá vecchio, quando Ulisse ebbe la dimestichezza di Circe) essere da
prendere quello che Iginio dice, cioè essere stati piú Latini.
Oltre a questo, cosí come del padre di Latino sono opinioni varie,
cosí similmente sono gli antichi scrittori discordanti della madre:
percioché Servio dice Marica essere dea del lito de’ minturnesi,
allato al fiume chiamato Liri: laonde Orazio dice:

…et
innantem Maricae

littoribus
tenuisse Lirim;


e però, se noi vorrem
dire Marica essere stata moglie di Fauno, non procederá; percioché
gl’iddii locali, secondo l’erronea opinion degli antichi, non
trapassano ad altre regioni. Alcuni dicono Marica esser Venere,
percioché ella ebbe un tempio allato alla Marica, nel quale era
scritto «Pontina Venere»; ma di costei anche si può dire quello
che di sopra dicemmo di Latino, potere essere state piú Mariche. Ma
di cui che egli si fosse figliuolo, egli fu re de’ laurenti, ne’
tempi che Troia fu disfatta, ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di
Dauno, re d’Ardea e zia di Turno, sí come per Virgilio appare. Ma
Varrone, in quel libro il quale egli scrive
De
origine linguae latinae
,
dice che Pallanzia, figliuola d’Evandro re, fu sua moglie. Costui,
secondo che vogliono alcuni, ricevette Enea fuggito da Troia, ed
avendo avuto un responso da quegli loro iddii, che egli ad un
forestiere, del quale dovea mirabile succession nascere, désse
Lavina sua figliuola per moglie; avendola giá promessa a Turno, la
diede ad Enea: di che gran guerra nacque, nella quale, secondo che
dice Servio, questo Latino morí quasi nella prima battaglia.

«Che con Lavina, sua
figlia, sedea». Lavina, come detto è, fu figliuola di Latino e
d’Amata e moglie d’Enea, del quale ella rimase gravida; e temendo la
superbia di Ascanio figliuolo di Enea, il quale era rimaso vincitore
della guerra di Turno, si fuggí in una selva; e appo un pastore,
secondo che dice Servio, chiamato Tiro, dimorò nascosamente: e
partorí al tempo debito un figliuolo, il quale nominò Giulio Silvio
Postumo, percioché nato era, dopo la morte del padre, nella selva.
Ma poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli giá
fatta la cittá di Alba ed in quella andatosene. La quale non essendo
dalle cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto
femminile, che senza alcuna diminuzione guardò il regno al
figliuolo, tanto che egli fu in etá da sapere e da potere regnare.
Ma Eusebio
in
libro Temporum

dice che costei dopo la morte d’Enea si rimaritò ad uno il quale
ebbe nome Melampo, e di lui concepette un figliuolo, il quale fu
chiamato Latino Silvio: né piú di lei mi ricorda aver trovato.

«Vidi quel Bruto, che
cacciò Tarquino». Bruto fu per legnaggio nobile uomo di Roma,
percioché egli fu d’una famiglia chiamata i Giuni, ed il suo nome fu
Caio Giunio Bruto, e la madre di lui fu sorella di Tarquino Superbo,
re de’ romani. E percioché egli vedeva Tarquino incrudelire contro
a’ congiunti, temendo di sé, avendo sana mente, si mostrò pazzo: e
cosí visse buona pezza, portando vilissimi vestimenti, e
ingegnandosi di fare alcune cose piacevoli, come talvolta fanno i
matti, accioché facesse ridere altrui, ed ancora per acquistare la
benivolenza di chi il vedesse, e con questo fuggisse la crudeltá del
zio. E percioché poco nettamente vivea, fu cognominato Bruto: il
quale, per aver festa di lui, tenevano volentieri appresso di sé i
figliuoli di Tarquino. Ora avvenne che, essendo Tarquino Superbo
intorno ad Ardea ad assedio, e i figliuoli del re con altri lor
compagni avendo cenato, entrarono in ragionamento delle lor mogli, e
ciascuno, come far si suole, in virtú e in costumi preponeva la sua
a tutte l’altre femmine; e, non finendosi la quistione per parole,
presero per partito d’andarne alle lor case con questi patti: che
quale delle lor donne trovassero in piú laudevole esercizio, quella
fosse meritamente da commendar piú che alcun’altra; e cosí, montati
a cavallo, subitamente fecero. E pervenuti a Roma, trovarono le nuore
del re ballare e far festa con le lor vicine, non ostante che i lor
mariti fossero in fatti d’arme e a campo; e di quindi n’andarono a un
castello chiamato Collazio, dove un giovane chiamato Collatino, loro
zio, teneva la donna sua, chiamata Lucrezia, e trovarono costei in
mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro insieme filare e far
quello che a buona donna e valente s’apparteneva di fare: per che fu
reputato che costei fosse piú da lodare che alcuna dell’altre e che
Collatino avesse miglior moglie che alcun degli altri. Era tra questi
giovani Sesto Tarquino, giovane scellerato e lascivo, il quale,
veduta Lucrezia e seco medesimo commendatala molto, entratagli
nell’anima la bellezza e l’onestá di lei, seco medesimo dispuose di
voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti dí, senza farne
sentire alcuna cosa ad alcuno, preso tempo, solo ritornò a Collazio,
dove da lei parentevolmente ricevuto ed onorato, considerato la
condizione della casa, la notte, come silenzio sentí per tutto,
estimando che tutti dormissero, levatosi, col coltello ignudo in
mano, tacitamente n’andò lá dove Lucrezia dormiva, e postale la
mano in sul petto, disse: – Io sono Sesto, e tengo in mano il
coltello ignudo; se tu farai motto alcuno, pensa ch’io t’ucciderò di
presente. – Ma per questo non tacendo Lucrezia, la quale in 
guisa alcuna al suo
desiderio acconsentir non voleva, le disse: – Se tu non farai il
piacer mio, io t’ucciderò, e appresso di te ucciderò uno de’ tuoi
servi, e a tutti dirò che io t’abbia uccisa, percioché col tuo
servo in adulterio t’abbia trovata. – Queste parole spaventarono la
donna, seco pensando che, se in tal guisa uccisa fosse trovata,
leggermente creduto sarebbe lei essere stata adultera, né sarebbe
chi la sua innocenza difendesse: e però, quantunque malvolentieri si
consentisse a Sesto, nondimeno, avendo pensato come cotal peccato
purgherebbe, gli si consentí.

Sesto, quando tempo gli
parve, se ne tornò ad Ardea; ed essa piena di dolore e
d’amaritudine, come il giorno apparí, si fece chiamare Lucrezio
Tricipitino, suo padre, e Collatino, suo marito, e Bruto: li quali
essendo venuti, e trovandola cosí dolorosa nell’aspetto, la domandò
Collatino: – Che è questo, Lucrezia? non sono assai salve le cose
nostre? – A cui Lucrezia rispose: – Che salvezza può esser nella
donna, la cui pudicizia è violata? nel tuo letto è orma d’altro
uomo che di te. – E quinci aperse distesamente ciò che per Sesto
Tarquino era stato la passata notte adoperato. Il che udendo
Collatino e gli altri, quantunque dell’accidente forte turbati
fossero, nondimeno la cominciarono a confortare, dicendo la pudicizia
non potere esser contaminata, dove la mente a ciò non avesse
consentito. Ma Lucrezia, ferma nel suo proposito, trattosi di sotto
a’ vestimenti un coltello, disse: – Questa colpa, in quanto a me
appartiene, non trapasserá impunita; né alcuna mai sará, che per
esempio di Lucrezia diventi impudica. – E detto questo, e posto il
petto sopra la punta del coltello, su vi si lasciò cadere, e cosí
senza poter essere atata, entratole il coltello nel petto, si morí.
Tricipitino e Bruto e Collatino, vedendo questo, non potendo piú
nascondere l’indegnitá del fatto, ne portarono il corpo morto nella
piazza, predicando l’iniquitá di Sesto Tarquino, e di molte ingiurie
accusando il re e’ figliuoli. Il pianto fu grande, e il rammarichio
per tutto: ma Bruto, estimando che tempo fosse a por giuso la
simulata pazzia, tratto il coltello del petto alla morta Lucrezia,
con una gran brigata de’ collazi n’andò a Roma, lasciando che l’un
de’ due rimasi andassero nel campo a nunziare questa iniquitá: e in
Roma pervenuto, per dovunque egli andava, piangendo e dolendosi,
convocava la moltitudine a compassione dell’innocente donna e ad odio
de’ Tarquini. Per la qual cosa furono incontanente le porte di Roma
serrate, e per tutto gridata la morte e il disfacimento del re e de’
figliuoli: e il simile era avvenuto nel campo ad Ardea. E come fu
sentita la scellerata operazione di Sesto Tarquino, e tutti, lasciato
il re e’ figliuoli, a Roma venutisene, e ricevuti dentro, in una
medesima volontá con gli altri divenuti, al re Tarquino, che
minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il ritornare in
Roma: e subitamente in luogo del re fecero due consoli, appo i quali
fosse la dignitá e la signoria del re, sí veramente che piú d’uno
anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu l’uno Bruto
e l’altro Collatino. E, sentendo, in processo di tempo, Bruto due
suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere il re e’
figliuoli suoi a Roma, fattigli spogliare e legare ad un palo, prima
agramente batter gli fece con verghe di ferro, e poi in sua presenza
ferire con la scure e cosí morire. Cotanto adunque mostrò essergli
cara la libertá racquistata. Ma poi, avendo Tarquino invano tentato
di ritornare per trattato in Roma, ragunata da una parte e d’altra
gente d’arme, ad assediare Roma venne. Incontro al quale uscirono col
popolo di Roma armati i consoli; ed essendosi tra’ due eserciti
cominciata la battaglia, avvenne che Arruns, l’uno de’ figliuoli di
Tarquino, combattendo, vide Bruto; per che, lasciata la battaglia
degli altri, gridò: – Questi è colui che m’ha del regno cacciato; –
e drizzato il cavallo e la lancia verso lui, e punto degli sproni il
cavallo, quanto correr potea piú forte n’andò verso lui. Il quale
veggendo Bruto venire, e conosciutolo, non schifò punto il colpo, ma
verso lui dirizzatosi con la lancia e col cavallo, avvenne che con
tanto odio delle punte delle lance si ferirono, che amenduni morti
caddero del cavallo. E poi, avendo i romani avuta vittoria de’
nemici, con grandissimo pianto ne recarono in Roma il corpo di Bruto,
lá dove egli da tutte le donne di Roma, sí come padre e
ricuperatore della loro libertá e vendicatore e guidatore della loro
pudicizia, fu amarissimamente pianto, e poi, secondo l’uso di que’
tempi, onorevolmente fu seppellito.

«Lucrezia».
Di questa donna è narrata la storia.

