CANTO QUARTO, II, SENSO ALLEGORICO

II

SENSO
ALLEGORICO

[«Ruppemi l’alto sonno
nella testa», ecc. La continuazione del senso allegorico del
precedente canto con quella di questo nella fine del precedente, è
dimostrata in quanto, avendo di sopra mostrato come talvolta l’uomo,
ingannato dagli splendori mondani, mortalmente pecchi e per
conseguente diventi servo del peccato, nel principio di questo
dimostra come, per quello, nella prigione del diavolo si ritruovi; e
di questo essersi accorto per la visitazion di Dio, il quale ha in
lui mandata la grazia operante, per la quale egli è stato desto dal
mortal sonno, e fatto ravvedere lá dove per lo peccato è pervenuto,
cioè in luogo tenebroso, oscuro e pien di dolore e di pene. Delle
quali accioché egli abbia piena esperienza, e ammaestrato pervenga
con disiderio alla penitenza, seguendo la ragione, procede e vede,
dimostrandogliele ella, la prima colpa, che per la giustizia di Dio è
punita nel primo cerchio dello ‘nferno. E questa, come assai è
manifestato nel testo, dico che è il peccato originale, il quale,
per lo lavacro del battesimo, da quegli cotali, che in questo cerchio
pena ne sostengono, non fu levato via. Per questo peccato entrò la
morte nel mondo; per questo peccato fu l’umana spezie cacciata di
paradiso; per questo peccato son sempre poi gli uomini stati e
saranno, mentre durerá il mondo, in angoscia e in tribulazione e in
mala ventura; per questo peccato Cristo figliuol di Dio ricevette
passione e morte, e risurgendo n’aperse la porta del paradiso,
lungamente stata serrata.]

[Dico adunque che, per
lo non avere ricevuto il battesimo, al quale s’aspetta di tôr via il
peccato originale, quelli, che in questo cerchio si dolgono, sono
dannati, quantunque per altro 
innocenti sieno, e
ancora, per le buone opere, di molti paiano degni di merito. Ed è
qui da sapere il battesimo essere di quattro maniere. La prima delle
quali è il battesimo della prefigurazione, nel quale insieme con
Moisé furon battezzati tutti i giudei passando il mar Rosso. E di
questo dice san Paolo: «
Patres
nostri omnes sub nube fuerunt, et omnes mare transierunt: et omnes in
Moyse

baptizati
sunt, in nube et mare
».
La seconda è il battesimo del fiume, cioè quello il quale

attualmente
ne’ suoi catecumeni usa la Chiesa di Dio, del quale Cristo dice
nell’Evangelio a’ suoi discepoli: «
Euntes
ergo, docete omnes gentes, et baptizate eos
»,
ecc. La terza maniera si chiama «
flaminis»,
cioè di spirito: e di questa parla l’Evangelio dove dice: «
Super
quem videris Spiritum

descendentem
et manentem: hic est qui baptizat
».
E di questa spezie di battesimo credo esser

battezzati
quegli, se alcuni ne sono, li quali battezzati non sono del battesimo
della Chiesa usitato, e non pertanto si credono essere, ed in ogni
atto vivono come cristiani veramente battezzati, né per alcuna cosa
posson presumere che battezzati non sieno. La quarta maniera si
chiama «
sanguinis»,
e di questa dice l’Evangelio: «
Baptismo
habeo baptizari, et quomodo coarctor, usque dum

perficiatur
E in questo credo esser battezzati coloro li quali, disposti a
ricevere il battesimo,

s’avacciano
di pervenire a colui che secondo il rito ecclesiastico li può
battezzare, e in questo avacciarsi, sopraprenderli alcuni nemici
uomini che gli uccidono, o altro caso, avanti che al luogo destinato
possan venire. Nel primo, come detto è, furon battezzati i giudei:
Esodo:
«
Divisa
est aqua,

et
ingressi sunt filii Israël per medium sicci maris
».
Nel secondo son battezzati quegli li quali noi

chiamiamo
rinati, de’ quali dice l’Evangelio: «
Qui
crediderit et baptizatus fuerit, salvus erit
».
Nel terzo son battezzati quegli li quali delle lor colpe pentuti
sono, e di questi dice l’Evangelio: «
Nisi
quis
renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non intrabit in regnum
caelorum
».
Nel quarto sono

battezzati
i martiri, de’ quali similmente dice l’Evangelio: «
Calicem
quidem meum bibetis
»,
ecc. E se in quegli, che in questo cerchio dannati sono, ben si
riguarda, alcuno non ve n’è, se non fosse giá Seneca, del quale è
assai detto nella lettera, che d’alcuno di questi battesimi
battezzato fosse.]

