II SENSO
ALLEGORICO
«Lo giorno se n’andava
e l’aer bruno», ecc. È stato dimostrato dalla ragione, nella fine
del precedente canto, qual via al peccatore tener gli convegna, per
dover salire alla beata vita e partirsi della miseria della tenebrosa
valle. Per la qual dimostrazione, essendosi esso messo dietro alla
ragione in cammino, per continuarsi alle predette cose, discrive
l’autore, nel principio di questo secondo canto, l’ora nella quale in
questo cammino entrarono, la qual dice essere stata nel principio
della notte. Sono adunque, intorno alla allegoria del presente canto,
principalmente da considerare tre cose: delle quali è la primiera
qual ragione possa essere per la quale esso di notte cominci il suo
cammino; appresso è da vedere donde potesse nascere la viltá, la
qual dimostra nel dubbio il quale muove a Virgilio; ultimamente è da
vedere qual cagione movesse Virgilio, e perché del limbo, a venire
nel suo aiuto. Percioché, veduto questo, assai chiaramente si vedrá
per qual cagione da lui si rimovesse la viltá sua.
adunque
intenzione dell’autore di dimostrare nella prima parte, che dissi
essere da considerare, che, quantunque l’uomo peccatore, tócco
dalla grazia operante di Dio, abbia tanto di conoscimento ricevuto,
ch’egli s’avvegga essere stato nelle tenebre della ignoranza, e per
quello in pericolo di pervenire in morte eterna, e disideri di
ritornare alla via della veritá e d’acquistare salute, e per questo
messo si sia dietro alla guida della ragione, in lui da lungo sonno
stata desta; non esser perciò incontanente
tornato nello stato della grazia, [se altro non s’adopera. E perciò,
accioché in quella tornar si possa, si vuole insiememente pregare
Iddio col salmista, dicendo: «Domine,
deduc
me in
iustitia tua: propter inimicos meos dirige in cospectu tuo viam
meam»;
e, oltre a questo, fare
alcune
altre cose, secondo la dimostrazione della ragione. E queste sono,
come altra volta ho detto, il conoscere pienamente i difetti della
vita passata, e di quegli pèntersi e dolersi, e appresso nelle
braccia rimettersene della Chiesa, e al vicario di Dio confessarsene,
disposto a satisfare. E, questo fatto, potrá veramente credere sé
essere nello stato della grazia di Dio tornato, e le sue buone opere
essere accettevoli e piacevoli nel cospetto suo e valevoli alla sua
salute. Ma, infino a tanto che in questa grazia non è il peccatore
ritornato, non può andare per la via della luce, ma va per le
tenebre notturno. E perciò, per dovere tosto a quella grazia
pervenire, dee il peccatore ingegnarsi di fare ogni atto meritorio:
far limosine, l’opere della misericordia, usare alla chiesa,
digiunare, orare, e simili cose adoperare; percioché, quantunque
senza lo stato della grazia a salute non vagliano, sono nondimeno
preparatorie a doversi piú prontamente e piú prestamente menare a
meritare e ad avere la divina grazia.] E perciò, quantunque ad
averla l’autore si disponga, percioché ancora non l’ha, ne dimostra
il principio del suo cammino cominciarsi di notte.
Séguita di vedere,
essendo l’autore giá entrato dietro alla ragione in cammino, donde
potesse nascere in esso la viltá d’animo, la qual dimostra nel
dubbio, il quale seco medesimo muove alla ragione: nel quale assai
manifestamente mostra lui ancora nello stato della grazia non esser
tornato, e per questo aver avuto in lui forza il sospettare de’
consigli della ragione. Per la qual cosa in molti avviene che, in se
medesimi raccolti, contro alle dimostrazioni della ragione disputano;
e di questo, considerata la nostra fragilitá, non ci dobbiamo noi
per avventura molto maravigliare. E la ragione può esser questa.
Assai manifesta cosa è, eziandio in ciascun costante uomo, nel
mutamento d’uno stato ad un altro alquanto gli uomini vacillare e
stare in pendente, s’è il migliore o non è, dello stato nel quale
si trova, trapassare ad un altro, o pure in quel dimorarsi. E non è
alcun dubbio che, stando l’uomo in pendente, che ogni piccola
sospinta il può muovere e farlo piú nell’una parte che nell’altra
pendere. Avviene adunque che quegli, i quali, come detto è, seco
talvolta raccolti sono, quantunque vere conoscano le dimostrazioni
della ragione e santi i suoi consigli, nondimeno d’altra parte,
ascoltando le lusinghe della blanda carne, i conforti del mondo, le
persuasioni del diavolo, a poco a poco cacciando della mente loro il
fervor preso del bene adoperare, non fermato ancora da alcun forte
proponimento, intiepidiscono e divengon vili e timidi; avvisando, per
li conforti de’ suoi nemici, sé non dovere poter bastare a quello
che il bene adoperare e lo stato della penitenza richiede. Per la
qual viltá, se da solenne aiuto cacciata non è, assai leggiermente
miseri volgiamo i passi e nella nostra morte ci ritorniamo. La qual
cosa all’autore avvenia, se le pronte e vere dimostrazioni della
ragione non l’avesser ritenuto e confortato a seguitar l’impresa.