«Marzia». Marzia non
so di che famiglia romana si fosse, né alcune storie sono, le quali
io abbia vedute, che guari menzione faccian di lei. Par nondimeno,
per antica fama, tenersi lei essere 
stata onesta e
venerabile donna; e per tutti si tiene, e Lucano ancora il
testimonia, lei essere stata moglie, non una sola volta, ma due, di
Catone uticense. Il quale avendola la prima volta menata a casa,
generò in lei tre figliuoli; poi, dispostosi del tutto di volere nel
futuro servar vita celibe e fuggire ogni congiugnimento di femmina,
secondo che alcuni dicono, glielo disse; ed, oltre a ciò,
immaginando non dovere per l’etá essere a lei questa astinenza
possibile, la licenziò di potersi maritare, se a grado le fosse, ad
un altro uomo. Per la qual cosa essa si rimaritò ad Ortensio (a
quale non so, percioché piú ne furono), e di lui concepette alcuni
figliuoli. Poi, essendosi morto Ortensio, e sopravvenuto il tempo
delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, una mattina in su
l’aurora picchiò all’uscio di Catone, e, entrata da lui, il pregò
che gli piacesse di doverla ritôrre per moglie; che di questo
matrimonio essa non intendeva di volerne altro che solamente il nome
d’esser moglie di Catone, e sotto l’ombra di questo titolo vivere, e,
quando alla morte venisse, morire moglie di Catone. Alli cui prieghi
Catone condiscese; e, con quella condizione ritoltala, senza alcuna
altra solennitá osservare, e mentre visse servando il suo
proponimento, per sua moglie la tenne, ed ella lui per suo marito.

«Giulia». Giulia fu
figliuola di Giulio Cesare, acquistata in Cornelia figliuola di
Cinna, giá quattro volte stato consolo; la quale, lasciata Consuzia
che davanti sposata avea, prese per moglie. E fu costei moglie di
Pompeo Magno, il quale ella amò mirabilmente, intanto che, essendo
delle comizie edilizie riportati a casa i vestimenti di Pompeo, suo
marito, rispersi di sangue (il che, secondo che alcuni scrivono, era
avvenuto, che sacrificando egli, ed essendogli l’animale, che
sacrificar dovea, giá ferito, delle mani scappato, e cosí del suo
sangue macchiatolo); come prima Giulia gli vide, temendo non alcuna
violenza fosse a Pompeo stata fatta, subitamente cadde, e da grave
dolore fu costretta, essendo gravida, di gittar fuori il figliuolo
che nel ventre avea, e quindi morirsi.

«E Corniglia». Il
vero nome di costei fu Cornelia: ma, sforzato l’autore dalla
consonanza dei futuri versi, alcune lettere permutate, la nomina
«Corniglia». Cornelia fu nobile donna di Roma della famiglia de’
Corneli, del lato degli Scipioni: e fu figliuola di quello Scipione,
il quale con Giuba, re de’ numidi, seguendo le parti di Pompeo, fu da
Cesare sconfitto in Numidia. E fu costei primieramente moglie di
Lucio Crasso, il quale fu ucciso da’ parti e a cui fu l’oro fondato
messo giú per la gola; e poi, come Lucio morí, divenne moglie di
Pompeo magno: il quale ella, come valente donna dee fare, non
solamente amò nella sua felicitá, ma, veggendo che la fortuna con
le guerre cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di
volere essergli, come nella grandezza sua era stata, ne’ pericoli e
negli affanni delle guerre compagna: e ultimamente, secondo che
Lucano manifesta, con lui dell’isola di Lesbo partitasi, n’andò in
Egitto, dove miserabilmente agli assassini di Tolomeo, discendendo in
terra, il vide uccidere. Quello che poi di lei si fosse, non so; ma
d’intera fede e di laudabile amore puote debitamente essere pregiata.

«E solo in parte vidi
‘l Saladino». Il Saladino fu soldano di Babillonia, uomo di nazione
assai umile per quello mi paia avere piú addietro sentito, ma di
grande e altissimo animo e ammaestratissimo in fatti di guerra, sí
come in piú sue operazioni dimostrò. Fu vago di vedere e di
cognoscere li gran principi del mondo e di sapere i lor costumi: né
in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini, ma credesi
che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente cercasse, e
massimamente intra’ cristiani, li quali, per la Terra santa da lui
occupata, gli erano capitali nemici. E fu per setta de’ seguaci di
Macometto, quantunque, per quello che alcuni voglion dire, poco le
sue leggi e i suoi comandamenti prezzasse. Fu in donare magnifico, e
delle sue magnificenze se ne raccontano assai. Fu pietoso signore e
maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini. E, percioché egli
non fu gentile, come quegli li quali nominati sono e che appresso si
nomineranno, estimo che «in parte» starsi «solo» il discriva
l’autore.

«Poi ch’io alzai un
poco piú le ciglia», cioè gli occhi per vedere piú avanti, «Vidi
il maestro», cioè Aristotile, «di color che sanno, Seder», cioè
usare e stare, e quegli atti fare che a filosofo appartengono,
ammaestrare, operare e disputare, «tra filosofica famiglia».


Aristotile fu di
Macedonia, figliuolo di Nicomaco, medico d’Aminta, re di Macedonia, e
poi di Filippo, suo figliuolo e padre d’Alessandro; la madre del
quale fu chiamata Efestide: li quali Nicomaco ed Efestide vogliono
alcuni esser discesi di Macaone e d’Asclepiade, discendenti
d’Esculapio, il quale gli antichi, percioché grandissimo medico fu,
dicono essere stato figliuolo d’Apollo, iddio della medicina. E
dicono alcuni lui essere stato d’una cittá chiamata Stagira, la
quale, se io ho bene a memoria, ho giá letto o udito che è non in
Macedonia, ma in Trazia: le quali due province è vero che insieme
confinano, per che, essendo in su i confini la cittá, forse
agevolmente s’è potuto errare a dinominarla piú dell’una provincia
che dell’altra. Fu costui primieramente, dopo l’avere apprese le
liberali arti, ammaestrato ne’ libri poetici. E credesi che il primo
libro, che da lui fu composto, fosse uno scritto, ovvero comento,
sopra li due maggior libri d’Omero, e che, per questo, ancora
giovanetto fosse dato da Filippo per maestro ad Alessandro. Poi
vogliono lui essere andato ad Atene ad udire filosofia, dove udí tre
anni sotto Socrate, in que’ tempi famosissimo filosofo; e, lui morto,
s’accostò a Platone, il quale le scuole di Socrate ritenne, e sotto
lui udí nel torno di venti anni. Per che, sí per l’eccellenza del
dottore, e sí ancora per lo perseverato studio con vigilanza,
divenne maraviglioso filosofo; intanto che, andando alcuna volta
Platone alla sua casa e non trovando lui, con alta voce alcuna volta
disse: – L’intelletto non c’è, sordo è l’auditorio. – Visse
appresso la morte di Platone, suo maestro, anni ventitré, de’ quali
parte ammaestrò Alessandro, e parte con lui circuí Asia, e parte di
quegli scrisse e compose molti libri. Egli la dialettica, ancora non
conosciuta pienamente prima, in altissimo colmo recò, e ad
istruzione di quella scrisse piú volumi. Scrisse similmente in
rettorica, né meno in quella apparve facondo, che fosse alcun altro
rettorico, quantunque famoso stato davanti a lui. Similmente intorno
agli atti morali, ciò che veder se ne puote per uomo, scrisse in tre
volumi:
Etica,
Politica

ed
Iconomica;
né delle cose naturali alcuna ne lasciò indiscussa, sí come in
molti suoi libri appare; ed, oltre a ciò, trapassò a quelle che
sono sopra natura, con profondissimo intendimento, sí come nella sua
Metafisica
appare.
E, brevemente, egli fu il principio e ‘l fondamento di quella setta
di filosofi, i

quali
si chiamano peripatetici. E non è vero quello che alcuni si sforzano
d’apporgli, cioè che egli facesse ardere i libri di Platone: la qual
cosa credo, volendo, non avrebbe potuta fare, in tanto pregio e
grazia degli ateniesi fu Platone e la sua memoria e li suoi libri. Li
quali non ha molto tempo che io vidi, o tutti o la maggior parte, o
almeno i piú notabili, scritti in lettera e grammatica greca in un
grandissimo volume, appresso il mio venerabile maestro messer
Francesco Petrarca. È il vero che la scienza di questo famosissimo
poeta filosofo lungo tempo sotto il velamento d’una nuvola d’invidia
di fortuna stette nascosa, in maraviglioso prezzo continuandosi appo
i valenti uomini la scienza di Platone; né è assai certo, se a
venire ancora fosse Averrois, se ella sotto quella medesima si
dimorasse. Costui adunque, se vero è quello che io ho talvolta
udito, fu colui che prima, rotta la nuvola, fece apparir la sua luce
e venirla in pregio; intanto che, oggi, quasi altra filosofia che la
sua non è dagl’intendenti seguita. Ma ultimamente pervenuto questo
singulare uomo all’etá di sessantatré anni, finío la vita sua; e,
secondo che alcuni dicono, per infermitá di stomaco. «Tutti lo
miran», per singular maraviglia, quegli che in quel luogo erano; e
similmente credo facciano tutti quegli che a’ nostri dí in filosofia
studiano: «tutti onor gli fanno», sí come a maestro e maggior di
tutti.

«Quivi
vid’io», appresso d’Aristotile, «Socrate».

Socrate originalmente
si crede fosse ateniese, ma di bassissima condizione di parenti
disceso, percioché, sí come scrive Valerio Massimo nel terzo suo
libro sotto la rubrica
De
patientia
,
il padre suo fu chiamato Sofronisco intagliator di marmi, e la sua
madre ebbe nome Fenarete, il cui uficio era aiutare le donne ne’
parti loro, e quelle per prezzo servire; ed esso medesimo, secondo
che dice Papia, alquanto tempo s’esercitò nell’arte del padre. Poi,
lasciata l’arte paterna, divenne discepolo d’una femmina chiamata
Diutima, secondo che si legge nel libro
De
vitis philosophorum
;
ma santo Agostino, nel libro ottavo
De
civitate Dei
,
scrive che egli fu uditore d’Archelao, il quale era stato auditore di
Anassagora. E, poiché alquanto tempo ebbe udito sotto Archelao, per
divenire pienamente esperto degl’intrinseci effetti della natura, in
piú parti del mondo gli ammaestramenti de’ 
piú savi andò
cercando, secondo che scrive Tullio nel libro secondo delle
Quistioni
tusculane
:
e in tanta sublimitá di scienza pervenne, che egli, secondo che
scrive Valerio, fu reputato quasi un terrestre oracolo dell’umana
sapienza. E secondo che mostra di tenere Apulegio, e similmente
Calcidio
Sopra
il primo libro del Timeo di Platone
,
e come Agostino nel libro ottavo della
Cittá
di

Dio,
egli ebbe seco infino dalla sua puerizia un dimonio, il quale
Apulegio predetto chiama «iddio

di
Socrate» in un libro che di ciò compose: il quale molte cose
gl’insegnò e in ciò che egli aveva a fare l’ammaestrò. Ma chi che
di ciò gli fosse il dimostratore, egli fu non solamente dagli
uomini, ma eziandio da Apolline, il quale gli antichi ne’ loro errori
credettero essere iddio della sapienza, giudicato sapientissimo.
Della qual cosa non è molto da maravigliarsi, conciosiacosaché egli
fosse nelli studi della filosofia assiduo; e tanto nelle meditazioni
perseverante, che Aulo Gellio scrive, nel libro secondo
Noctium
Atticarum
,
lui essere usato di stare dal cominciamento d’un dí infino al
principio del seguente, in piede, senza mutarsi poco o molto col
corpo, e senza volgere gli occhi o ‘l viso dal luogo al quale nel
principio della meditazione gli poneva.