Sono adunque questi
cotali solamente per continui sospiri e per difetto di speranza
puniti; la qual pena assai pare che si confaccia al peccato. Fu il
peccato originale con soavitá e dolcezza di gusto commesso, e però
qui per amaritudine di sospiri mandati dal cuor fuori si punisce;
cioè per dolorosa compunzione, in perpetuo, quegli, che con esso in
questo mondo muoiono, menano amara vita nell’altro: e come i primi
parenti per quello sperarono dovere simili a Dio divenire, cosí qui
sono i lor successori, che con esso peccato muoiono, privati d’ogni
speranza di mai doverlo vedere; e come la disonesta speranza gli
sospinse al peccato, dico i primi nostri parenti, cosí qui l’onesta
nega loro il suo aiuto a dover con minor noia sofferire l’afflizione
recata in loro dal martíre. E, oltre a ciò, come quello per noi non
fu commesso, ma, come spesse volte è detto, per li primi nostri
parenti; punito non è, in quegli ne’ quali la sua infezione
persevera, per alcuna pena impressa in loro per alcuno esteriore
ministro della giustizia di Dio. Né creda alcuno questa pena essere
di piccola gravezza o poco cocente, cioè il dolersi co’ sospiri,
senza speranza d’alcuno futuro o disiderato riposo; anzi, se ben
riguarderemo, è gravissima; e, se gli spiriti fossero mortali, essi
la dimostrerebbono intollerabile, sí come i mortali hanno spesse
volte mostrato. Assai ci puote essere manifesto alcuni essere stati
che, ferventemente disiderando alcuna cosa (come creder dobbiamo che
questi spiriti, de’ quali parliamo, disiderano di veder Iddio), come
conosciuto hanno esser lor tolta ogni speranza di doverla ottenere,
essere in tanto dolor divenuti, che essi, stoltamente eleggendo per
molto minor pena la morte che la vita senza speranza, ad uccidersi, e
crudelmente, trascorsi sono. Per la qual cosa mi pare essere assai
certo che, se morir potessono gli spiriti, come non possono, assai in
quella estrema miseria incorrerebbono. [E questi cotali dico esser
tutti quegli che alcuno de’ sopra detti battesimi avuto non hanno, li
quali qui in tre maniere distingue, cioè in pargoli e in uomini e
femmine non famose, e come son tutti coloro li quali esso
nominatamente discrive.] [Intorno alla qual discrizione, son certi
eccellenti uomini a’ quali non pare che in questa parte l’autore
senta tanto bene, cioè in quanto mostra opinare una medesima pena
convenirsi per lo peccato originale a quegli li quali ad etá
perfetta pervennero, e a quegli, i quali avanti che a quella
pervenissero, morirono. E la ragione, che a questo gli muove, par che
sia questa: che i primi, cioè gli uomini, pare che, dalla ragione
naturale mossi, dovessero cercare della notizia del vero Iddio, e 
cosí lavarsi della
macchia del peccato originale; e peroché nol fecero, non pare che la
ignoranza gli scusi, come fa coloro li quali anzi l’etá perfetta
morirono: e per conseguente, per la negligenza in ciò avuta,
meritano maggior pena. E perciò in ciò non pare che l’autore abbia
tanto bene opinato.]

[Egli è assai
manifesta cosa che la ignoranza, in coloro massimamente ne’ quali dee
essere intera cognizione, e per etá e per ingegno, non scusa il
peccato: conciosiacosaché noi leggiamo quella essere stata
redarguita da Dio in nostro ammaestramento, lá dove dice per
Ieremia: «
Milvus
in
caelo et hirundo et ciconia cognoverunt tempus suum; Israël autem me
non cognovit
».
Per che

meritamente
segue agl’ignoranti quello che san Paolo dice: «
Ignorans,
ignorabitur
»,
e massimamente a quegli de’ quali pare che senta il salmista, dove
dice: «
Noluit
intelligere, ut bonum

ageret».
Per che senza alcun dubbio si dee credere che a questi cotali, li
quali di conoscere Iddio

non
si son curati, né l’hanno amato ed onorato secondo i suoi medesimi
comandamenti, sará nell’estremo giudizio detto da Cristo: «
Non
novi vos, discedite a me, operarii iniquitatis
».
La qual cosa accioché avvenir non possa, con ogni studio, con ogni
vigilanza si dee cercare di conoscere Iddio, e credere che chi questo
non fa, non potrá per ignoranza in alcuna maniera scusarsi.]

