CANTO QUINTO, II, SENSO ALLEGORICO

II

SENSO
ALLEGORICO

«Cosí discesi del
cerchio primaio», ecc. Mostrato che la ragione ha il supplicio, il
quale sostengono coloro, li quali senza essere stati per lo lavacro
del battesimo mondati dal peccato originale; procedendo piú avanti
con la meditazione, discende a dimostrargli la qualitá delle colpe
piú gravi, e quali sieno i tormenti, alli quali per la divina
giustizia dannati sieno coloro li quali in esse colpe morirono. E fa
due cose nel presente canto: primieramente in persona di Minos gli
dimostra la rigida e severa giustizia di Dio; appresso gli mostra in
questo cerchio secondo esser dannati que’ peccatori, li quali, oltre
alla ragione, oltre ad ogni legge o buon costume, seguirono il
concupiscibile appetito nel vizio della lussuria, nominando di questi
cotali alquanti, accioché piú pienamente si comprenda la sua
intenzione.

Dico adunque che
primieramente la ragione ne dimostra qui, in persona di Minos, la
severitá della divina giustizia. Intorno alla qual dimostrazione son
da considerare due cose: la prima, perché piú in questa parte, che
piú su o piú giú, questa divina giustizia ne sia dimostrata; la
seconda, perché piú in persona di Minos che d’un altro.

Dico che, perché la
divina giustizia ne sia piú qui che in alcuna altra parte
dimostrata, può essere la ragion questa: è la giustizia virtú, la
quale, secondo i meriti, retribuisce a ciascheduno; e, 
quantunque questa virtú
strettamente usi il suo uficio intorno agli atti degli uomini,
nondimeno sono alcune cose operate per gli uomini, delle quali ella
del tutto è schifa d’intramettersi, estimando ottimamente fare il
suo uficio quando quelle cotali cose pospone; in quanto non le pare
quelle cotali cose, o meritorie o non meritorie che sieno, essere
state causate da alcuna ordinata volontá, o da iniquitá di malizia,
o ancora da alcuna incontenenza, se non come sono le opere degli
animali, ne’ quali non è alcuna ragione. E queste cotali operazioni
son quelle de’ furiosi e de’ mentacatti e de’ fanciulli e
degl’ignoranti; percioché in quelle cose, le quali questi cotali
fanno, non è potuta cadere alcuna debita elezione, come detto è: e,
dove elezione e volontá esser non può intorno all’adoperare, non
pare che caggia né esaminazione né giudicio della giustizia. E di
sopra a questo luogo, se ben si riguarda, non sono puniti alcuni
altri, se non questi cotali, cioè mentacatti o furiosi o fanciulli o
ignoranti, come è dimostrato; intorno a’ quali se la giustizia non
s’interpone, era di soperchio e mal conveniente averla tra loro, o di
sopra a loro, dimostrata, percioché, quanto a quegli, ella sarebbe
stata oziosa; il che la virtú non patisce. Ad averla piú giú che
questo luogo dimostrata, e’ ne seguivano altri inconvenienti.
Primieramente pare che avessero potuto de’ peccatori, che alle piú
profonde parti dello ‘nferno doveano discendere, sí come incerti di
sé, rimanersi nelle parti dell’inferno che state fossero superiori
al luogo dove stata fosse posta la giustizia, e cosí non sarebbono
stati secondo le colpe commesse puniti; e, oltre a ciò, se vogliam
dire essa medesima giustizia, la quale gli fa pronti a trapassare la
riviera d’Acheronte, similmente gli farebbe pronti a discendere
infino lá dove ella fosse, ne seguirebbe che quegli, che non son
degni di scendere tanto giú quanto ella fosse, vi scenderebbero alla
esaminazione e al giudicio, e cosí sentirebbono di quelle pene che
essi non hanno meritate: il che è contro agli effetti della
giustizia. E però ottimamente in questa parte la discrive l’autore,
nella quale niuna cosa de’ superiori s’impaccia; né hanno, quelli
che ne’ cerchi piú alti esser debbono, a discender giuso; né può
alcuno stare in forse di sé; né ancora, sedendo ella in su questa
entrata, può trapassare alcuno o fuggirle degli occhi, che non gli
convenga venire alla sua esaminazione.

nondimeno
da intendere la giustizia di Dio essere in ogni parte, e per tutto
distribuire secondo che ciascuno ha meritato, né bisognarle fare
alcuna esaminazione o inquisizione de’ nostri meriti o delle nostre
colpe, come alla giustizia de’ mortali bisogna; percioché, nel
cospetto della giustizia di Dio, non solamente tutte le nostre opere
sono presenti e conosciute da lei, ma ella ancora vede e conosce e
discerne tutti i pensieri nostri, e da che cagion nascono, né gli
si possono per alcuna industria o sagacitá occultare: ma conviensi
a’ nostri ingegni per alcuna sensata forma dimostrare gli spirituali
effetti della divinitá e di qualunque altra spiritual cosa.