Fu costui di
maravigliosa e laudevole umiltá, percioché, quantunque in iscienza
continuamente divenisse maggiore, tanto minore nel suo parlare si
faceva; e da lui, secondo che Girolamo scrive nella sua
trentacinquesima pistola, e, oltre a ciò, nel proemio della Bibbia,
nacque quel proverbio, il quale poi per molti s’è detto, cioè «
hoc
scio, quod nescio
».
E, oltre a questo, essendo tanto e sí venerabile filosofo, non
solamente in parole, ma in opera la sua umiltá dimostrò. Esso, tra
l’altre volte, secondo che negli studi è usanza, facendo la colletta
dagli uditori suoi, ed essi tutti dandogli volentieri non solamente
il debito, secondo l’uso, ma ancora piú; Eschilo, poverissimo
giovane ma d’alto ingegno, lasciò andar ogn’uomo a pagar questo
debito, e non andandone piú alcuno, esso, levatosi, andò alla
cattedra di Socrate e disse: – Maestro, io non ho al mondo cosa
alcuna che ti dare per questo debito, se non me medesimo, e io me ti
do; e ricordoti che io ti do piú che dato non t’ha alcun altro che
qui sia; percioché non ce n’è alcuno che tanto donato t’abbia, che
alcuna cosa rimasa non gli sia, ma a me, che me t’ho dato, cosa
alcuna non è rimasa. – Al quale Socrate umilmente rispose: –
Eschilo, il tuo dono m’è molto piú caro che alcuno altro che da
costoro mi sia stato dato, e la ragione è questa: io non ho alcuna
cosa la quale io possa assai degna donare a costoro che a me hanno
donato, ma io ho da potere rendere a te guiderdone del dono che fatto
m’hai, e quello sono io medesimo; e cosí io me ti do; e perciò
quanto tu vuogli che io abbia te per mio, tanto fa’ che tu abbi me
per tuo. – Fu di sua natura pazientissimo, e con egual animo portò
le cose liete e le avverse, intanto che molti voglion dire non
essergli stato mai veduto piú che un viso. Il che maravigliosamente
mostrò vivendo, e sostenendo i fieri costumi dell’una delle due
mogli che avea, chiamata Santippe: la quale, senza interporre, il dí
e la notte egualmente, con perturbazioni e con romori era da lei
stimolato; la qual tanto piú nella sua ira s’accendeva, quanto lui
piú paziente vedeva. Ed essendo alcuna volta stato addomandato da
Alcibiade, nobilissimo giovane d’Atene, secondo che scrive Aula
Gellio
in
libro undecimo Noctium Atticarum
,
perché egli non la mandava via, conciofossecosaché per la legge
lecito gli fosse, rispose che per la continuazione dell’ingiurie
dimestiche fattegli da Santippe egli aveva apparato a sofferire con
non turbato animo le disoneste cose, le quali egli vedeva e udiva di
fuori. Oltre a questo, tenendosi Santippe ingiuriata da lui, un dí,
preso luogo e tempo, dalla finestra della casa gli versò sopra la
testa un vaso d’acqua putrida e brutta; il quale sapendo donde venuto
era, rasciuttasi la testa, null’altra cosa disse: – Io sapeva bene
che dopo tanti tuoni doveva piovere. –

Furono le sue risposte
di mirabile sentimento. Era in Atene un giovane uomo dipintore, assai
conosciuto, il quale subitamente divenne medico; il che detto a
Socrate, disse: – Questi può esser savio uomo d’aver lasciata
l’arte, i difetti della quale sempre stanno dinanzi agli occhi degli
uomini, e presa quella li cui errori la terra ricuopre. – Era, oltre
a ciò, usato di prender piacere di vedere le due sue mogli per lui
talvolta non solamente gridare, ma azzuffarsi insieme, e massimamente
sé considerando, il quale era del corpo piccolo, e avea il naso
camuso, le spalle pelose e le gambe storte, e appresso la viltá
dell’animo loro; e il farle venire a zuffa insieme era qualora egli
volea, sol che un poco d’amore piú all’una che all’altra mostrasse;
di che esse una volta accortesi, e rivoltesi


sopra lui, fieramente
il batterono, e lui fuggente seguirono, tanto che la loro
indegnazione sfogarono. Fu in costumi sopra ogni altro venerabile
uomo, in tanto che solamente nel riguardarlo prendevano maraviglioso
frutto gli uditori suoi, sí come Seneca nella sesta pistola a
Lucillo, dicendo: «Platone e Aristotile, e l’altra turba tutta de’
savi uomini, piú da’ costumi di Socrate trassero di sapienza che
dalle sue parole». Fu nel cibo e nel bere temperatissimo, intanto
che di lui si legge che, essendo una mortale e universale pestilenza
in Atene, né mai si partí, né mai infermò, né parte d’alcuna
infermitá sentí. Sostenne con grandissimo animo la povertá,
intanto che, non che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale
avesse, ma ancora i doni da’ grandi uomini offertigli ricusò. Ed
essendo giá vecchio, volle apprendere a sonare gli stromenti musici
di corda: di che alcuno maravigliandosi gli disse: – Maestro, che è
questo? aver veduti gli alti effetti della natura, e ora discendere
alle menome cose musicali? – Al quale egli dimostrò sé estimare
esser meglio d’avere tardi apparata quella arte che morire senza
averla saputa. Né in alcuna etá poté sofferire d’essere ozioso;
percioché, secondo scrive Tullio nel libro
De
senectute
,
egli era giá d’etá di novantaquattro anni, quando egli scrisse il
libro, il quale egli appellò
Panaletico.

Una cosa ebbe questo
singulare uomo, la quale a certi ateniesi fu grave, ed ultimamente
cagione della morte sua: egli non poté mai essere indotto ad avere
in alcuna reverenza gl’iddii li quali gli ateniesi adoravano,
affermando un cane, un asino o qualunque altro piú vile animale
esser degno di molta maggior venerazione che gl’iddii degli ateniesi.
E la ragione, che di ciò assegnava, era che gli animali erano opera
della natura, gl’iddii degli ateniesi erano opera delle mani degli
uomini. Per la qual cosa essendo stati fatti, ovvero eletti trenta
uomini in Atene a dover riformare lo stato della cittá e servarlo,
ve ne furono alcuni, li quali, forse da alcuna altra occulta cagion
mossi, sotto spezie di religione, vollero che esso confessasse li
loro iddii essere da onorare e che Atene dalla lor deitá e custodia
servata fosse. La qual cosa non volendo esso fare, essendo giá d’etá
di novantanove anni, fu fatto mettere in prigione, e in quella tenuto
da un mese. Alla fine, vedendo coloro, che tener vel facevano, non
potersi a ciò l’animo suo inducere, gli mandarono in un nappo un
beveraggio avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedi
mostratigli da Lisia alla sua salute, amando piú di finire la vita
che di diminuire la sua gravitá, con grandissimo animo, e con quel
viso il quale sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese.
E piangendo Santippe, e dolendosi ch’egli era fatto morire a torto,
fieramente la riprese dicendo: – Dunque vorresti tu, stolta femmina,
che io fossi morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere
avvenuto o avvenga che io giustamente condannato sia. – E, bevuto la
venenata composizione, molte cose a’ suoi amici, che d’intorno gli
erano, parlò dell’eternitá dell’anima. Ma, appressandosi giá l’ora
della morte, per la forza del veleno che al cuore s’avvicinava, il
dimandò uno de’ suoi discepoli, chiamato Trifone, quello che esso
voleva che del suo corpo si facesse, poiché morto fosse. Per che
Socrate, rivolto agli altri, disse: – Lungamente m’ha invano
ascoltato Trifone. – E poi disse: – Se, poi che l’anima mia sará dal
corpo partita, voi alcuna cosa che mia sia ci trovate, fatene quello
che da fare estimerete; ma cosí vi dico, che, partendomi io, alcun
di voi non mi potrá seguire. – Né guari stette che egli morí. In
onor del quale, secondo che scrive Tertullio, fecero poi gli ateniesi
in memoria e in sembianza di lui fare una statua d’oro, e quella
fecero porre ad un tempio. Nacque Socrate, secondo che nelle
Istorie
scolastiche
si
legge, al tempo di Serse, re di Persia, e morí regnante il re
Assuero.

[Lez.
XVI]

«E Platone». Platone
fu per origine nobilissimo ateniese. Egli fu figliuolo d’Aristone,
uomo di chiara fama, e di Perissione sua moglie; e, secondo che
alcuni affermano, esso fu de’ discendenti del chiaro legnaggio di
Solone, il quale ornò di santissime leggi la cittá di Atene. E
volendo Speusippo, figliuolo della sorella, e che dopo la sua morte
le scuole sue ritenne insieme con Clearco e con Anassalide, stati
suoi uditori, nobilitare la sua origine, sí come essi nel secondo
libro della
Filosofia
scrivono,
finsero Perissione, madre di lui, essere stata oppressa da una
sembianza

d’Apolline;
volendo che per questo s’intendesse, lui per opera del padre, il
quale gli antichi estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta
la divina scienza, la quale in lui uomo mortale fu conosciuta. Fu
costui, oltre ad ogni altro suo contemporaneo, eloquentissimo; e fu
tanta dolcezza 
e tanta soavitá nella
sua prolazione, che quasi pareva piú celestial cosa che umana,
parlando. La qual cosa per due assai evidenti segni, avanti che a
quella perfezion divenisse, fu dimostrata. Primieramente, essendo
egli ancora picciolissimo fanciullo e nella culla dormendo, furono
trovate api, le quali sollecitamente studiandosi, non altrimenti che
in uno loro fiaro, gli portavano mèle, senza d’alcuna cosa
offenderlo. Secondariamente, quella notte che precedente fu al dí
che Aristone lui giovanetto menò a Socrate, accioché della sua
dottrina l’ammaestrasse, parve nel sonno a Socrate vedere di cielo
discendere un cigno, e porglisi sopra le ginocchia, e pascersi di
quello che da esso Socrate gli era dato. Per che, come Socrate vide
Platone il dí seguente, cosí estimò lui esser quel cigno che nel
sonno veduto avea. E il cigno, secondo che questi fisiologi scrivono,
è uccello, il quale soavissimamente canta: per la qual dolcezza di
canto assai bene si può comprendere essere stata dimostrata la
dolcezza della sua futura eloquenza.