[Ma nondimeno io non
credo che ogni ignoranza igualmente sia riprensibile: e dico «ogni
ignoranza», percioché questi signori giuristi e canonisti
distinguono, e ottimamente al mio parere, tra ignoranza e ignoranza,
chiamandone alcuna «ignoranza
facti»
ed alcun’altra «ignoranza
iuris».
E vogliono che ignoranza
facti
sia quella d’alcuna cosa, la quale verisimilmente non debbia esser
pervenuta alla notizia degli uomini:
verbi
gratia
,
il papa col collegio de’ suoi fratelli cardinali segretamente avranno
per legge fermato che, sotto pena di scomunicazione, alcun cristiano
per alcuna cagione non vada né mandi in alcuna terra d’alcuno
infedele; e, stante questa legge ancor secreta, questo o quel
mercatante v’andranno o vi manderanno: direm noi che per questa
ignoranza, che è ignoranza
facti,
questo cotal sia escomunicato? Certo no; ché ciò sarebbe
manifestamente fuor d’ogni ragione, percioché gli uomini non sanno
indovinare.]

[Adunque è questa
ignoranza escusabile; percioché noi non possiam sapere quello che il
papa s’abbia fatto, né prima dobbiamo il suo secreto voler sapere,
che esso medesimo nel voglia manifestare. Ma, poi che esso avrá
diliberato che questa legge si palesi, e promulgatala, e per li suoi
messaggieri mandatala per tutto, e fattala nunziare e predicare;
senza dubbio non può alcun dire che il non saperlo il debbia rendere
scusato: sí come talvolta fanno alcuni che, sospicando non si dica
cosa che essi non voglian sapere, si partono de’ luoghi dove ciò si
pronunzia; ché fuggono, e poi credono essere scusati per dire e per
giurare: – Io non fui mai in parte dove questa proibizion si facesse;
– percioché a ciascun s’appartiene di stare attento d’investigare e
di sapere i comandamenti de’ suoi maggiori, e quegli con ogni
reverenza ricevere e ubbidire. E perciò alla obbiezion fatta, cioè
che a’ nominati dall’autore, conciosiacosaché per ignoranza iscusati
non sieno, si convenga piú grieve pena che a quegli che per la
piccola etá cercar non poterono d’avere la notizia di Dio, e di
seguire i suoi comandamenti; mi pare che, come poco avanti è detto,
si possa rispondere e mostrare in loro essere stata ignoranza
facti,
e per conseguente dover da essa e potersi con ragione scusare. E che
ne’ nominati dall’autore e ne’ simili fosse ignoranza
facti,
si può in questa maniera comprendere.]

[Fu il mondo, sí come
noi possiamo per lo testo della santa Scrittura cognoscere, molte
centinaia d’anni prima lavato dal diluvio universale, che Dio alcuna
legge desse ad alcuno uomo. E la moltitudine della gente da Noé
procreata e da’ figliuoli, era ampliata molto, e in diversi popoli
s’era sparta sopra la faccia della terra: e non solamente la terra
continua, ma ancora molte isole aveva ripiene, e ciascheduno secondo
il suo arbitrio, o secondo il beneplacito di colui il quale in
prencipe avea sublimato, vivea: e cotal vita estimava ottima e
laudevole, quantunque molti pessimamente estimassono. Nondimeno i piú
lungamente seguitarono le leggi naturali: e alcuni, che piú di
sentimento cominciarono a prendere «
a
naturali
»,
una brieve legge aggiunsero, cioè: – Non far quello ad altrui, che
tu non volessi che fosse fatto a te. – E da questa nacque un modo di
vivere piú universale, il quale essi chiamarono «
ius
gentium
»:
per lo quale assai oneste cose si servavano 
diligentemente tra
l’universitá de’ popoli. Poi cominciarono le genti a fare le leggi
municipali, e secondo quelle vivere e governarsi. E nondimeno sopra
le leggi umane avevano alcune divine leggi, per l’ammaestramento
delle quali essi onoravano e adoravano Iddio; e cosí perseverarono e
ancora perseverano molte nazioni.]