Resta a vedere perché
piú in persona di Minos che d’alcun altro ministro infernale ne sia
dimostrata questa giustizia; [e con questo è da vedere quello che
l’autore abbia voluto sentire in ciò che egli fa a questo Minos, col
ravvolgimento della coda dimostrare i suoi giudíci. E avanti
all’altre cose, pare,] richeggionsi ne’ ministri della giustizia, e
massimamente in questo luogo, cose assai, ma singularmente tre, cioè
prudenza, costanza e severitá. Conviene essere prudente al ministro
della giustizia, accioché egli per la prudenza cognosca le qualitá
delle persone, nelle quali ha a vedere quello che di ragion si
convenga; percioché altrimenti è da punire un uomo di minore
condizione che abbia offeso un principe, che un principe che abbia
offeso un uomo di minor condizione. Conviensi che egli conosca la
qualitá de’ tempi; percioché altrimenti è da punire un uomo che
muova o susciti un romore ne’ tempi della guerra, quando gli stati
delle cittá stanno sospesi, che uno che quel medesimo commetta
quando le cittá sono in pace e in tranquillitá. Conviensi che egli
conosca la qualitá de’ luoghi; percioché altrimenti pecca chi fa un
eccesso in un tempio o in una piazza comune, che chi fa quel medesimo
in alcuna parte rimota e non molto frequentata dall’usanza degli
uomini. Conviensi, per la prudenza, che egli sappia discernere i
movimenti di quegli che peccano, di quegli che testificano, di quegli
che accusano, e tutte simili cose; e, dove queste cose non sapesse
distinguere quel cotale che a ciò posto fosse, non potrebbe essere
idoneo esecutore della giustizia. Conviengli, oltre a questo, esser
costante, accioché da quello, che conosciuto avrá convenirsi fare,
nol rimuova alcuna affezione, non priego, non amore, non odio, non
prezzo, non 
lusinga o cose simili a
queste; percioché, dove da alcuna o da piú di queste mosso fosse,
mai giudicare non poría giustamente, e per conseguente non sarebbe
atto ministro della giustizia. Conviengli, oltre alle dette cose,
esser severo, e massimamente lá dove è tolto luogo alla
gratificazione. Puossi infra’ processi, che usano nelle cose
giudiciali i ministri della giustizia, per diversi ma onesti
accidenti, piú all’una parte che all’altra esser grazioso; la qual
cosa nelle cose e ne’ tempi debiti non è vizio, ma è segno d’equitá
d’animo nel giudicante; fuori de’ tempi debiti, conviene nelle
esecuzioni al giudice esser severo in servare strettamente l’ordine
della ragione, e di quello per cagione alcuna non uscire; e
massimamente ne’ giudici di Dio, il quale insino allo estremo punto
della nostra vita con le braccia aperte della sua misericordia
n’aspetta, tempo prestandoci alla gratificazione, se prender la
vogliamo: ma, poi che a quella non ci siamo voluti volgere, e, quasi
a vile avendo la sua benignitá, ci siamo lasciati morire, essendo la
sua sentenza passata «
in
rem iudicatam
»,
con ogni severitá dee qui il ministro della sua giustizia quella
mandare ad esecuzione. Le quali tre cose essere pienamente state in
Minos si possono conoscere ne’ processi delle sue operazioni, e
ancora nella oppenione avuta di lui da coloro li quali qual fosse la
sua vita conobbero. Che egli fosse prudente, si può comprendere in
ciò, che egli compose le leggi a’ popoli suoi, e quegli, che usi
erano di vivere scapestratamente, ridusse per sua industria a vivere
sotto il giogo della giustizia. Che egli fosse constante in non
muoversi per alcuna affezione da quello che la giustizia volesse,
appare nella vittoria di Teseo, avuta del Minotauro, al quale,
quantunque nemico fosse, pienamente servò ciò che giusto uomo
dovesse servare, cioè di liberar lui e la sua cittá della
servitudine, sí come promesso avea. Oltre a ciò, apparve la sua
severitá in Scilla, figliuola di Niso, re de’ megarensi, la quale,
da disonesta concupiscenza mossa, per venire nelle braccia sue, tradí
il padre, e fecel signor di Megara e a lui se n’andò; per la qual
cosa, quantunque ella fosse nobile femmina e giovane e bella, e
avesselo fatto signore di Megara, da niuna di queste cose mosso, lei,
sí come ucciditrice del padre, fece gittare in mare, in quella forma
che si gettano i patricidi. E cosí li suoi comandamenti, come detto
è, avendo in leggi ridotti, quegli con tanta costanza e con tanta
severitá servò, che non solamente i suoi sudditi tenea contenti e
in pace, ma egli riempiè tutta Grecia della fama della sua
giustizia; per la qual cosa, dopo la sua morte, estimarono gli
uomini, ne’ loro errori, lui essere appo l’anime d’inferno eletto a
quel medesimo ufficio esercitare tra loro che in questa vita tra’
suoi esercitava, sí come nella esposizione letterale si dimostrò.