Fu costui nominato
Plato, secondo che Aristotile afferma, dalla ampiezza del petto suo.
Esso, poiché piú anni ebbe udito Socrate, secondo che Agostino
racconta nel quarto della
Cittá
di

Dio,
navicò in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli egiziaci si
poteva mostrare. E quindi, tirato

dalla
fama della dottrina pittagorica, venutosene in Italia, da quegli
dottori, li quali allora in essa fiorivano, assai agevolmente apprese
ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu fatta, [ed è
ancora], maravigliosa stima quasi da tutti quegli che a’ tempi ch’e’
romani erano nel colmo del lor principato, eran famosi uomini; e
ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte cose la
sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a ciò,
in costumi splendido e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla
concupiscenza della carne stimolato, intanto che, per poterla
alquanto domare, e vita solitaria disiderando, potendo in altre parti
assai eleggere la sua solitudine, alcuna altra non ne volle che una
villetta, chiamata Accademia, la qual non solamente rimota era da
ogni umano consorzio, ma ella era per pessimo aere pestilente: e
questa ad ogni altra prepose, estimando la sua infezione dovere poter
porre modo a domare la libidine sua. Quivi di ricchezze né d’umana
pompa curandosi, visse infino nell’etá di anni ottantuno, secondo
che scrive Seneca a Lucillo nella sessantunesima epistola; avendo
molti libri scritti e scrivendo continuamente, si morí, lasciati
appresso di sé molti de’ suoi uditori solennissimi filosofi.

«Che
innanzi agli altri», sí come piú degni filosafi, «piú presso gli
stanno».

«Democrito» (supple)
vidi. Democrito fu ateniese, e fu il padre suo sí abbondante di
ricchezze, che si legge lui aver dato un pasto al re Serse, quando
venne in Grecia, e con lui a tutto il suo esercito, che scrive
Giustino fosse un milione d’uomini d’arme. Dopo la morte del quale,
Democrito, dato tutto a’ filosofici studi, riserbatasi di sí gran
ricchezza una piccola quantitá, tutto il rimanente donò al popolo
d’Atene, dicendo quella essere impedimento al suo studio. Esso,
secondo che Giovenale scrive, essendo nella piazza, era usato di
ridere di ciò che esso vedeva agli uomini fare; e, domandato alcuna
volta della cagione, rispose: – Io rido della sciocchezza di tutti
quegli li quali io veggio, percioché io m’accorgo che con l’animo e
col corpo tutti faticano intorno a cose, che né onor né fama lor
posson recare, né con loro, oltre a ciò, far lunga dimora. –
Costui, percioché estimò il vedere esser nimico delle meditazioni,
e grandissimo impedimento degli studi per poter liberamente a questi
vacare, si fece cavar gli occhi della testa. Altri dicono lui aver
ciò fatto, perché il vedere le femmine gli era troppo grande
stimolo e incitamento inespugnabile al vizio della carne. E,
domandato alcuna volta che utilitá si vedesse d’averlo fatto, nulla
altro rispose, se non che, per quello, era d’uno piú che l’usato
accompagnato, e questo era un fanciul che ‘l guidava: benché Tullio,
nel quinto delle
Quistioni
tusculane
,
dice questa essere stata risposta d’Asclepiade, il quale fu assai
chiaro filosofo e similmente cieco. Fu nondimeno uomo di grande
studio e di sottile ingegno, quantunque de’ princípi delle cose
tenesse un’opinione strana e varia da tutte quelle degli altri
filosofi. Esso estimava tutte le cose procedere dall’uno de’ due
princípi, o da odio o da amore: e poneva una materia mista essere,
nella quale i semi di tutte le cose fossero, e quella diceva
chiamarsi «caos», il che tanto suona quanto «confusione»; e di
questa affermava che a caso, non secondo la diliberazione d’alcuna
cosa, ogni animale, ogni pianta, ogni cosa che noi veggiamo, nascere.
E questo chiamava «odio», in quanto le cose che nascevano, dal lor
principio, sí come da 
nimico, si separavano;
poi, dopo certo spazio di tempo corrompendosi, tutte si ritornavano
in questa materia chiamata «caos», e questo appellava «tempo
d’amore e d’amistá». E cosí teneva questi esser due princípi
formali, essendo questo caos principio materiale. Fu, oltre a questo,
costui grandissimo magico, e dopo Zoroaste, re de’ batriani,
trovatore di questa iniqua arte, molto l’aumentò e insegnò. Dice
adunque per le predette opinioni l’autor di lui «che’l mondo a caso
pone» esser creato e fatto, e senza alcuna movente cagione: del
quale Tullio nel quinto libro delle
Quistioni
tusculane

dice: «
Democritus,
luminibus amissis, alba scilicet discernere et atra non poterat: at
vero bona, mala,

aequa,
iniqua, honesta, turpia, utilia, inutilia, magna, parva poterat; et
sine varietate colorum licebat vivere beate, sine notione rerum non
licebat; atque hic vir impediri animi aciem aspectu oculorum
arbitrabatur: et cum alii persaepe quod ante pedes esset non
viderent, ille infinitatem omnem pervagabatur, ut nulla in
extremitate consisteret
».

«Diogene». Diogene
cui figliuol fosse, o di qual cittá, non mi ricorda aver letto, ma
lui essere stato solenne filosofo, e uditore di Anassimandro, molti
il testimoniano: e similmente lui essere rimaso di ricchissimo padre
erede. Il quale, come la veritá filosofica cominciò a conoscere,
cosí tutte le sue gran ricchezze donò agli amici, senza altra cosa
serbarsi che un bastone per sostegno della sua vecchiezza e una
scodella per poter bere con essa: la qual poco tempo appresso gittò
via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E cosí, ogni
cosa donata, primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle
case e de’ templi; poi, trovato un doglio di terra, abitò in quello;
e diceva che esso meglio che alcun altro abitava, percioché egli
aveva una casa volubile, la quale niuno altro ateniese aveva: e
quella nel tempo estivo e caldo volgeva a tramontana, e cosí avea
l’aere fresco senza punto di sole; e il verno il volgeva a
mezzogiorno, e cosí aveva tutto ‘l dí i raggi del sole che ‘l
riscaldavano. Fu negli studi continuo e sollecito mostratore agli
uditori suoi. Tenne una opinione istrana dagli altri filosofi, cioè
che ogni cosa onesta si doveva fare in publico; ed eziandio i
congiungimenti de’ matrimoni, percioché erano onesti, doversi fare
nelle piazze e nelle vie: il quale perché atto di cani pareva, fu
cognominato «cinico» e principe della setta de’ cinici.

Di costui si raccontano
cose assai, e non men piacevoli che laudevoli; per che non sará
altro che utile l’averne alcuna raccontata. Dice Seneca, nel libro
quinto de’
Benefici,
che Alessandro, re di Macedonia, s’ingegnò molto di poterlo avere
appresso di sé, e con grandissimi doni e profferte molte volte il
fece sollicitare: le quali tutte ricusò, alcuna volta dicendo che
egli era molto maggior signore che Alessandro, in quanto egli era
troppo piú quello che egli poteva rifiutare, che quello che
Alessandro gli avesse potuto donare. E dice Valerio Massimo che,
essendo un dí Alessandro venuto alla casa di Diogene, e per
avventura postosegli davanti al sole, e offerendosi a lui se alcuna
cosa volesse, gli rispose che quello, che egli voleva da lui, era che
egli si levasse dal sole e non gli togliesse quello che dare non gli
potea. Similmente aveva Dionisio, tiranno di Siragusa, molto cercato
d’averlo, né mai venir fatto gli era potuto; per che, essendo
Diogene andato in Cecilia a considerare l’incendio di Mongibello,
avvenne che, lavando lattughe salvatiche ad una fonte presso a
Siragusa per mangiarlesi, passò un filosofo chiamato Aristippo, al
quale Dionisio facea molto onore, e, veggendo Diogene gli disse: – Se
tu volessi, Diogene, credere a Dionisio, non ti bisognerebbe al
presente lavare coteste lattughe; – quasi volesse dire: – Tu averesti
de’ fanti e de’ servidori, che te le laverebbono. – A cui Diogene
subitamente rispose: – Aristippo, se tu volessi lavar delle lattughe
come fo io, non ti bisognerebbe di lusingar Dionisio. – Altra volta,
essendo per avventura menato da un ricchissimo uomo, il quale aveva
il viso turpissimo, a vedere una sua bella casa, la quale era
ornatissima di dipinture e d’oro e d’altre care cose, e non che le
mura e’ palchi, ma eziandio il pavimento di quella; volendo Diogene
sputare, s’accostò a colui che menato l’aveva e sputògli nel viso.
Per che quegli, che presenti erano, dissero: – Perché hai tu fatto
cosí, Diogene? – A’ quali Diogene prestamente rispose: – Percioché
io non vedeva in questa casa parte alcuna cosí vile, come quella
nella quale sputato ho. – Oltre a ciò, secondo che Seneca racconta
nel terzo libro dell’
Ira,
avvenne che, leggendo Diogene del vizio dell’ira, un giovane gli
sputò nel viso. Di che Diogene prudentemente e con pazienza portando
l’ingiuria, niun’altra cosa disse, se non: – Io non 
m’adiro, ma io dubito
se sará bisogno o no d’adirarsi. – Di che questo medesimo, tiratosi
in bocca uno sputo ben grasso, nel mezzo della fronte da capo gliele
sputò. Il quale sputo poi che Diogene ebbe forbito, disse: – Per
certo coloro, che dicono che tu non hai bocca, sono fieramente
ingannati. – Fu, secondo che Aulo Gellio scrive
in
primo libro Noctium Atticarum
,
Diogene una volta preso: e, volendolo colui, che preso l’aveva,
vendere, venne un per comperarlo e dimandollo di che cosa sapeva
servire. Al quale Diogene rispose: – Io so comandare agli uomini
liberi. – E, accioché noi trapassiamo da queste laudevoli sue opere
al fine della vita sua, secondo che scrive Tullio nel primo libro
delle
Quistioni
tusculane
,
essendo Diogene infermo di quella infermitá della quale si morí, fu
domandato da alcuno de’ discepoli suoi, quello che voleva si facesse,
poi che egli fosse morto, del corpo suo. Subitamente rispose: –
Gittatelo al fosso. – Alla qual risposta colui, che domandato avea,
seguí: – Come, Diogene? vuoi tu che i cani e le fiere salvatiche e
gli uccelli ti manuchino? – Al quale Diogene rispose: – Pommi allato
il baston mio, sí che io abbia con che cacciargli. – A cui questo
addimandante disse: – O come gli caccerai, che non gli sentirai? –
Disse allora Diogene: – Se io non gli debbo sentire, che fa quello a
me perché e’ mi mangino? – E cosí si morí: il dove non so.