[Ma, poi che a nostro
signore Iddio piacque volere le sue leggi ad alcun popolo dare, dalle
quali non solamente il popolo, al quale dare le intendea, ma eziandio
qualunque altro, volendo, potesse prender regola e norma da piacere a
Dio; primieramente fece Abraam degno della sua amicizia, e a lui
aperse parte del suo secreto, cioè di quello che fare intendeva nel
seme suo: né a lui perciò alcune singulari leggi diede, se non in
tanto che, a distinzione de’ suoi discendenti dagli altri popoli, gli
comandò la circuncisione, la qual sempre perseverò e persevera in
quegli che de’ suoi discendenti si dicono. E questa medesima amicizia
ritenne con Isaac e con Iacob, discendenti d’Abraam. Ma poi Iacob,
con quegli che di lui eran nati, andatone in Egitto, e in grandissima
moltitudine cresciuti, per piú centinaia d’anni servato il rito
della circuncisione, sotto le leggi e sotto la servitudine delli re
d’Egitto furono; della quale Moisé per comandamento di Dio, carichi
delle piú care cose degli egiziaci, per lo mar Rosso gli trasse, e
menògli ne’ diserti d’Arabia: e quivi dimorando ancora senza legge,
se non quella che arbitrariamente in bene e in riposo di loro
s’usava; Moisé, sí come loro duca e giudice, salito sopra il monte
Senai, in due tavole gli diede Iddio scritta la legge, la qual voleva
servasse il popol suo: e cosí cominciâro gli ebrei ad essere sotto
propria legge, che mai infino a quel tempo stato non v’era. E questo
fu, secondo Eusebio
in
libro Temporum
,
regnante appo gli assiri Ascadis, l’anno del regno suo ottavo, e
regnante Cecrope appo gli ateniesi, l’anno quarantacinquesimo del
regno suo: il quale anno fu l’anno del mondo
tremilaseicentottantadue, ne’ quali tempi nacque d’Iside Epafo in
Egitto, e il tempio d’Apollo Delio fu edificato da Cristone. Quindi,
morto Moisé, sotto il ducato di Giosué piú fattisi avanti, per
forza cacciaron delle lor sedie i cananei e il loro paese occuparon
tutto, e intra sé il divisono, e poi per certo tempo possederono: e
secondo la legge ricevuta, e sotto giudici e poi sotto re vivendo, in
continue guerre co’ vicini da torno, or vincendo e or perdendo, e in
grandissime avversitá e tribulazioni divisi dimorando, quantunque
alcun nome acquistassero, non fu perciò di tanta fama, che guari per
lo mondo si dilatasse: e quanto essi erano da’ riti degli altri
uomini separati, tanto dall’altre nazioni erano reputati da meno.]

[Se adunque, avanti che
la giudaica legge fosse, vissero i mortali sotto l’arbitrio loro, o
sotto quelle leggi che essi medesimi si dettavano; a cui direm noi
che essi dovessero andar cercando per le leggi divine, e di conoscere
Iddio? E, oltre a ciò, pur dopo la legge data a Moisé, qual
maraviglia 
se,
abituati in quella maniera di vivere che detta è, non sentirono, né
si misono a sentire quello che Iddio s’avesse detto o fatto con
Abraam, o co’ suoi successori, o con Moisé nelle solitudini del
mondo, né poi ancora col popolo suo? Conciofossecosaché quegli, a’
quali de’ fatti de’ giudei pervenne alcuna notizia, gli avessero per
servi fuggitivi e per ladri, e Moisé per uomo magico e seduttore. E
se per cosí gli aveano, a che ora si dee credere che a loro fossero
andate le nazioni strane a consigliarsi della divinitá e de’
beneplaciti di quella? Se forse si dicesse sotto que’ furti e sotto
i lor costumi Iddio sentiva altissimi misteri della futura
incarnazion del Figliuolo e della resurrezione: questo credo io
ottimamente, ma ciò non sapeano le nazioni gentili, e, come dice
Isaia: «
Quis
enim cognoscit sensum Domini, aut quis consiliarius eius fuit