Adunque assai
convenientemente pare essere per la persona di Minos in questo luogo
figurata la divina giustizia. [Ma che questa divina giustizia
dimostri per lo ravvolgimento della coda di Minos, intorno
all’esecuzione de’ suoi giudíci, è da vedere. Certa cosa è la coda
essere l’ultimo membro e l’ultima parte del corpo di qualunque
animale, al quale la natura l’ha conceduta; e, quantunque ella serva
a piú cose gli animali che l’hanno, alla presente materia non
intende l’autore altro, secondo il mio giudicio, se non la strema e
ultima parte della vita nostra, secondo la qualitá della quale si
forma il giudicio della divina giustizia: percioché, quantunque
l’uomo sia scelleratamente vivuto, se egli nello estremo della sua
vita, pentendosi delle malfatte cose, e con buona compunzione e con
puro cuore, si rivolge alla misericordia di Dio, senza alcun dubbio è
ricevuto da essa e giudicato degno di salvazione. Il che in molti
esempli n’è dimostrato per la divina Scrittura, e massimamente in
quello ladrone, il quale col nostro signore Iesu Cristo fu
crocifisso; il quale avendo tutti i dí suoi menati male, e come
peccatore riconosciuto poco avanti all’ora della sua morte, con
contrito cuore, non dicendo altro che: – «
Miserere
mei, Domine, cum veneris in regnum

tuum»,
– il fece la misericordia di Dio degno d’udire dalla bocca di Cristo:
– «Amen

dico tibi, hodie mecum eris in Paradiso
»:
– né è dubbio alcuno che a queste parole non seguisse l’effetto; e
cosí

solamente
all’ultima parte della vita, cioè alla sua qualitá, fu dalla
giustizia divina guardato. E cosí in contrario, essendo Giuda
Scariotto stato de’ discepoli di Cristo, e usato con lui, e avendo la
sua dottrina udita, quantunque male poi adoperato avesse vendendolo,
nondimeno disperatosi della misericordia di Dio, e col capestro
messosi a finir la vita, col fine suo di se medesimo dettò la
sentenza alla divina giustizia, per la quale fu al profondo dello
‘nferno a perpetue pene dannato. Ciascheduno adunque con le colpe piú
gravi, con le quali e’ muore, del luogo il quale e’ dee in inferno
avere, è dimostratore.]


[Lez. XXII]

Appresso le cose giá
dette, resta a vedere la qualitá de’ dannati in questo secondo
cerchio, e come alla qualitá della lor colpa sia conforme il
supplicio, il quale l’autore ne dimostra essere lor dato dalla divina
giustizia.

Sono adunque dannati in
questo cerchio, come assai fu dichiarato leggendo la lettera, i
lussuriosi. Intorno al vizio de’ quali è da sapere che la lussuria è
vizio naturale, al quale la natura incita ciascuno animale, il quale
di maschio e femmina sí procrea; e ciò fa la natura avvedutamente,
accioché, per l’atto del coito, ciascuno animale generi simile a sé,
e cosí si continui la spezie di quello; e, se questa sollecitudine
non fosse nella natura [delle cose], assai tosto verrebber meno i
generanti, e cosí rimarrebber vacui il cielo, la terra e ‘l mare di
possessori. È vero che ell’ha in ciascun altro animale, che
nell’uomo, posto certo modo, accioché per lo soperchio coito non
perissono i maschi, li quali da alcun freno di ragione temperati né
raffrenati sono: e questo è non patire le femmine i congiugnimenti
de’ maschi loro se non alcuna volta l’anno, e questa non si prolunga
in molti dí, infra’ quali le femmine si rendono benivole e amorevoli
alli loro maschi e loro si concedono; e, questo cotal tempo finito, o
come conoscono sé aver conceputo, piú lor dimestichezza non
vogliono. Ma negli uomini non pose la natura questa legge, percioché
gli conobbe animali razionali, e, per quello, dover conoscere quello
e quando e quanto s’appartenesse di fare a dover ben vivere. Ma mai
non mi ricorda d’aver letto che appo coloro, li quali mondanamente
vivono, alcuno, quello che la ragione vuole in questo atto,
osservasse, che una femmina: e questa fu una donna d’Arabia, reina
de’ palmireni, chiamata Zenobia, della qual si legge mai ad Odenato,
suo marito, essersi voluta consentire per altro che per ingenerar
figliuoli; servando in ciò questo stile, che, essendo il marito
giaciuto carnalmente con lei, piú accostare nol si lasciava infino a
tanto che ella non conosceva se conceputo aveva o no: se conosceva
non aver conceputo, gli si concedeva un’altra volta; se conceputo
aveva, mai infino alla purificazione dopo ‘l parto, piú non gli si
concedea. Ma come la laudevol contenenza di questa reina, o come gli
uomini in questo usino il giudicio della ragione, gli occhi nostri
medesimi ce ne son testimoni: percioché dove essi, la ragion
seguitando, dovrebber quel modo a se medesimi porre, il quale essi
veggiono la natura aver posto agli animali bruti, in ciò che possono
o sanno in contrario si sforzano.