«Anassagora».
Anassagora fu nobile uomo ateniese, e fu uditore di Anassimene e
famoso filosofo. Percioché sostener non poteva i costumi e le
maniere de’ trenta tiranni, li quali in Atene erano, si fuggí
d’Atene e seguí gli studi pellegrini tanto tempo, quanto la signoria
de’ predetti durò. Poi, tornando ad Atene, e vedendo le sue
possessioni, che erano assai, tutte guaste e occupate da’ pruni e da
malvage piante, disse: – Se io avessi voluto guardar queste, io avrei
perduto me. – Questi nella morte d’un suo figliuolo, assai della sua
fortezza d’animo e della sua scienza mostrò; percioché essendogli
nunziata, niuna altra cosa disse a colui che gliele palesò: – Niuna
cosa nuova o da me non aspettata mi racconti, percioché io sapeva
che colui, che di me era nato, era mortale. – Ed essendo infermo di
quella infermitá della quale egli morí, e giacendo lontano alla
cittá, fu domandato se gli piacesse d’essere portato a morire nella
cittá. Rispose che di ciò egli non curava, percioché egli sapeva
che altrettanta via era dal luogo dove giaceva in inferno, quanta
dalla cittá in inferno.

«E Tale». Tale fu
asiano, figliuolo d’uno che si chiamò Essamite, sí come Eusebio
scrive
in
libro
Temporum
;
e, secondo che Pomponio Mela dice nel primo libro della

Cosmografia
,
egli fu

d’una
cittá chiamata Mileto, la quale fu in una provincia d’Asia, chiamata
Ionia: e, sí come santo Agostino dice nel libro ottavo della
Cittá
di Dio
,
egli fu prencipe de’ filosofi ioni, e fu massimamente ammirabile in
quanto, essendo da lui compresi i numeri delle regole astrologiche,
non solamente conobbe i diffetti del sole e della luna, ma ancora gli
predisse. E, secondo che alcuni vogliono, essa fu il primo che
conobbe la immobilitá, o brevissimo circúito di moto della stella
la qual noi chiamiamo «tramontana», e che da essa preso dimostrò
l’ordine, il quale ancora servano i marinari nel navicare, quel segno
seguendo. Fu sua opinione che l’acqua fosse principio di tutte le
cose, e da essa tutti gli elementi ed esso mondo tutto e quelle cose
che in esso si generano procedessono, sí come santo Agostino nel
preallegato libro dimostra. E, percioché esso fu de’ primi filosofi
di Grecia e, avanti che il nome del filosofo si divulgasse, fosse
chiamato «savio», come sei altri suoi contemporanei e valenti
uomini furono; avvenne che, essendo da’ pescatori presa pescando, e
tratta di mare, una tavola d’oro, ed essendo diliberato che al piú
savio mandata fosse, e per conseguente mandata a lui; fu di tanta e
sí discreta umiltá, che ricevere non la volle, ma la mandò ad uno
degli altri sei. Recusò, secondo che alcuni scrivono, d’aver moglie,
e ciò dice che faceva per non avere ad amare i figliuoli. Credomi
che questo fuggiva, percioché troppo intenso e forse non molto
ordinato amor gli parea. Ultimamente assai utili libri lasciando,
essendo giá d’etá di settantotto anni, morí. Ma, secondo che
scrive Eusebio
in
libro Temporum
,
pare che egli vivesse anni novantadue. Fiorí ne’ tempi che Ciro re
per forza trasportò in Persia l’imperio de’ medi.

«Empedocles».
Empedocles fu ateniese, secondo Boezio, del quale, credo piú per
difetto del tempo, che ogni cosa consuma, e della trascutaggine degli
uomini, che negligentemente servano le scritture, che perché egli
solenne filosofo degno di laude non fosse, alcuna cosa non si truova
che istorialmente di lui raccontar si possa; quantunque alcuni dicano
lui essere stato ottimo cantatore, ed 
il suo canto avere
avuta tanta di melodia che, correndo impetuosamente un giovane
appresso ad un suo nemico per ucciderlo, udendo la dolcezza del canto
di costui, il quale per avventura allora in quella parte cantava, per
la quale il giovane seguiva il suo nemico, dimenticato l’odio, si
ritenne ad ascoltarlo. Costui, secondo che scrive Papia, investigando
il luogo della montagna di Mongibello in Cicilia, disavvedutamente
cadde in una fossa di fuoco, e in quella, non potendosi aiutare, fu
ucciso dal fuoco. Fiorí regnante Artaserse.

«Eraclito». Eraclito
è assai appo gli antichi filosofi famoso; ma di lui altro nella
mente non ho, se non che quegli libri, li quali egli compose, furono
con tanta oscuritá di parole e di sentenze scritti da lui, che pochi
eran coloro li quali potessero de’ suoi testi trar frutto; per la
qual cosa fu cognominato «tenebroso». Dove vivesse, o quello che
egli adoperasse, o di che etá morisse, o dove, non trovai mai;
quantunque alcuni dicono lui essere stato contemporaneo di Democrito.

E «Zenone». Furono
due eccellenti filosofi, de’ quali ciascuno fu nominato Zenone; ma,
percioché qui non si può comprendere di quale l’autor si voglia
dire, brievemente diremo d’amenduni. Fu adunque l’uno di questi
chiamato Zenone eracleate. Costui, potendosi in pace e in quiete
riposare in Eraclea, sua cittá, e in sicura libertá vivere, avendo
all’altrui miseria compassione, se ne andò a Girgenti in Cicilia, in
que’ tempi da miserabile servitudine oppressa, soprastantele la
crudel tirannia di Falaris, volendo quivi esperienza prendere del
frutto che dar potesse la sua scienza. Ed essendosi accorto il
tiranno piú per consuetudine di signoreggiare che per salutevol
consiglio, tenere il dominio, con maravigliose esortazioni i nobili
giovani della citta infiammò in disiderio di libertá. La qual cosa
pervenuta agli orecchi di Falaris, fece di presente prender Zenone, e
lui nel mezzo della corte posto al martorio, il domandò quali
fossero coloro che del suo consiglio eran partefici. De’ quali Zenone
alcuno non ne nominò; ma in luogo di essi nominò tutti quegli che
piú col tiranno eran congiunti, e ne’ quali esso piú si fidava: e
in tal guisa renduti gli amici suoi sospetti a Falaris, fieramente
cominciò a mordere e a riprendere la tristizia e la timiditá de’
giovani circustanti: e quantunque d’etá vecchio fosse, riscaldò sí
con le sue parole i cuori de’ giovani di Gergenti, che, mosso il
popolo a romore, uccisero con le pietre il tiranno e la perduta
libertá racquistâro. E questo ho, senza piú, che poter dire del
primo Zenone.

L’altro Zenone chi si
fosse altrimenti né donde non so; ma quasi una medesima costanza di
animo alla precedente n’ho che raccontare. Essendo adunque questo
Zenone, secondo che Valerio Massimo scrive nel terzo libro,
fieramente tormentato da un tiranno chiamato Clearco, il quale, per
forza di tormenti, s’ingegnava di sapere chi fossero quegli che con
lui congiurati fossero nella sua morte, della quale Zenone tenuto
avea consiglio; dopo alquanto, senza averne alcuni nominati, disse sé
essere disposto a manifestargli quello che esso addomandava, ma
essere di necessitá che alquanto in disparte si traessero. Per che,
cosí da parte tiratisi, Zenone prese Clearco per l’orecchio co’
denti, né mai il lasciò, prima che tronca gliele avesse, come che
egli da’ circustanti amici del tiranno ucciso fosse.

«E vidi ‘l buon
accoglitor del quale», cioè della qualitá dell’erbe; e che esso
intenda dell’erbe, si manifesta per lo filosofo nominato, il quale
intorno a quelle fu maravigliosamente ammaestrato: «Dioscoride
dico». Dioscoride né di che parenti né di qual cittá natio fosse,
non lessi giammai; e di lui niun’altra cosa ho che dire, se non che
esso compuose un libro, nel quale ordinatamente discrisse la forma di
ciascuna erba, cioè come fossero fatte le frondi di quelle, come
fosser fatte le loro radici, come fosse fatto il gambo e come i fiori
e come i frutti di ciascuna e come il nome, e similmente la virtú di
quelle.

«E vidi Orfeo».
Orfeo, secondo che Lattanzio,
in
libro Divinarum institutionum in gentiles

scrive, fu figliuolo d’Apolline e di Calliope musa, e a costui scrive
Rabano,
in
libro Originum
,
che Mercurio donò la cetera, la quale poco avanti per suo ingegno
avea composta: la quale esso Orfeo si dolcemente sonò, secondo che i
poeti scrivono, che egli faceva muovere le selve de’ luoghi loro, e
faceva fermare il corso de’ fiumi, faceva le fiere salvatiche e
crudeli diventar mansuete. Di costui, nel quarto della
Georgica,
racconta Virgilio questa favola, cioè lui avere amata una ninfa,
chiamata 
Euridice, ed avendola
con la dolcezza del canto suo nel suo amore tirata, la prese per
moglie. La quale un pastore, chiamato Aristeo, cominciò ad amare: e
un giorno, andandosi ella diportando insieme con certe fanciulle su
per la riva d’un fiume chiamato Ebro, Aristeo la volle pigliare; per
la qual cosa essa cominciò a fuggire, e, fuggendo, pose il piè
sopra un serpente, il quale era nascoso nell’erba; per che,
sentendosi il serpente priemere, rivoltosi, lei con un velenoso morso
trafisse, di che ella si morí. Per la qual cosa Orfeo piangendo
discese in inferno, e con la cetera sua cominciò dolcissimamente a
cantare, pregando nel canto suo che Euridice gli fosse renduta. E
conciofossecosaché esso non solamente i ministri infernali traesse
in compassione di sé, ma ancora facesse all’anime de’ dannati
dimenticare la pena de’ lor tormenti, Proserpina, reina d’inferno,
mossasi, gli rendé Euridice, ma con questa legge: che egli non si
dovesse indietro rivolgere a riguardarla, infino a tanto che egli non
fosse pervenuto sopra la terra; percioché, se egli si rivolgesse,
egli la perderebbe, senza mai poterla piú riavere. Ma esso, con essa
venendone, da tanto disiderio di vederla fu tratto, che, essendo giá
vicino al pervenire sopra la terra, non si poté tenere che non si
volgesse a vederla. Per la qual cosa, senza speranza di riaverla,
subitamente la perdé; laonde egli lungamente pianse, e del tutto si
dispose, poiché lei perduta avea, di mai piú non volerne
alcun’altra, ma di menar vita celibe, mentre vivesse. Per la qual
cosa, sí come dice Ovidio, avendo il matrimonio di molt’altre, che
il domandavano, ricusato, cominciò a confortare gli altri uomini che
casta vita menassero. Il che sapendo le femmine, il cominciarono
fieramente ad avere in odio; e multiplicò in tanto questo odio, che,
celebrando le femmine quel sacrificio a Bacco, che si chiama «orgia»,
allato al fiume chiamato Ebro, co’ marroni e co’ rastri e con altri
stromenti da lavorar la terra l’uccisono e isbranaron tutto, e il
capo suo e la cetera gittate nell’Ebro, infino nell’isola di Lesbo
furono dall’acque menate: e, volendo un serpente divorare la testa,
da Apolline fu convertito in pietra: e la sua cetra, secondo che dice
Rabano, fu assunta in cielo e posta tra l’altre imagini celestiali.