Ultimamente dissi che
era da vedere qual cagione movesse Virgilio, e perché del limbo, a
venire in aiuto dell’autore: alla qual dimostrazione tiene questo
ordine l’autore. E’ pare essere assai manifesto che ciascheduno, il
quale, dalla grazia operante di Dio tócco, si desta e vede la
miseria nella quale le sue colpe l’hanno condotto, e, cacciate le
tenebre della ignoranza, conosce in quanto mortal pericolo posto sia;
che egli, dopo alcuna paura, disideri fuggire il pericolo e ricorrere
alla sua salute: il che, non che l’uomo, ma eziandio ogni altro
animale naturalmente procura. E questo assai bene apparisce l’autore
aver cominciato a fare nel principio della presente opera, in quanto,
desto e conosciuto il suo malvagio stato, ha cominciato a fuggire il
pericolo, e mostra di disiderare di pervenire alla salute: e ora in
questa parte ne mostra quale dee essere quello che ciascuno, il quale
questo disidera, dee, sí come piú presto e piú al suo bisogno
opportuno, fare. E ciò mostra dovere essere l’orazione; percioché
non si può cosí prestamente ricorrere all’altre cose necessarie
alla salute come a quella; e, come che ancora questo si potesse, non
pare ben si proceda, se questa non va avanti. Alla quale eziandio la
natura c’induce, sí come noi per esperienza veggiamo, percioché,
incontanente che alcuna cosa sinistra veggiamo contro a noi muoversi,
subitamente preghiamo per lo divino aiuto. La qual cosa per avventura
vuol mostrar d’aver fatta l’autore in quelle parole del primo canto,
dove dice: «Guardai in alto e vidi le sue spalle»; percioché atto
è di coloro, li quali adorano, levare il viso
al cielo, accioché in quell’atto parte della loro affezione
dimostrino. E a questo, che noi oriamo e preghiamo ne’ nostri
bisogni, ne sollecita Gesú Cristo nell’Evangelio, dove dice:
«Pulsate
et aperietur vobis, petite et dabitur vobis».
È il vero che l’orazione almeno queste due cose vuole avere annesse,
fede e umiltá; percioché chi non ha fede in colui il quale egli
priega, cioè ch’egli possa fare quello che gli è domandato, non
pare orare, anzi tentare e schernire. La qual fede quanto fervente e
ferma fosse, apparve nella femmina cananea, la quale, ancora che non
fosse del popolo di Dio, nondimeno tanta fede ebbe in Gesú Cristo,
che istantissimamente il pregò che liberasse la figliuola dal
dimonio che la ‘nfestava; e, non essendole da Cristo alcuna cosa
risposto, la intera fede la fece ferma e costante di perseverare nel
priego incominciato. Alla quale avendo Cristo risposto che non si
volea prendere il pane dei figliuoli e darlo a’ cani, non lasciando
per questa repulsa, e sospignendola la sua fede, continuò nel
pregare. E, avendo affermato quello, che Cristo avea detto, esser
vero, disse: – Signor mio, e i cani, che si allevano nella casa,
mangiano delle miche che caggiono della mensa del signor loro. –
Volendo per questo dire: – Io cognosco che io non sono del popol tuo,
il quale tu tieni per figliuolo, e perciò non debbo il pane de’ tuoi
figliuoli avere; ma io sono uno de’ cani allevato in casa tua; non mi
negare quello che a’ cani si concede, cioè delle miche che caggiono
dalla mensa tua. – La cui ferma fede conoscendo Cristo, non le volle,
quantunque de’ suoi figliuoli non fosse, negare la grazia
addomandata; ma, rivolto a lei, disse: – Femmina, grande è la fede
tua: va’, e cosí sia fatto come tu hai creduto. – E quella ora fu
dal dimonio liberata la figliuola di lei.