E se quelle leggi e quelle operazioni di Dio, che noi tutto il dí
leggiamo, si piacque a Domeneddio con questi suoi singulari amici
d’adoperare; come il dee aver saputo l’indiano, come lo spagnuolo,
come l’etiopo o il sauromata, a’ quali per alcuno mai significato
non fu? E se essi nol deono aver potuto sapere, qual giustizia
dannerá la loro ignoranza in questo? Chi non vedrá questa essere
stata ignoranza
facti,
la qual davanti dicemmo doversi potere scusare? Appresso,
presupposto che alcuna altra nazione avesse voluto dagli ebrei
sapere questo secreto, il quale a loro solo Iddio avea dimostrato,
l’avrebbe ella potuto credere, essendoci per le loro medesime
lettere manifesto che essi ebrei, essendo lungamente stati pasciuti
di manna, e udendo gli ammaestramenti di Moisé (il quale per la
loro liberazione avean veduto percuotere Faraone di dieci
crudelissime piaghe, e veduto da lui essere 
stato nel deserto
elevato un serpente di rame, al quale mostrate le lor piaghe, da’
serpenti del luogo dove erano, ricevute, tutti guerivano; avevangli
veduto con la verga percuotere una pietra viva, e di quella a saziar
la sete loro uscire un fiume): non gli prestavan però interamente
fede, ma, or con una ritrosia, or con un’altra, non facevano altro
che mormorare e chiedere che nella servitudine, della quale tratti
gli avea, gli ritornasse? E ultimamente, elevato un toro d’ariento,
contro al comandamento suo quello adorarono, onorarono e
magnificarono per loro Iddio?]

[Non fu mai alcun messo
di Dio mandato, che il suo piacere loro annunziasse e chiamassegli ad
obbidienza della sua legge. E chi dubita che Domeneddio non
conoscesse alcun da sé a ciò non dover venire non chiamato, quando
i chiamati con ostinata pertinacia recusavan d’udire i suoi
comandamenti e d’ubbidirlo? Se forse volesse alcun dire: – Iona fu
mandato da Dio a Ninive; – ma esso non andò ad ammaestrargli della
legge di Dio, ma a nunziare che Ninive infra quaranta dí si
disfarebbe. E se gli ebrei furono in Babilonia lungamente in
prigione, e vi furono reputati bestie; estimando i caldei che se savi
fossero stati, o fosser sante le lor leggi, che Iddio non gli avrebbe
lasciati venire in quella miseria; e perciò creduti non erano: e’
non pare che dubitar si debba che non fossero i gentili molto piú
prestamente venuti, che non fecero gli ebrei. E questo pare si possa
comprendere da ciò che seguí, quando chiamati furono, poi che
Cristo incarnato recò in terra quella celeste luce della dottrina
evangelica, la quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo,
che illuminato voglia essere: la quale avendo esso primieramente
predicata, e poco dagli ebrei ascoltata, mandò per l’universo i suoi
messaggieri a chiamare alle nozze reali di vita eterna ogni nazione.
Né furon chiamati ne’ diserti o nelle solitudini arabiche, né da
uomini paurosi o fiochi, ma, come dice di loro il salmista; «
Non
sunt linguae neque sermones, quorum non audiantur voces eorum. In

omnem
terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae verba eorum
».
E queste nel cospetto de’

re,
de’ prencipi, de’ tiranni, e nelle cittá grandissime, nelle piazze,
ne’ templi, nelle convenzioni e adunanze de’ popoli: e a questa
chiamata prestamente concorsono le nazion gentili e con intera mente
senza alcune ritrosie prestaron fede alla dottrina de’ chiamatori: e
non solamente vi prestaron fede, ma per quella se medesimi fecero
incontro a tormenti senza la divina grazia intollerabili, e alla
morte temporale, senza alcuna paura e con ferma speranza della futura
gloria. E cosí si può credere avrebber fatto, se alcuna altra volta
fossero stati chiamati. E se essi chiamati non furono, come altra
volta è detto, essi non si dovevano né potevano indovinare.]

[Seguirono adunque
quello iddio o quegli iddii, quegli riti d’adorargli e d’onorargli,
che i lor padri, li loro amici, i loro vicini e’ loro sacerdoti
mostravan loro, e a questo, credendosi bene adoperare, eran contenti:
conciosiacosaché alcun non sia che cerchi di quello che egli non
conosce. E, seguendo il predetto rito d’adorare Iddio, furono di
quegli assai che il seguirono, virtuosamente e moralmente vivendo;
avendo in odio e dannando i disonesti guadagni, le violenze, l’ozio,
la concupiscenza carnale, le falsitá, i tradimenti e ogni altra
operazione meritamente biasimevole; esercitandosi ciascuno di
prevalere agli altri in iscienza, in disciplina militare, in ben fare
alla republica e in divenire glorioso tra gli uomini: e questo con
lunghe fatiche e con gran pericoli della propria vita. E cosí si dee
credere e ancora molto piú avrebbon fatto in onore del nome di
Cristo, per la vita celestiale e per l’eterna gloria. Ma a doversi di
ciò informare non potevan salire in cielo: né in terra era chi lor
ne dicesse parole, né che a lor giudicio fosse degno di tanta fede.]