Ma, lasciando le
fizioni poetiche da parte, certa cosa è costui essere stato di
Tracia, e nato d’una gente chiamata «cicona»: e secondo che Solino,
De
mirabilibus mundi
,
afferma, questi cotali ciconi infino nel tempo suo in sublime gloria
si reputavano Orfeo esser nato di loro. E fu costui, secondo che
molti stimano, di que’ primi sacerdoti che furono ordinati in que’
tempi, che prima si cominciò in Grecia a conoscere Iddio, a dovere
quelle parole esquisite comporre, dalle quali nacque il nome del
poeta. E furono le forze della sua eloquenza grandissime in tanto,
che in qual parte esso voleva, aveva forza di volgere le menti degli
uomini. E, secondo che scrive Stazio nel suo Tebaida, egli fu di que’
nobili uomini, li quali furono chiamati argonauti, che passarono con
Giasone al Colco: e fu trovatore di certi sacrifici, infino al suo
tempo non usati, e massimamente di quei di Bacco, secondo che
Lattanzio scrive nel preallegato libro, dicendo Orfeo fu il primo, il
quale introdusse in Grecia i sacrifici di Libero padre, cioè di
Bacco; e fu il primo che quegli celebrò sopra un monte di Beozia,
vicino a Tebe dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato Citerone,
per la frequenza del canto della cetera, il quale in quello faceva
Orfeo. E sono quegli sacrifici ancora chiamati «orfichi», ne’ quali
esso Orfeo fu poi morto ed isbranato. Della cui morte dice Teodonzio
che, avendo Orfeo primieramente trovati i sacrifici di Bacco, e appo
quegli di Tracia avendo comandato questi sacrifici farsi da’ cori
delle Menade, cioè delle femmine, le quali quel natural difetto
patissono, del quale esse ogni mese sono, almeno una volta, impedite:
e questo aveva fatto a fine di torle in quel tempo dalle commistioni
degli uomini, conciosiacosaché non solamente sia abominabile, ma
ancora dannoso agli uomini; ed esse, di ciò essendosi accorte:
estimando questo essere stato trovato per far palese agli uomini la
turpitudine loro, turbate, congiurarono contro ad Orfeo, e lui, che
di ciò non si prendeva guardia, co’ marroni uccisono e gittaronlo
nel fiume Ebro. Fiorí costui in maravigliosa fama, regnando appo i
troiani Laomedonte, e appo i latini Fauno, padre di Latino. Nondimeno
Leone tessalo diceva esserne stato un altro molto più antico di
costui, il quale, essendo grandissimo musico, aveva trovato insieme
con Museo quel modo esquisito di parlare, il quale di sopra dicemmo;
avvegnaché Eusebio
in
libro Temporum

scriva questo Museo, figliuolo di Eumolpo, essere stato discepolo
d’Orfeo.


«Tullio». Tullio,
quantunque roman fosse, nondimeno la sua origine fu d’Arpino, cittá
non lontana da Aquino, anticamente stata di que’ popoli che si
chiamarono volsci; e discese di nobili parenti, percioché si legge
li suoi passati essere stati re della lor cittá. Questi, giovanetto,
venne a Roma; e giá in eloquenza valendo molto, avendo l’animo
gentile, sempre s’accostò a’ più nobili uomini di Roma. I suoi
studi furon grandi e in ogni spezie di filosofia: e quantunque in
quegli fosse ammaestratissimo, nondimeno in eloquenza trapassò ogni
altro preterito, e, per quello che insino a questo di veder si possa,
si può dire e futuro. Costui compose molti e laudevoli libri. Egli
ancora giovinetto compose in rettorica l’
Arte
vecchia

e la
Nuova.
Poi, più maturo, compose in questa medesima facultá un libro
chiamato
De
oratore
,
nel quale con artificioso stilo racchiuse ciò che in retorica dir si
puote. Scrisse, oltra a ciò, molti filosofici libri, sí come quello
De
officiis, Delle

quistion
tusculane, De natura deorum, De divinatione, De laudibus
philosophiae, De legibus, De re publica, De re frumentaria, De re
militari, De re agraria, De amicitia, De senectute, De paradoxis, De
topicis
ed
altri più: e lasciò infinite orazioni fatte in senato ed altrove,
degne di eterna memoria:

e,
oltre a ciò, scrisse un gran volume di pistole familiari e altre.
Divenne per la sua industria in Roma splendido cittadino, in tanto
che non solamente fu assunto tra la gente patrizia, ma esso fu fatto
dell’ordine del senato, e insino al sommo grado del consolato
pervenne: nel quale avendo da Fulvia, amica di Quinto Curio, e da
certi ambasciatori degli allobrogi cautamente sentita la
congiurazione ordinata da Catellina, presi certi nobili giovani
romani che a quella tenevano, essendosi giá Catellina partito di
Roma, di grandissimo pericolo liberò la cittá. Fu, oltre a ciò,
mandato in esilio da’ romani, e poi, finito l’anno, rivocato e con
mirabile onore ricevuto. E, sopravvenute le guerre cittadine, seguí
le parti di Pompeo; ed essendo in ogni parte i pompeiani vinti da
Giulio Cesare, fu rivocato in Roma, né però fu privato dell’ordine
senatorio. Ultimamente fu di quegli li quali congiurarono contro a
Cesare, e quivi si trovò dove Cesare fu ucciso; per la qual cosa,
come gli altri congiurati fuggitosi di Roma, essendo il nome suo
posto nella tavola de’ proscritti da Antonio triumviro, il quale
fieramente l’odiava, se n’andò a Gaeta. Dove pianamente dimorando,
Gaio Popilio Lenate, il quale Tullio con la sua eloquenza avea di
capitale pericolo liberato, pregò Marco Antonio che gli concedesse
di perseguirlo e d’ucciderlo: ed ottenutolo, lui nel campo Formiano,
non lontano da Gaeta, uccise; e tagliatagli la testa e la destra
mano, con esse se ne tornò a Roma, quasi trionfasse di quella testa
che la sua avea liberata da morte.

«Lino» (supple)
vidi. Lino fu tebano, uomo d’altissimo ingegno e in musica
ammaestrato molto; e insieme con Anfione e con Zeto, tebani e
nobilissimi musici, concorse. Credesi fosse uno di quegli primi poeti
teologi; e, secondo che scrive Eusebio, egli fu maestro d’Ercole; e
fu a’ tempi di Bacco, chiamato Libero padre, regnante Pandione in
Atena e Steleno appo gli argivi; e perseverò insino al tempo che
Atreo e Tieste regnarono in Micena ed Egeo in Atene.

«E Seneca morale». È
cognominato questo Seneca «morale», a differenza d’un altro Seneca,
il quale, della sua famiglia medesima, fu poco tempo appresso di lui,
il quale (essendo il nome di questo «morale» Lucio Anneo Seneca) fu
chiamato Marco Anneo Seneca, e fu poeta tragedo; percioché egli
scrisse quelle tragedie, le quali molti credono che Seneca morale
scrivesse. Fu adunque, questo Seneca, spagnuolo, della cittá di
Corduba: ed egli con due suoi fratelli carnali (dei quali l’uno fu
chiamato Iunio Anneo Gallio e l’altro Lucio Anneo Mela, padre di
Lucano) da Gneo Domizio, avolo di Neron Cesare, secondo che alcuni
dicono, furono menati a Roma, e quivi furono in onorevole stato; e
massimamente questo Seneca, il quale, qual che la cagione si fosse,
venuto in disgrazia di Claudio Cesare, il rilegò nell’isola di
Corsica, nella quale egli stette parecchi anni. Poi, avendo Claudio
fatta uccidere Messalina, sua moglie, per gli manifesti suoi
adultèri, e presa in luogo di lei Agrippina, figliuola di Germanico
e sorella di Gaio Caligula imperadore e moglie di Domizio Nerone,
padre di Nerone Cesare; a’ prieghi di lei fu da Claudio rivocato in
Roma e restituito ne’ suoi onori, e, oltre a ciò, dato per maestro a
Nerone, ancora assai giovanetto, col quale in grandissimo colmo
divenne e massimamente di ricchezze. Egli fu uditore d’un famoso
filosofo in que’ tempi, chiamato Focione, della setta degli stoici;
e, quantunque in molte facultá solennissimo divenisse, pure in
filosofia morale, secondo la setta stoica, divenne mirabile uomo, e
in tanto piú 
commendabile, in quanto
i suoi costumi, quanto piú esser potessono, furon conformi alla sua
dottrina. E, perseverando in continuo esercizio, compose molti e
laudevoli libri, sí come il libro
De
beneficiis,
quello

De ira
,
quello

De clementia
a
Nerone, quello

De tranquillitate animi
,
quello

De remediis fortuitorum
,
quello

De quaestionibus naturalibus
,
quello

De quatuor virtutibus
,
quello

De consolatione ad Elviam
e
altri piú. Ma sopra tutti fu quello

Delle pistole a Lucillo
,
nel quale, senza

alcun
dubbio, ciò che scriver si può a persuadere di virtuosamente
vivere, in quel si contiene: e quello ancora che si chiama
Le
declamazioni
.
Compose, oltre a questi, un altro, secondo che alcuni vogliono, il
quale è molto piú poetico che morale, ed è in prosa e in versi, in
forma di tragedia: e in quello discrive come Claudio Cesare fosse
cacciato di paradiso e menatone da Mercurio in inferno. E che esso
questo componesse, quantunque a me non paia suo stilo, nondimeno
alquanta fede vi presto, percioché egli ebbe fieramente in odio
Claudio, per la ingiuria dello esilio ricevuta da lui; e quello
libretto per tutto non è altro che far beffe di Claudio e della sua
poca laudevol vita.