Noi leggiamo che in
Roma fu un giovane chiamato Spurima, il quale, quantunque avesse
tutta la persona bella, avea oltre ad ogni altro mortale il viso
bellissimo, in tanto che poche donne erano, che di tanta costanza
fossero, che, vedendolo, non si commovessono a disiderare i suoi
abbracciamenti: della qual cosa accorgendosi egli, per non esser
cagione che alcuna casta mente la sua onestá contaminasse con
appetito men che onesto, preso un coltello, tutto il bel viso si
guastò, rendendolo non meno con le fedite diforme che formoso fatto
l’avessono le mani graziose della natura. In veritá laudevole cosa
fu questa e da doverla con perpetua commendazione gloriare. Ma i
moderni giovani fanno tutto il contrario: i costumi de’ quali avere
alquanto morsi, non fia loro per avventura disutile, e potrá esser
piacevole ad altrui. E, accioché io non mi stenda troppo, mi piace
di lasciare stare la sollecitudine, la qual pongono gran parte del
tempo perdendo appo il barbiere in farsi pettinare la barba, in farla
a forfecchina, in levar questo peluzzo di quindi, in rivolger
quell’altro altrove, in far che alcuno del tutto non occupi la bocca,
e in ispecchiarsi e azzimarsi, allecchinarsi, scrinarsi i capelli,
ora in forma barbarica lasciandogli crescere, attrecciandogli,
avvolgendosegli alla testa, e talora soluti su per gli ómeri
lasciandogli svolazzare, e ora in atto chericile raccorciandogli. E
similmente ristrignersi la persona, fare epa del petto, non in su’
lombi, ma in su le natiche cignendosi; [come gatti mammoni],
allacciarsi anzi legarsi, e a’ calzamenti portare le punte
lunghissime, non altrimenti che se con quelle uncinar dovessono le
donne, e trarle ne’ lor piaceri; farsi le trombe alle maniche, e di
quelle non mani, ma branche piú tosto d’orso cacciare. Né vo’ dire
de’ cappuccini, co’ quali o a babbuini o a scottobrinzi simiglianti
si fanno, né similmente della lascivia degli occhi, co’ quali quasi
sempre quel vanno tentando, che essi poi non vorrebbero aver trovato.
E lascerò stare gli atti, gli andamenti, e’ portamenti, il cantare,
il carolare, e cosí le promesse e’ doni, de’ quali si può però piú
tacere che dire, sí sono in cintola divenuti stretti; e 
a un solo lor costume
verrò, il quale, quantunque a loro prestantissimo paia, percioché
con gli occhi offuscati di caligine infernal si riguardano, mi par
tanto detestabile, tanto abominevole, tanto vituperevole, che non che
ad altrui, ma io credo che egli dispiaccia a colui, il quale è di
tutti i mali confortatore, e che a ciò gli sospigne: e questo è,
che portano i panni sí corti, e spezialmente nel cospetto delle
donne, che qualunque fosse quella che alla barba non se ne avvedesse,
guardandogli alle parti inferiori può assai agevolmente cognoscere
che egli è maschio; e, se la cosa procede come cominciato ha, non mi
par da dover dubitare che, infra poco tempo, non si tolga ancor via
quel poco di panno lino, il qual solamente vela il color della carne,
e cosí non sará da que’ cotali differenza alcuna da’ bruti animali.
Ingegnossi la natura, la quale è sommamente discreta, di nascondere
in quelle parti del corpo, le quali a lei piú occulte parvero, que’
membri dei quali mostrandogli ciascun si dee vergognare; e, oltre a
ciò, l’uso, della vergogna nato, ci ha dimostrato (quantunque dalla
natura, secondo che ella puote, nascosti sieno) di velargli e
ricoprirgli co’ vestimenti, e quantunque o necessitá o usanza
l’altre parti del corpo scoperte patisca, quelle in alcun modo è
alcuno, fuor che i presenti giovani, che scoperte le sofferí.
Gl’indiani, gli etiopi, i garamanti e gli altri popoli, i quali sotto
caldissimo cielo abitano, quantunque da soperchio caldo sforzati
sieno d’andare ignudi, quelle parti in alcuna guisa non sostengono
che scoperte si veggano. Ma che dich’io gl’indiani e gli etiopi, li
quali hanno in sé alcuna umanitá e costume? Quegli popoli, li quali
abitano l’isole ritrovate (gente, si può dire, [fuori] del circúito
della terra, e nella quale né loquela, né arte, né costume alcuno
è conforme a quegli di coloro li quali civilmente vivono), di palme,
delle quali abbondanti sono, non so se io dica tessute o annodate piú
tosto, fanno ostaculi, co’ quali quelle parti nascondono. I naufraghi
ancora, ignudi da tempestoso mare gittati ne’ liti, quantunque
faticati e percossi dall’onde sieno, nondimeno, non curandosi di
tutto l’altro corpo perché ignudo sia, quella parte, se con altro
non hanno, s’ingegnano di ricoprire con le mani. I poveri uomini, a’
quali mancano i vestimenti, quella parte non patiscono che rimanga
scoperta. I mentacatti e’ furiosi e gli ebbri, mentre che alquanto di
sentimento hanno, si vergognano che que’ membri in aperto veduti
sieno. Questi soli hanno posta giú ogni erubescenza, ogni fronte,
ogni onestá, e tanto si lasciano al bestiale appetito e a’ conforti
del nemico dell’umana generazione sospignere, che non altramenti col
viso levato procedono che se alcuna laudevole operazione avesser
fatta o facessono.

Allegano questi cotali,
in difesa del lor vituperevole costume, ragioni vie piú vituperevoli
che non è il costume medesimo, dicendo primieramente: – Noi seguiamo
l’usanze dell’altre nazioni: cosí fanno gl’inghilesi, cosí i
tedeschi, cosí i franceschi e’ provenzali. – Non s’avveggono i
miseri quello che essi in questa loro trascutata ragion confessino.
Solevano gl’italiani, mentre che le troppe delicatezze non gli
effeminarono, dare le leggi, le fogge e’ costumi e’ modi del vivere a
tutto il mondo; nella qual cosa appariva la nostra nobilitá, la
nostra preeminenza, il dominio e la potenza; dov’e’ segue, se dalle
nazioni strane, da quelle che furon vinte e soggiogate da noi, da
quegli che furon nostri tributari, nostri vassalli, nostri servi,
dalle nazioni barbare, dalle quali alcuna umana vita non si servava,
né sapeva, né saprebbe, se non quanto dagl’italiani fu lor
dimostrata (il che è assai chiaro), da loro riprendendo quel che dar
solevamo, confessiamo d’esser noi i servi, d’esser coloro che viver
non sappiamo se da loro non apprendiamo; e cosí d’aver loro per
maggiori e per piú nobili e per piú costumati. O miseri! non
s’accorgono questi cotali da quanta gran viltá d’animo proceda che
un italiano séguiti i costumi di cosí fatte genti.