[Se forse volessero
alcuni dire: – Cosí come per forza d’ingegno essi adoperarono di
conoscere i segreti riposti nel seno della natura e la cagion delle
cose, e per saper queste seguivan gli studi caldei, gli egizi,
gl’italici e gli altri quantunque lontani; e cosí per conoscere il
vero Iddio si dovean faticare, e andar cercando quegli che maestri e
dottori erano della ebraica legge, accioché di ciò gli
ammaestrassero – potrebbesi consentire, i gentili dovere aver creduto
gli ebrei dover esser maestri di questa veritá. Ma essi non si
vedevan tra le nazioni del mondo d’alcuna preeminenza, né onorato il
popolo ebreo, e massimamente a rispetto degli assiri, de’ greci,
degli affricani e ultimamente de’ romani; anzi si vedea un piccol
popolo pieno di vitupèri, di peccati e di scellerate operazioni, e
ogni dí essere da’ caldei e dagli egiziaci presi e straziati e
menati in cattivitá e in servitudine, e essi e le lor femmine, e le
loro cittá rubate, e ad esse esser disfatte le mura e talvolta 
tutte abbattute e
desolate; per le quali cose assai di fede appo le nazioni strane alla
loro religion si toglieva, e per questo essendo avuti in derisione,
non era alcuno che mai a loro andato fosse. Erano, oltre a questo,
gli ebrei intra se medesimi divisi, ché altra maniera servavano i
giudei e altra maniera i sammaritani: e chi meglio di costor si
facesse, non potevano le nazioni lontane discernere. Né è da
dubitare che molto di fede non togliesse loro appo gli strani la
divisione.]

[Che dunque si può
dire della ignoranza di coloro che, avanti che Cristo per li suoi
messaggeri la legge, da lui data, essere stata data manifestasse, se
non quello che davanti è stato detto, cioè che la loro ignoranza,
sí come ignoranza
facti,
si debba potere scusare? E perciò, se per altro ben vissero, non
aver altra pena meritata, che quella che semplicemente per lo peccato
originale è data a coloro, li quali morirono avanti che essi
potesson peccare, e quello sentirne, che par che san Paolo voglia,
quando scrive: «
Servus
nesciens vel ignorans voluntatem Domini sui et

non
faciens, vapulabit paucis
»;
e in altra parte: «
Facilius
consequutus sum veniam, quoniam ignorans feci
».]

[De
ignorantia iuris

non dico cosí; percioché, come di sopra dissi, come la legge, la
quale a ciascuno appartiene, è promulgata e manifestata, non puote
alcuno con accettevole scusa allegar la ignoranza: percioché tale
ignoranza si può meritamente dire crassa e supina, e apparire
aperto, colui che ciò non sa, nol sa, perché non l’ha voluto
sapere. E però se, dopo la dottrina evangelica predicata per tutto,
è alcuno che quella seguita non abbia, quantunque per altro
virtuosamente vivuto sia, sí come degno di maggior supplicio per la
sua ignoranza, non dee a simil pena esser punito con gl’innocenti, ma
a molto piú agra. E di questi cotali pone l’autore alquanti, come è
Ovidio, Lucano, Seneca, Tolomeo, Avicenna, Galieno e Averrois; li
quali io confesso, tra gli altri dall’autor nominati, non doversi
debitamente nominare, percioché di loro si può dir quello che
scrive san Paolo: «
A
veritate auditum avertent, ad fabulas autem convertentur
»,
ecc. E il salmista: «
Sicut
aspides surdae et obturantes aures suas, ut non exaudirent voces
»,
ecc. E di questi meritamente si dice quella parola, che di sopra
contro agl’ignoranti è allegata da san Paolo: «
ignorans
ignorabitur
»,
e similmente l’altre autoritá quivi poste. Nondimeno, che che qui
per me detto sia, io non intendo di derogare in alcuno atto alla
cattolica veritá, né alla sentenza de’ piú savi.]