Ma, poi che Claudio,
per lo ‘nganno d’Agrippina, sua moglie, fu morto dal veleno, datogli
mangiare ne’ boleti, e per l’astuzia di lei posposto Britannico,
figliuolo legittimo e natural di Claudio; Nerone, figliuolo adottivo
del detto Claudio e d’Agrippina e discepolo di questo Seneca, fu
fatto imperadore ancora assai giovane; e senza alcun dubbio
multiplicò molto la grandezza e la ricchezza di Seneca, la quale men
che felice uscita ebbe; percioché, avendo Nerone fatto morire
Britannico di veleno, e, oltre a ciò, avendo fatta uccidere
Agrippina, sua madre, e Ottavia, sirocchia carnale di Britannico e
sua moglie, rifiutata e mandata in esilio in una isola, molte cose
falsamente apponendole, e ultimamente fattala uccidere, e fattasi
moglie una gentildonna di Roma, chiamata Poppeia Sabina, la qual più
anni aveva per amica tenuta, e fatto morire uno Burrone, il quale era
prefetto dello esercito pretoriano e suo maestro insieme con Seneca,
e in luogo di Burrone, ad istanza di Poppeia, posto uno chiamato
Tigillino; ed avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca non, co’
suoi consigli, l’animo di Nerone volgesse e loro gli facesse odiosi,
cominciarono sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual
cosa sentendo Seneca, per menomare la ‘nvidia portatagli, pregò
Nerone che tutte le sue ricchezze e gli onori prendesse, e lui
lasciasse in povero e in privato stato. Le quali Nerone non volle
ricevere, ma, postogli il braccio in collo, e lusingandolo, e quello
nelle parole mostrando che nell’animo non avea, ciò, che egli
rifiutava, ritenere gli fece. Nondimeno Seneca, suspicando sempre
della poca fede di Nerone, cominciò del tutto a rifiutare le
visitazioni e le salutazioni degli amici, ed a fuggire la lunga
compagnia de’ clientoli, e a dimorare il più del tempo ad alcune sue
possessioni, le quali fuora di Roma avea.

Ultimamente, essendosi
scoperta una congiurazione fatta contro a Nerone da molti de’
senatori e da più altri dell’ordine equestre, e da’ centurioni e da
altri cittadini, essendo di quella prencipe un nobile giovane di Roma
chiamato Pisone; venne in animo a Nerone di farlo morire, non perché
in quella colpevole il trovasse, ma per propria malvagitá e come
uomo che era disideroso d’adoperare crudelmente la sua potenza co’
ferri. Ed essendo per ventura di que’ dí, secondo che scrive
Cornelio Tacito nel quindicesimo libro delle sue
Storie,
tornato Seneca di campagna, s’era rimaso in una sua villa, quattro
miglia vicino a Roma, alla quale Sillano, tribuno d’una coorte
pretoria, approssimandosi giá l’ora tarda, andò e quella intorniò
d’uomini d’arme, ed entrato in casa, trovò lui con Pompeia Paulina
sua moglie, e con due de’ suoi amici mangiare. E mangiando egli, gli
manifestò il comandamento fattogli dall’imperadore, cioè: uno,
chiamato Natale, essere stato mandato a lui per parte di Pisone, ed
esso essersi in nome di Pisone rammaricato perché da poterlo
visitare fosse proibito. Al quale Seneca rispuose: sé essersi da ciò
scusato, che fatto l’avea per cagione della sua infermitá e per
disiderio di riposo; e che esso non avea avuta alcuna cagione per la
quale la salute del privato uomo avesse preposta alla sua sanitá; e
che il suo ingegno non era pronto né inchinevole a dover lusingare
alcuno; e che di questo non era alcuno piú consapevole che Nerone,
il quale spessissimamente avea provata piú la libertá di Seneca che
il servigio. Le quali parole, presente Poppeia e Tigillino, il
tribuno rapportò a Nerone; il quale Nerone domandò se Seneca
s’apprestava a volontaria morte. Rispose: niuno segno di paura aver
veduto in lui e niuna tristizia conosciuta nelle parole e nel viso.
Per la qual cosa Nerone gli comandò che tornasse a 
Seneca, e gli
comandasse che egli s’eleggesse la morte. Il quale tornatovi, non
volle andare nella sua presenza, ma mandovvi uno de’ centurioni, che
gli dicesse l’ultima necessitá: la quale Seneca senza alcuna paura
ascoltò, e domandò che portate gli fossero le tavole del suo
testamento. La qual cosa il centurione non sostenne. E perciò
Seneca, voltosi a’ suoi amici, molte cose disse, e, poiché negato
gli era di poter render loro grazia secondo i lor meriti, testò sé
lasciar loro una di quelle cose le quali egli aveva piú bella, e ciò
era la immagine della vita sua, della quale se essi si ricordassono,
essi sempre seco porterebbono la fama delle buone e laudevoli arti e
della costante loro amistá. E, oltre a questo, ora con parole e ora
con piú intenta dimostrazione, cominciò le lor lacrime a rivocare
in fermezza d’animo: domandògli dove i comandamenti della sapienza,
dove per molti anni avesser lasciata andare la premeditata ragione
intorno alle cose sopravvegnenti, e da cui non esser saputa la
crudeltá di Nerone; e che niun’altra cosa gli restava a fare, avendo
la madre e ‘l fratello uccisi, se non d’uccidere il suo maestro e
colui che allevato l’avea. E quinci, abbracciata la moglie, la
confortò e pregò che con forte animo portasse questa ingiuria. E,
avendo giá il centesimo anno passato, si fece aprir le vene delle
braccia, e appresso, percioché il sangue lentamente usciva del
corpo, similmente si fece aprir le vene delle gambe e delle
ginocchia; e, mentre lentamente mancava la vita sua, infino che gli
bastaron le forze di poter parlare, fatti venire scrittori, piú cose
degne di laude in sua fama e in bene di coloro che dopo la sua morte
le dovevan vedere, fece scrivere. Ma, prolungandosi troppo la morte,
pregò Stazio Anneo medico, lungamente stato suo fido amico, che gli
desse veleno, il quale egli lungamente davanti s’aveva apparecchiato.
Il quale preso, né d’alcuna cosa offendendolo, per li membri, che
erano giá freddi e niuna via davano donde il veleno potesse al cuore
trapassare; si fece alla fine mettere in un bagno d’acqua molto
calda, nel quale entrando, con le mani, que’ servi che piú
prossimani gli erano, presa dell’acqua, risperse. Da’ quali fu udita
questa voce: che esso quello liquore sacrificava a Giove liberatore.
E poco appresso dal vapore caldo dell’acqua fu ucciso, e senza alcuna
pompa o solennitá di funebre ufficio fu, secondo il costume antico,
arso il corpo suo.

Fu nondimeno fama,
secondo che il predetto Cornelio scrive, che Subrio Flavio aveva co’
centurioni avuto secreto consiglio, il quale Seneca aveva saputo,
che, poiché Nerone fosse stato per opera di Pisone ucciso, che esso
Pisone similmente ucciso fosse, e che l’imperio fosse dato a Seneca,
quasi, come non colpevole, per ragione delle sue virtú fosse stato
eletto all’altezza del principato.

Ma, come che l’autore
in questo luogo il ponga come dannato, io non sono perciò assai
certo, se questa opinione sia da seguire o no: conciosiacosaché si
leggano piú epistole mandate da Seneca a san Paolo e da san Paolo a
Seneca, nelle quali appare tra loro essere stata singulare amistá,
quantunque occulta fosse; ed in quelle, o almeno nell’ultima di
quelle, essere parole scritte da san Paolo, le quali, bene intese,
assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui aver per cristiano. E
se esso fu cristiano e di continentissima e santa vita, perché tra’
dannati annoverar si debba non veggio: senza che, a confermazion di
questa mia pietosa opinione, vengono le parole scritte di lui da san
Girolamo
in
libro Virorum illustrium
,
nel quale scrive cosí: «
Lucius
Annaeus Seneca Cordubensis,

Focionis
stoici discipulus, et patruus Lucani poëtae, continentissimae vitae
fuit, quem non ponerem in chatalogo sanctorum, nisi me illae
epistolae provocarent, quae leguntur a plurimis Pauli ad Senecam et
Senecae ad Paulum, in quibus, cum esset Neronis magister, et illius
temporis potentissimus, optare se dicit eius esse loci apud suos,
cuius sit Paulus apud Christianos. Hic ante biennium, quam Petrus et
Paulus coronarentur martyrio, a Nerone interfectus est
».

[E, oltre a questo, mi
sospigne alquanto a sperar bene della sua salute, quasi l’ultimo atto
della vita sua, quando, entrando nel piú caldo bagno, disse sé
sacrificare quella acqua a Giove liberatore; parendomi queste parole
potersi con questo sentimento intendere: che esso, il quale,
quantunque il battesimo della fede avesse, il quale i nostri santi
chiamano «
flaminis»,
non essendo rigenerato secondo il comune uso de’ cristiani nel
battesimo dell’acqua e dello Spirito santo, quell’acqua in fonte
battesimale consegrasse a Giove liberatore, cioè a Iesu Cristo, il
quale veramente fu liberatore dell’umana generazione nella sua morte
e nella resurrezione. Né osta il 
nome di Giove, il quale
altra volta è stato mostrato ottimamente convenirsi a Dio: anzi a
lui e non ad alcuna creatura. E cosí consecratala, in questa essersi
bagnato, e divenuto cristiano col sacramento visibile, come con la
mente era. Ora di questo è a ciascuno licito quello crederne che gli
pare.]

[Lez.
XVII]

«Euclide geometra»
(
supple)
vidi. Euclide geometra, onde si fosse, né di che parenti disceso,
non so; ma assai appare per Valerio Massimo, nel suo ottavo libro,
capitolo dodici, lui essere stato contemporaneo di Platone, e,
percioché insino ne’ nostri dí è perseverata la fama sua, puote
assai esser manifesto lui avere in geometria ogni altro filosofo
trapassato. Esso adunque compose il libro delle
Teoremate
in geometria, il quale ancora consiste: sopra le quali fu da Boezio
ottimamente scritto.

«E Tolomeo». Tolomeo,
cognominato da alcuno peludense, secondo che opinione è di molti, fu
egiziaco; ed alcuni estimano lui essere stato di que’ re d’Egitto,
percioché molti ve n’ebbe con questo nome; e altri credono che esso
non fosse re, ma nobile uomo del paese. E, percioché alcuno scrive
lui essere stato nel torno di centoventotto anni dopo la incarnazione
di nostro Signore, cioè a’ tempi d’Adriano imperadore, sono io di
quegli che credo lui non essere stato re; percioché in que’ tempi
non si legge Egitto avere avuti re, conciofossecosaché esso in forma
di provincia romana si reggesse. Ma chi che egli si fosse, o re o
altro, certissimo appare lui essere stato eccellentissimo astrolago.
Nella quale arte, a dottrina e ammaestramento di coloro che venir
doveano, esso piú libri compose, tra’ quali fu l’
Almagesto,
il
Quadripartito,
e ‘l
Centiloquio,
e molte tavole a dovere con le lor dimostrazioni poter trovare i veri
luoghi de’ pianeti e i lor movimenti. Fu allevato in Alessandria, e
quivi abitò, e in Rodi; e, poi che vivuto fu ottantotto anni, finío
la vita sua.