E in veritá, se alcuna
altra onestá non dovesse da questo disonesto costume tôrre i
giovani, ne’ quali è il fervor del sangue e le forze, e’ dovrebbe
esser la grandezza dell’animo, se non un giusto sdegno; non solamente
rimanere se ne dovrebbono, ma vergognarsi d’aver mai seguitato o
seguire alcun costume di cosí fatte genti, e ogni cosa adoperare,
per la quale le nazion barbare gloriar non si potessono d’esser nelle
lor brutte invenzioni degl’italiani imitate.

Seguitano, oltre a
questo (nelli loro errori multiplicando), e dicono che i vestimenti
lunghi gl’impedivano e non gli lasciavano nelle cose opportune esser
destri. O stoltissimo argomento vano e d’ogni ragionevole sentimento
vòto! Cosí parlan questi cotali, come se coloro, li quali piú
lunghi portano i vestimenti, non sapessono quali e quante sieno le
faccende di questi tarpati. E, se non che 
troppo sarebbe lungo il
sermone, io le racconterei in parte. Ma presupognamo che pure
alquante e opportune sieno, come hanno i passati nostri fatto co’
panni lunghi? come i romani, li quali in continue guerre, con l’arme
in dosso ogni dí combattendo, tutto il mondo occuparono? Non mostra
che a costor facesser noia i panni lunghi, ne’ quali erano in
continovi e grandi esercizi. Ma forse diranno questi cotali non esser
di necessitá agli uomini, gli quali sono in fatti d’arme, l’avere i
panni corti, come a coloro che vanno vagheggiando, o, a voler dir piú
proprio, a color che vanno facendo la mostra alle femmine che son
maschi e ch’egli hanno le natiche tonde e grosse le cosce. O
dissensati! Solevansi i giovani vergognare seco medesimi degli
occulti e disonesti lor pensieri, e oggi, per somma gloria, vanno
mostrando quel che le bestie, se esse avessono con che, volentieri
nasconderieno. Ma che? Dirá forse alcun altro che i romani
similmente gli portavano corti come essi fanno. E nel vero di questo
non mi darebbe il cuore di fare assai certa pruova per scrittura che
io abbia veduta: ma, in luogo di quella, le statue di marmo e di
bronzo a quegli tempi fatte, nelli quali essi discorrevano il mondo,
e delle quali si truovano ancora assai, ne mostrano quali fossero i
loro abiti, e come corti portassono i vestimenti; e di queste io
credo assai aver vedute, né mai alcuna né armata né disarmata ne
vidi, che, o da’ vestimenti o dall’armadure, non fosse almeno infino
al ginocchio coperta. Per la qual cosa essendo a costor risposto
assai manifestamente, si vede che assai mal procede l’argomento che i
panni lunghi impediscano.

E, accioché io non
discorra per tutti, non ometterò però che io un’altra delle lor
savie ragioni non discriva, percioché estimano quella, che dir
debbono, essere efficacissima e dovergli d’ogni loro disonestá
render pienamente scusati. Dicono adunque che le donne mostran loro
con le poppe il petto, accioché piú nella concupiscenza di loro gli
accendano; e perciò, quasi in vendetta di ciò, essi vogliono
mostrar loro quelle parti, che debbano loro a quello appetito
medesimo incitare. Sarebbe questa ragione tra le bestie assai
colorata, dove ella è abominevole tra’ sensati. Ma non pensano i
miseri quanto scelleratamente essi adoperino? Essi, questo
adoperando, caccian da sé ogni reverenza materna, mostrando di
credere che le madri tengan gli occhi chiusi, o che esse non possano
dalle oscene parti de’ figliuoli esser mosse, come l’altre femmine si
muovono; conciosiacosaché la natura, movitrice degli appetiti, non
abbia alcun riguardo all’onestá della parentela. Nel vero io non
l’ardirei affermare, quantunque giá molte volte avvenuto sia, ma
ardirò ben di dire che, se ciò non avviene, esserne la lor costanza
cagione, dove del contrario è cagione il vituperevole costume de’
figliuoli; né discrederò che, quel che posson muovere i disonesti
figliuoli, non si convenga talvolta terminare con gli strani uomini.
Appresso questo, non s’accorgono i dissipiti, dove incitar credono le
femmine, le quali alla lor libidine disiderano di tirare, quello che
essi nelle sorelle, nelle cognate e nell’altre congiunte adoperino;
le quali, quantunque spesse volte caggiano ne’ lacciuoli scioccamente
tesi da loro, rade volte avviene che, da questo sospinte, non saltino
negli abbracciamenti d’uomini non pensati da coloro, che a ciò con
li loro disonesti portamenti le sospingono. Né ancora considerano
quanto di mal fabbrichino nelle tenere menti delle figliuole, le
quali la giovanetta etá continuamente sospigne a dover prendere
sperienza di ciò, che loro ancora non saria di necessitá di
conoscere: di che non una volta è avvenuto che, lasciamo stare il
porre dinanzi agli occhi loro quelle parti del corpo, le quali con
ogni ingegno si dovrien tôrre de’ pensieri, ma le parole men che
oneste de’ non cauti padri aver loro prima strupatore che marito
trovato.