[Lez.
XVIII]

Resta a vedere quello
che l’autore abbia voluto per lo castello difeso da sette alte mura e
da un bel fiumicello, e per lo prato della verdura che dentro vi
truova, poi che con quegli cinque poeti entrato v’è. E, secondo il
mio giudicio, egli intende questo castello il real trono della maestá
della filosofia morale e naturale, fermato in su il limbo, cioè in
su la circunferenza della terra: conciosiacosaché queste due spezie
di filosofia, morale e naturale, non trascendano alle sedie de’
beati, ma solamente di terra speculino, conoscano e dimostrino i
naturali effetti de’ cieli nella terra e gli atti degli uomini: per
la cognizion delle quali cose sta sempre verde la fama di quegli
uomini e di quelle donne le quali seguíti gli hanno. E, a volere a
cosí eccelsa e cosí nobile stanza divenire, si conviene tenere il
cammino il quale l’autore ne divisa, cioè passar quel fiumicello, il
quale circunda questo luogo, dove la filosofia, maestra di tutte le
cose, dimora; e passarlo come terra dura, accioché nell’acqua di
quello non si bagnino i piè nostri. E sono, avanti ad ogni altra
cosa, per questo bel fiumicello da intendere le sustanze temporali,
cioè le ricchezze, i mondani onori e le mondane preeminenze, le
quali sono nella prima apparenza splendide e belle, quantunque in
esistenza oscure e tenebrose si truovino: in quanto sono privatrici,
e massimamente in coloro che non debitamente l’amano o guardano o
spendono o esercitano. E come l’acqua spesse volte è a’ nostri sensi
dilettevole, cosí queste sono agl’ingegni e agl’intelletti nocevoli;
e cosí sono flusse e labili come è l’acqua, la quale è in corso
continuo; niun fermo stato hanno; oggi sono, e doman non sono; oggi
sono in questo luogo e doman in quell’altro; oggi piacciono e domane
spiacciono. E chiama l’autor quest’acqua «fiumicello», che è
diminutivo di «fiume», per dare ad intendere queste cose temporali
e la lor luce e il lor comodo, a rispetto delle cose eterne, esser
piccole o niuna cosa. E perciò, chi vuole pervenire all’altezza
della fama filosofica, gli convien passar questo fiumicello non con 
delicatezze, non con
morbidezze, non con conviti e artificiati cibi e esquisiti vini e con
lunghi sonni e dannosi ozi; ma tutte queste cose, e simiglianti, non
solamente scacciate e rimosse da sé, ma senza bagnarsi i piedi in
quest’acqua, cioè in alcun atto lasciarsi toccare, o muover
l’affezione a quella, e come terra dura passarlo, come il passaron
per la temporal gloria Cammillo, Cincinnato, Curzio, Fabbrizio e
Scipione e simiglianti, e per la filosofica eminenza Diogene,
Democrito, Anassagora e i lor simili: li quali, scalpitate co’ piedi
le ricchezze, ed avutele a vile e disprezzatele, passarono con lieto
e libero animo alle lunghe fatiche degli studi, delle virtú e delle
scienze: e, passato il fiumicello, cioè le temporali delizie
scalpitate, con cinque solenni poeti, cioè con quegli dottori li
quali sieno per sofficienza degni a dimostrar quella via, [per la
quale] alle filosofiche operazioni e perfezion si perviene. E intendo
per le sette porti, per le quali dice che entrò con que’ savi, le
sette arti liberali: e non per quelle sette arti le quali molti
intendono esser quelle con le quali i demòni ingannano gli sciocchi.
E chiamansi «liberali», percioché in esse non osava, al tempo che
i romani signoreggiavano il mondo, studiare altri che’ liberi uomini:
o vogliam dire che liberali si chiamano, percioché elle rendono
liberi molti uomini da molti e vari dubbi, ne’ quali senza esse
intrigati sarebbono. E di queste arti ottimi dimostratori furono i
predetti poeti, se con intera mente si riguarderanno i libri loro,
ne’ quali, quantunque esplicitamente le regole, spettanti a dover
dare la dottrina di quelle, per avventura non vi si truovino, e’ vi
si truovano le conclusioni vere e gli effetti certi delle regole, per
le quali si solvono i dubbi li quali intorno alle regole posson
cadere. È nondimeno da sapere non esser di necessitá, a colui che
odierno filosofo vuol divenire, sapere perfettamente ciascuna delle
liberali arti. Saperne alcuna perfettamente è del tutto opportuno,
sí come al filosofo la grammatica e la dialettica, al poeta e
all’oratore la grammatica e la rettorica: poi sapere dell’altre i
princípi, e sapergli bene, è assai a ciascuno.