«Ipocras». Ipocras,
secondo che Rabano
in
libro XVIII Originum

scrive, fu figliuolo d’Asclepio, e regnante Artaserse, re di Persia,
nacque nell’isola di Coo; e per assiduo studio divenne gran filosofo
e solennissimo medico. E dicono di lui alcuni che, essendo egli da un
fisonomo veduto, dové il fisonomo dire a lui dovere essere di natura
lussurioso uomo, e, oltre a ciò, di grossissimo ingegno: la qual
cosa egli confessò esser vera, ma che l’astinenza l’avea fatto
casto, e l’assiduitá dello studio l’avea fatto ingegnoso. E
veramente fu egli ingegnoso, percioché esso fu colui il quale per
forza d’ingegno ritrovò la medicina, la qual del tutto era perduta.
È adunque da sapere che Apollo appo i greci fu il primiero uomo che
trovò medicina, e costui, investigate le virtú dell’erbe, quelle
sole nelle sue medicine adoperò; appresso il quale fu Esculapio suo
figliuolo, il quale, ammaestrato dal padre, e poi per lo suo studio
divenuto scienziatissimo, quella ampliò molto; ed essendo avvenuto
il caso d’Ippolito, figliuolo di Teseo, re d’Atene, che, fuggendo la
sua ira, da’ cavalli che il suo carro tiravano, spaventati da’ pesci
chiamati «vecchi marini», li quali di terra rifuggivano in mare,
lui, rotte le ruote, pe’ luoghi petrosi trascinando, aveano tutto
lacerato, e in sí fatta maniera concio che ciascuno giudicava lui
morto: per l’arte e sollecitudine di questo Esculapio fu a sanitá
ritornato. Ed avvenendo non guari poi che Esculapio, percosso da una
folgore, morisse, diceva ogn’uomo perciò lui essere stato fulminato
da Giove, percioché Giove s’era turbato che alcuno uomo avesse
potuto un altro uomo morto rivocare in vita. Per la quale universal
fama degli sciocchi, fu del tutto interdetta l’arte della medicina;
e, secondo che Plinio, nel libro ventinovesimo
De
historia naturali
,
scrive, essendo la medicina sotto oscurissima notte stata nascosa
insino al

tempo
della guerra peloponensiaca, fu da questo Ippocrate rivocata in luce
e consecrata ad Esculapio. E dice Rabano, nel libro preallegato, che
ella stette nascosa nel torno di cinquecento anni; e cosí costui,
d’arte cosí opportuna all’umana generazione si può dire essere
stato prencipe ed autore. Scrive di costui san Geronimo nelle
Questioni
del Genesi

che, avendo una femmina partorito un bel figliuolo, il quale né lei
né il padre somigliava, era per esser punita sí come adultera; il
che udendo Ippocrate, disse che era da riguardare, non per avventura
nella camera sua fosse alcuna dipintura simile; la qual trovatavisi,
liberò la innocente femmina dalla sospezione avuta di lei. Egli fu
piccolo di corpo e di forma fu bello: ebbe gran capo, fu di movimento
ed eziandio di parlar tardo 
e fu di molta
meditazione e di piccol cibo; e, quando si riposava, guardava la
terra. Visse novantacinque anni, e poi si morí.

[«Avicenna».
Avicenna, secondo che io ho inteso, fu per nazione nobilissimo uomo;
anzi dicono alcuni lui essere stato chiarissimo prencipe e d’alta
letteratura famoso, e massimamente in medicina. Altro non ne so.]

«E Galieno». Galieno
fu per origine di Pergamo in Asia, lá dove primieramente fu trovato
il fare delle pelli degli animali carte da scrivere, le quali ancora
servano il nome del luogo dove primieramente fatte furono, e
chiamansi «pergamene»; ed in medicina fu scienziatissimo uomo,
secondo che appare. Costui primieramente fiorí ad Atene e poi in
Alessandria fu di grandissimo nome; e quindi venutosene a Roma, quivi
fu di grandissima fama, per quello che alcuni dicano, al tempo di
Antonino pio imperadore. Altri il fanno piú antico, e dicono che
egli visse al tempo di Nerone e degli altri imperadori, che appresso
lui furono, infino a Domiziano. Esso, poi che finiti ebbe anni
ottantasette, finío la vita sua.

«Averrois». Averrois
dicono alcuni che fu arabo ed abitò in Ispagna; altri dicono che
egli fu spagnuolo. Uomo d’eccellente ingegno, intanto che egli
comentò ciò che Aristotile in filosofia naturale e metafisica
composto avea; e tanto chiara rendé la scienza sua, che quasi
apparve insino al suo tempo non essere stata intesa, e però non
seguita, dove dopo lui è stata in mirabile pregio, anzi a quella
d’ogni altro filosofo preposta. «Che ‘l gran comento feo»: sopra i
libri d’Aristotile. Ed è intra lo «scritto» e ‘l «comento», che
sopra l’opera d’alcuni autori si fanno, questa differenza: che lo
scritto procede per divisione, e particularmente ogni cosa del testo
dichiara; il comento prende solo le conclusioni, e, senza alcuna
divisione, quelle apre e dilucida: e cosí è fatto quello
d’Averrois.

Ma, poiché finite sono
le storie, avanti che fine si faccia a questa quarta particula, è da
rimuovere un dubbio, il quale per cose in essa raccontate si può
muovere: e dico che in questo canto pare che l’autore a se medesimo
contradica, in quanto di sopra, ragionandogli Virgilio quali sieno
quegli che in questo cerchio puniti sono, dice esser tali che non
peccâro: «e s’egli hanno mercedi, Non basta», ecc. E poi ne nomina
l’autore alquanti, che di questi cotali sono, sí come nelle
raccontate istorie è assai manifesto, li quali assai apertamente
appare loro essere stati peccatori, sí come Ovidio, il quale,
quantunque assai cose buone e utili componesse, nondimeno a chi legge
il suo libro, il quale è intitolato
Sine
titulo
,
assai chiaro può vedere lui essere stato quasi piú che alcun altro
effeminato e lascivo uomo. E, oltre a questo, nel libro il quale egli
compuose
De
arte amandi
,
dá egli pessima e disonesta dottrina a’ lettori. Appresso, è ancora
di questi Lucano, il quale, come mostrato è, fu nella congiurazione
pisoniana incontro a Nerone, il quale era suo signore: e, quantunque
iniquo uom fosse, e niuna, secondo che Seneca tragedo scrive in
alcuna delle sue tragedie, è piú accetta ostia a Dio che il sangue
del tiranno, nondimeno non aspettava a Lucano di volere esser
punitore degli eccessi del signor suo. E dentro al castello pone
Enea, il quale, secondo che Virgilio testimonia, con Didone alcun
tempo poco laudevolmente visse, e, oltre a ciò, credono i piú che
egli sentisse con Antenore insieme il tradimento d’Ilione sua cittá;
il che, oltre alla turpe operazione, è gravissimo peccato. Ponvi
similmente Cesare, il quale, come mostrato è, fu incestuoso uomo, e
di piú donne vituperevolmente contaminò l’onestá; rubò e votò
l’erario publico de’ romani, e, oltre a ciò, tirannicamente occupò
la libertá publica e quella, mentre visse, tenne occupata. Appresso
vi descrive Lucrezia, la quale, quantunque onestissima donna fosse,
nondimeno se medesima uccise, il che senza grandissimo peccato non è
licito di fare ad alcuno. Scrivevi ancora il Saladino, il quale, come
noi sappiamo, in quanto poté fu nemico del nome di Cristo,
adoperando e procacciando con ogni istanzia il disfacimento di
quello. E questi peccati, li quali io dico che ne’ predetti furono,
mostra l’autore sotto intollerabili supplici e in dannazion perpetua
essere appresso puniti. Per la qual cosa appare, come davanti dissi,
l’autore a se medesimo contradire.

Ma a questo dubbio mi
pare si possa in cosí fatta maniera rispondere: essere di necessitá
i meriti e le colpe per gli autori di quelle convenirsi discrivere,
accioché piú pienamente si possan comprendere: e queste non per
ogni autore, percioché assai ne sono di sí piccola fama che, non 
essendo conosciuti, non
sarebbono intese; ma per eccellenti e famosi uomini intorno a quelle
cose le quali alcun vuole che intese sieno; e perciò, e qui e per
tutto il suo libro, l’autore quasi altra gente non pone, se non
quegli cotali, per li quali crede piú essere conosciuto e inteso
quello che dir vuole. Quantunque egli per questo non intenda che
alcuno creda che egli alcun de’ nominati vedesse, né in inferno né
altrove, ma vuole che, per gli nominati, s’intenda essere in quello
luogo qualunque è stato colui in cui quelle medesime virtú o vizi
stati sono. E, oltre a ciò, quantunque Enea, Giulio e Lucrezia e gli
altri detti, stati peccatori, qui descritti dall’autore, intende esso
autore questi cotali in questo luogo si prendan solamente per
virtuosi in quelle virtú che loro qui attribuite sono, e le colpe,
quasi non sute, si lascino stare. E cosí prenderemo qui essere
chiunque fu in opera simile a Giulio, in quanto virtuoso e non
battezzato, e cosí di Lucrezia e degli altri, e non in quanto in
alcune cose peccarono: e in questa maniera si convien sostener questo
testo.

«Io non posso ritrar»,
cioè raccontare, «di tutti», quegli valenti uomini che io vidi in
quel luogo, «appieno», cioè pienamente; percioché molti erano. E
soggiugne la ragione perché di tutti ritrarre non può, dicendo:
«Percioché sí mi caccia», cioè sospigne a procedere avanti, «il
lungo tema», di voler discrivere l’universale stato degli spiriti
dannati, di que’ che si purgano e de’ beati: «Che molte volte», non
solamente pur qui, ma ancora altrove, «al fatto», cioè alle cose
che vedute ho, le quali sono in fatto, «il dir», cioè il
raccontare, «vien meno». E ciò non è maraviglia, percioché,
volendo appieno raccontare le particularitá di qualunque nostra
operazione, quantunque piccola sia, si converrebbon dir tante parole,
che quasi mai non verrebbon meno.

«La sesta compagnia».
In questa quinta e ultima particella della seconda parte principale
della suddivisione del presente canto, dimostra l’autore come,
partiti da’ quattro poeti, procedettero avanti, e dice: «La sesta
compagnia», cioè de’ sei poeti, d’Omero e di Orazio e degli altri,
«in due», cioè poeti, in Virgilio e nell’autore, «si scema»,
cioè rimane scema. «Per altra via», che per quella per la quale
venuti eravamo, «mi mena ‘l savio duca», Virgilio, «Fuor della
cheta», aura; percioché, come assai è nelle precedenti cose
apparito, niun tumulto, niun romore era in quel cerchio; «nell’aura
che trema», sí come ripercossa da impetuoso spirito di vento e da
pianti e da dolori. «E vengo in luogo, ove non è», né sole, né
stella, né lumiera «che luca», cioè faccia lume.