Ma, ritornando alla
folle ragion di costoro, dico che, quantunque biasimevole sia molto
alle donne mostrare con le poppe il petto, non sono perciò le poppe
de’ membri osceni e che nascondere del tutto si deano; percioché, se
di quegli fossono, non l’avrebbe la natura poste in cosí aperta e
patente parte del corpo come è il petto, anzi si sarebbe ingegnata
d’occultarle, come gli altri fece. Oltre a questo, le poppe sono a’
sani intelletti venerabili, conciossiacosaché elle sieno quelle,
onde noi prendiamo i primi nudrimenti. Appresso, quando i nostri
primi parenti peccarono e cognobbero la ignominia loro, non nascose
la nostra prima madre questa parte del corpo, anzi, sí come Adam,
fattesi copriture di frondi di fico, nascosero e occultarono quelle
parti del corpo, le quali costoro non si vergognano di mostrare. Né
avevano i nostri parenti di cui vergognarsi se non di Dio, che creati 
gli avea, e di se
medesimi; dove costoro né di Dio si vergognano, né degli uomini.
[Similmente, quando i predetti di paradiso cacciati furono, i
vestimenti, che da Domeneddio furon lor fatti, non ricopersono le
parti superiori, né per nasconder quelle fatti furon da lui, ma per
ricoprire le parti inferiori, delle quali, partita da loro per lo
peccato la luce della innocenza, essi di se medesimi si vergognavano.
E però potrebbono in contrario di questa loro scostumaggine dir le
donne: – Quello, che noi vi mostriamo, non fu nella nostra prima
madre ricoperto dal vestimento che Iddio ne fece; dove quel, che voi
mostrate a noi, fu ricoperto al primo nostro padre. – ] v
ero
che, quantunque il costume de’ giovani nella parte mostrata
biasimevole sia e villano, non si scusa perciò la vanitá delle
donne, le quali d’altra parte, non potendo nascondere il fervore
inestinguibile della lor concupiscenza, con industria e arte
s’ingegnano, in ciò ch’elle possono, di quello adoperare che possa
provocar gli uomini con appetito piú caldo a disiderare i loro
congiugnimenti. Elle si dipingono, elle s’adornano, elle si
azzimano, e con cento varietá di fogge sé ogni giorno trasformano;
ballano, cantano, lasciviscon con gli occhi, con atti e con le
parole; dove dovrebbono con onestá la lor bellezza in parte
nascondere, e rifrenare i costumi.

Di che assai
manifestamente si può raccogliere che, dove questo vizio solo si
vince fuggendolo, per esser vinti da lui i giovani e le donne il
destano, il chiamano, e, se egli non volesse venire, il tirano; non
contenti solamente a’ portamenti, ma con gli odori arabici, con le
cortecce, con le polveri, con le radici e con liquori orientali, con
vini e con le vivande e con le morbidezze e con gli ozi e con altre
cose assai lo sforzano; mostrandosi in lor danno e in lor vergogna
assai mal grati della liberalitá dalla natura usata verso di loro.
[E cosí miseramente nella lussuria, abominevole vizio, pervegnamo,
la quale scelleratamente seguita, ne trae della mente la notizia di
Dio, e contro all’amor del prossimo ne sospigne ad operare;
togliendoci ancora di noi medesimi e delle nostre cose la debita
sollecitudine, sí come colei il cui esercizio diminuisce il cerebro,
evacua l’ossa, guasta lo stomaco, caccia la memoria, ingrossa
l’ingegno, debilita il vedere e ogni corporal forza quasi a niente
riduce. Ella è morte de’ giovani e amica delle femmine, madre di
bugie, nemica d’onestá, guastamento di fede, conforto de’ vizi,
ostello di lordura, lusinghevole male e abominazione e vituperio de’
vecchi. Alla cui troppa licenza reprimere Nostro Signore
primieramente istituí il matrimonio, nel quale non dando piú che
una moglie ad Adam, né ad Eva piú che un marito, mostrò di volere
che uno fosse contento d’una e una d’uno; il che poi nella legge data
a Moisé espressamente comandò, ogni altro umano congiugnimento
vietando. E, non bastando questo, per onestare il matrimonio e
ristrignere la presunzion nostra nel vizio, avendo giá da sé
l’onestá publica separate da cosí fatti congiugnimenti le madri e
le figliuole, e similemente i padri e’ figliuoli, e gli adultèri
essendo stati proibiti; da questi congiugnimenti medesimi tolsero le
leggi i fratelli e le sorelle, e poi, piú avanti stendendosi, ancora
ne tolsero assai, cioè quegli li quali o per consanguinitá o per
affinitá parevano assai propinqui, i gradi con diligente
dimostrazion distinguendo; e con queste segregando ancora le giovani
vergini, e gli uomini ancora e le femmine le quali a’ divini servigi
avessero sagrate le nostre leggi. Dalle quali cose assai
manifestamente si può comprendere, quantunque in questa colpa
caggendo per incontenenza molto s’offenda Iddio, secondo la varietá
delle persone divenire il peccato piú e men grave. E perciò è da
sapere esser molte le spezie di questo peccato, ma, tra le molte, di
cinque almeno farsi nelle leggi singular menzione, delle quali
accioché per ignoranza non si trasvada, credo esser utile quelle
distintamente mostrare.]