Entrò adunque
l’autore, per gli effetti delle liberali arti, con questi cinque
dottori (co’ quali si dee intendere ciascun altro entrare, il qual
degno si fa per suo studio, imitando i valenti uomini), nel prato
della verzicante fama della filosofia, dove da questi medesimi, cioè
da’ valenti uomini, e massimamente da’ poeti, gli son dimostrati
coloro che per le filosofiche operazioni meritarono la fama, la quale
ancora è verde. E dissi «massimamente da’ poeti», percioché di
queste cosí fatte dimostrazioni niun altro par dover essere miglior
maestro, che colui il quale col suo artificio sa perpetuare i nomi
de’ valenti uomini, e le glorie degl’imperadori e de’ popoli: e
questi sono i poeti, de’ quali è oficio il producere in lunghissimi
tempi i nomi e l’opere de’ valenti uomini e delle valorose donne. La
qual cosa quantunque facciano ancora gli storiografi, percioché nol
fanno con cosí fiorito, con cosí rilevato, né con cosí ornato
stilo, sono in ciò loro preposti i poeti; li quali in questa parte
l’autore intende per la perseverante dimostrazione, la qual sempre
davanti da sé porta i nomi e l’opere di coloro che son degni di
laude.

Ma puossi qui muovere
un dubbio e dire: che hanno a fare gli uomini d’arme e le donne con
coloro li quali per filosofia son famosi? Al quale si può cosí
rispondere: non essere alcun nostro atto laudevole, che senza
filosofica dimostrazione si possa adoperare. Stolta cosa è a credere
che alcuno imperadore possa il suo esercito guidare ogni dí
salvamente, senza prendere i luoghi da accamparsi, trovare le vie per
le quali aver con salvocondotto si possano le cose opportune
all’eserciti, guardarsi dalle insidie, prender l’ordine o dare al
combattere una cittá, ad assalire i nemici, al venire alla
battaglia, se la disciplina militare, nella quale gli conviene essere
ammaestratissimo, non gliela dimostra; e questa disciplina militare è
fondata e stabilita sopra i discreti consigli della filosofia, li
quali, quantunque non paia a molti sillogizzando prestarsi,
nondimeno, se i ragionamenti, se i divisi, se i consigli si
guarderanno tritamente, tutti dal discreto filosofo in sillogistica
forma si riduceranno. E perciò se quegli, che ottimi maestri nella
disciplina militar furono, co’ filosafi si ponghino e nominino; come
filosafi in quella spezie de’ loro esercizi vi si pongono. Cosí
ancora le donne, le quali castamente e onestamente vivono, e i loro
ofici domestici discretamente e con ordine fanno, senza filosofica
dimostrazione non gli fanno. E dobbiamo credere non sempre nelle
cattedre, non sempre nelle scuole, non sempre nelle disputazioni
leggersi e intendersi filosofia. Ella si legge spessissimamente ne’
petti degli uomini e delle donne. Sará la savia donna nella sua
camera, e 
penserá al suo stato,
alla sua qualitá: e di questo pensiero trarrá l’onor suo, oltre ad
ogni altra cosa, consistere nella pudicizia, nell’amor del marito,
nella gravitá donnesca, nella parsimonia, nella cura famigliare;
trarrá ancora di questo pensiero appartenersi a lei di guardare e di
servare con ogni vigilanza quello che il marito, faticando di fuori,
acquisterá e recherá in casa; d’allevare con diligenza i figliuoli,
d’ammaestrargli, costumargli; e similmente intorno alle cose
opportune dar ordine a’ servi e all’altre cose simili. Che leggerá
piú a costei nella scuola, che nella sua etica, che nella politica,
che nella iconomica le dimostrerá niuna cosa? Dunque quelle, che
cosí hanno adoperato e adoperano, non indegnamente, secondo il grado
loro, co’ filosafi sederanno di laude e di fama perpetua degne. Non
dunque fece l’autor men che bene a discrivere i famosi uomini in arme
e le valorose donne in compagnia de’ solenni filosafi.