[Commettesi adunque
questo vizio carnale tra soluto e soluta, e questa spezie ha meno di
colpa che alcuna altra, e chiamasi «fornicazione»; il qual nome
ella trasse dal luogo dove il piú si solea anticamente commettere,
cioè nelle fornici. «Fornice» è ogni volta murata, quantunque, a
differenza di queste, si chiamin «testudini» quelle de’ templi e
de’ reali palagi, e «fornici» eran chiamate propriamente quelle le
quali eran fatte a sostentamento de’ gradi de’ teatri; i quali
teatri, percioché la moltitudine degli uomini anticamente si
ragunava i dí solenni a vedere i giuochi, li quali in essi si
faceano, prendevano in queste fornici le femmine volgari loro stanza
a dare opera al loro disonesto servigio con quegli a’ quali piaceva:
e cosí da quello luogo questa spezie di colpa trasse questo nome,
cioè «fornicazione».]


[Commettesi ancora
questo vizio tra soluto e soluta vergine, e questa spezie si chiama
«stupro»: ed ebbe questo vocabolo origine da «stupore», in
quanto, quando prese l’uso, non solamente in vergine si commetteva,
ma in vergine vestale: le quali vergini vestali furono sacratissime
appo i gentili, e di precipua venerazione, e massimamente appo i
romani; e però pareva uno stupore che alcun fosse di tanta
presunzione, che egli ardisse a violare una vergine vestale. Oggi è
questo nome declinato a qualunque vergine, e ancora quando questo
medesimo vizio tra persone per consanguinitá o per affinitá
congiunte si commette, percioché non meno stupore genera negli
uditori aver con questa turpitudine maculata l’onestá del parentado
che l’avere viziata la verginitá d’alcuna; quantunque viziare alcuna
vergine sia gravissimo peccato, percioché le si toglie quello che
mai rendere non le si può, di che ella riceve grandissimo danno; e
quanto il danno è maggiore, tanto è maggiore la colpa, per la quale
segue il danno.]

[Commettesi ancora
questo peccato tra obbligato e soluta, o tra obbligato e obbligata, o
tra soluto e obbligata, e chiamasi questa spezie «adulterio»: e
venne questo nome dall’effetto del vizio, cioè «
adulterium,
alterius ventrem terens
»:
cioè l’adulterio è il priemere l’altrui ventre; percioché in esso
si prieme la possessione, la quale non è di colui che la prieme, né
similmente di colei alla quale è premuto, ma del marito di lei.]

[Commettesi ancor
questo vizio tra uomo non sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e
femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina non sacra: e deesi questo
«sacro» intendere quella persona essere la quale ha sopra sé
ordine sacro, sí come sono i cherici e le monache; e chiamasi questa
spezie «incesto»: il qual nome nacque anticamente dalla cintura di
Venere, la quale è da’ poeti chiamata «cesto». Alla qual cosa con
piú evidenza dimostrare, è da sapere che tra gli altri piú
ornamenti, che i poeti aggiungono a Venere, è una singular cintura,
chiamata «
ceston»,
della quale scrive cosí Omero nella sua Iliada: «
Et
a pectoribus solvit ceston cingulum varium, ubi sibi

voluptaria
onmia ordinata erant, ubi inerat amicitia atque cupido atque
facundia, blanditiae, quae furant intellectum, studiose licet
scientium
»,
ecc. E vogliono i poeti, conciosiacosaché a Venere paia

dovere
appartenere ogni congiunzione generativa, che, quando alcuni
legittime e oneste nozze celebrano, Venere vada a questa congiunzione
cinta di questa sua cintura detta «
ceston»,
a dimostrazione che quegli, li quali per santa legge si congiungono,
sieno costretti e obbligati l’uno all’altro di certe cose
convenientisi al matrimonio, e massimamente alla perpetuitá d’esso.
E, percioché Venere similmente va a’ non legittimi matrimoni, ovvero
congiugnimenti, dicono che quando ella va a quegli cosí fatti, ella
va scinta senza portare questa sua cintura, chiamata «
ceston»:
e quinci ogni congiunzion non legittima chiamarono «incesto», cioè
fatta senza questo
ceston:
ma questa generalitá è stata poi ristretta a questa sola spezie,
per mostrare che, quantunque l’altre sieno gravi, questa sia
gravissima, e che in essa fieramente s’offenda Iddio,
conciosiacosaché le persone a lui sacrate di cosí vituperevole
vizio maculate sieno. Alcuni a questa spezie aggiungono il commettere
questo peccato tra congiunti, il quale di sopra fu nominato «stupro»;
e per avventura non senza sentimento s’aggiugne, percioché questo
pare male da non potere in alcun tempo con futuro matrimonio
risarcire; percioché, come la monaca sacrata mai maritar piú non si
puote, cosí tra’ congiunti può mai intervenire matrimonio, dove
nell’altre spezie potrebbe intervenire.]

[Commettesi ancora
questo vizio, e nell’un sesso e nell’altro, contro alla natural legge
esercitando, e questo è chiamato «sogdomia», da una cittá antica
chiamata Sogdoma, li cittadini della quale in ciò
dissolutissimamente viziati furono; ma, percioché questa spezie ha
molto piú di gravezza e di offesa che alcuna delle predette, non
dimostra l’autore che in questo cerchio si punisca, anzi si punisce
troppo piú giú, come si vedrá nel canto decimoquinto del presente
libro.]

[È il vero che,
quantunque in queste spezie si distingua questo vizio, e che l’una
meriti molto maggior pena che l’altra, non appare però nel supplicio
attribuito al lussurioso l’autore punirne una piú gravemente che
un’altra; ma noi dobbiam credere, quantunque distinte non sieno le
pene, quella, che egli attribuisce a tutte, dovere piú amaramente
priemere coloro che piú gravemente hanno commesso.]


Ma, deducendoci, da
queste piú generali dimostrazioni, a quelle che piú particulari
sono, dico che, percioché il peccato della carne è naturale.
quantunque abbominevole e dannevole sia, e cagione di molti mali,
nondimeno, per la opportunitá di quello e perché pur talvolta se
n’aumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti
offenda Iddio; e per questo nel secondo cerchio dello ‘nferno, il
quale è piú dal centro della terra che alcun altro rimoto, e piú
vicino a Dio, vuole l’autore questo peccato esser punito.

L’origine del quale,
secondo che di sopra è mostrato, par che sia nell’attitudine a
questa colpa datane da’ cieli; la quale parrebbe ne dovesse da questo
scusare, se data non ci fosse stata la ragione, la quale ne dimostra
quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a ciò. il libero
arbitrio, nel quale è podestá di seguire qual piú gli piace. E,
quantunque questa attitudine n’abbia a rendere inchinevoli a ricever
le forme piaciute, e quelle disiderare e amare, nondimeno, se ‘l
calor naturale ed eziandio l’accidentale non accendessero, e,
accendendo, confortassero l’appetito concupiscibile desto dalle cose
piaciute e inchinato dall’attitudine, non è da dubitare che la
concupiscenza indebolirebbe e leggermente si risolverebbe, secondo
che la sentenza di Terenzio par che voglia, lá dove dice: «
Sine
Cerere et Baccho friget Venus
».

Pare adunque questo
caldo, aumentativo dello scellerato appetito, dalla divina giustizia
esser punito e represso dalla frigiditá del vento di sopra detto,
dalla giustizia mandato in pena di coloro che in questa colpa
trasvanno, sí come cosa che è per la sua frigiditá contraria al
caldo, il quale conforta questo abbominevole appetito. E che ogni
vento sia freddo, assai bene si può comprendere da ciò che
generalmente ogni cosa causata suole esser simile a quella cosa la
quale la causa: e il vento è causato da nuvola frigidissima, e
perciò di sua natura sará il vento frigidissimo. Oltre a questo, e
le cose inducenti all’atto libidinoso e la libidine, considerata la
qualitá di questo vento, oltre alla freddezza, sono ottimamente da
lui punite. Viensi a questo miserabile esercizio, avendone il fervore
impetuoso sospinti a dover dare opera al disonesto desiderio, per
molte vigilie, per molto perdimento di tempo, per molto dispendio e
per molte fatiche tutte dannose e da vituperare; le quali se alcuna
volta il disiderante conducono al pestifero effetto, non si contenta
né finisce il suo disiderio d’aver copia di veder la cosa amata,
d’aver copia di parlarle, d’aver copia d’abbracciarla e di baciarla,
se, tutti i vestimenti rimoti, con quella ignudo non si congiugne,
accioché possa ogni parte del corpo toccare, con ogni parte [essere
tócco e] strignersi, e della morbidezza di quello miseramente
consolarsi; mostrando, per questo, l’ultimo e il maggiore diletto di
cosí miserabile appetito stare nelle congiunzioni corporali, ogni
mezzo rimosso. Le quali due detestabili operazioni punisce la divina
giustizia similmente per congiunzione, ma non uniforme l’una
all’altra punisce; percioché, dove la predetta fu molto disiderata e
molto dilettevole a’ corpi, cosí questa è odiata, e, s’elle
potesser, fuggita dalle dannate anime. È adunque la bufera nel testo
dimostrata impetuosissima; e quanto, per venire al peccato, i
pensieri del cuore e i movimenti del corpo con fatica s’esercitarono,
cotanto nello eterno supplicio loro gira e avvolge e trasporta; e,
oltre a ciò, in quella cosa che fu piú disiderata da loro, che
maggior piacere prestò a’ disonesti congiugnimenti, in quella
medesima dolorosamente gli affligge, intanto che essi molto piú
disiderano di mai non toccarsi, che di toccarsi non disideraron
peccando. E la cagione è manifesta, percioché l’impeto di questa
bufera, il quale in qua e in lá, e di giú e di su gli [mena e]
trasporta, con tanta forza l’un nell’altro riscontrandosi percuote,
che il diletto da loro avuto nel congiugnersi insieme fu niente, a
comparazione della pena la quale in inferno hanno nel riscontrarsi; e
però come giá molti, vivendo, di congiugnersi disiderarono, cosí
morti e dannati disiderano senza pro di mai non iscontrarsi. Le quali
cose se bene si considereranno, assai bene si vedrá l’autore far
corrispondersi col peccato la pena.