Vuole adunque
l’orazione farsi con fede, e ancora, sí come voi vedete, con
istanzia; percioché Cristo vuole alcuna volta essere sforzato, non
perché la liberalitá sua sia minore, o men volentieri faccia
l’addomandate grazie, ma per fare la nostra perseveranza maggiore e
accioché piú caramente riceviamo quello che con istanzia
impetriamo. Vuole ancora l’orazione esser umile, percioché alcuna
nobiltá di sangue, né abbondanza di sustanze temporali, né
magnificenza d’imperiale o di reale eccellenza la potrebbe di terra
levare un attimo. L’umiltá sola è quella che l’impenna, e falla
infine sopra le stelle volare e quella condurre agli orecchi del
Signor del cielo e della terra. Gran forze son quelle dell’umiltá
nel cospetto di Dio: e come che assai in ciascuna cosa che l’uom
vorrá riguardare appaia, nondimeno mirabilmente il dimostrò nella
sua incarnazione; percioché non real sangue, non etá, non bellezza,
non simplicitá, ma sola umiltá riguardò in quella Vergine, nella
quale Egli, di cielo in terra discendendo, incarnò e prese la nostra
umanitá; sí come essa medesima Vergine testimonia nel suo cantico,
quando dice: «Respexit
humilitatem ancillae
suae»;
per che da questa parola degnamente essa medesima segue: «Deposuit
potentes de sede et exaltavit humiles».
Fece adunque il nostro
autore fedele ed umile orazione a Dio per la salute sua: la quale, sí
come esso medesimo scrive, salí in cielo nel cospetto di Dio guidata
dall’umiltá; percioché, come vedere abbiam potuto nel precedente
canto, l’autore non solamente avea cacciata da sé la superbia, ma
avea paura di lei e fuggivala. E come dobbiamo noi credere la pietosa
e divota orazione guidata dall’umiltá essere ricevuta in cielo?
Certo, non altrimenti che ricevuto fosse il figliuol prodigo dal
pietoso padre, del quale il santo Evangelio ne dimostra. Fece il
pietoso padre uccidere il vitello sagginato, fece parare il convito,
fece chiamare gli amici, e con loro si rallegrò e fece festa di
avere racquistato il suo figliuolo, il quale gli pareva aver perduto.
Cosí si dee credere l’onnipotente Padre aver fatto in cielo,
sentendo per la divota orazione colui alla via della veritá
ritornare, il quale del tutto partito se n’era e ogni sua grazia avea
dispersa e gittata via. Che festa ancora dobbiam credere averne fatta
gli angeli di vita eterna? la letizia de’ quali è maggiore sopra un
peccatore che torni a penitenzia, che sopra novantanove giusti. Posta
dunque l’orazione nel cospetto di Dio, quivi, dolendosi del malvagio
stato di colui che la manda, priega; appresso e quello di che ella
priega scrive l’autore, dicendo che ella chiede in sua dimanda Lucia
e, come suo fedele e che ha di lei bisogno, a lei il raccomanda. E
cosí dovemo intendere quella donna gentile essere la santa orazione
fatta dal peccatore, e in questa parte dovemo intendere per Lucia la
divina clemenza, la divina misericordia, la divina
benignitá, la qual veramente è nimica di ciascun crudele, percioché
in alcun crudele né pietá né misericordia si trova giammai.
Appare adunque per
questo che l’orazione dell’autore addomandasse misericordia, per la
qual sola noi possiamo, avendo peccato, nella grazia di Dio
ritornare; percioché egli è tanta la indegnitá e la iniquitá del
peccatore in adoperare contro a’ comandamenti di Dio, che, se la sua
misericordia non fosse, alcun nostro merito mai ci potrebbe nel suo
amore ritornare.
Quinci, per le cose che
seguitano, appare il Nostro Signore aver prestati benignamente gli
orecchi della sua divinitá a’ prieghi fatti dall’umile orazione, in
quanto dice l’autore che Lucia, cioè la divina misericordia, chiamò
Beatrice, cioè se medesima dispose a mettere in atto il priego
ricevuto: il che appare, in quanto Beatrice, che quivi la grazia
salvificante o vogliam dire beatificante s’intende, alla salute del
pregante si dispose: il che dallo intrinseco della divina mente
procedette. Grande è per certo, come dice san Gregorio, la virtú
della orazione, la quale, fatta in terra, adopera in cielo: il che
qui manifestamente appare, sí come al peccatore è dimostrato;
percioché la forza della sua orazione ha rotto e annullato il duro
giudicio di Dio, nel quale esso Iddio vuole che il peccatore sia
punito; e l’umile orazione ha tanto potuto che, rotto questo
giudicio, al peccatore, in luogo della pena, è conceduta
misericordia; e non solamente misericordia, ma ancora preparatagli e
mostratagli la via da pervenire a salvazione. Che adunque avviene?
Che, per lo desiderio della salute sua, la divina bontá fa che, per
la grazia salvificante, si muove Virgilio del limbo: il quale qui si
prende per la ragione, per la quale noi siamo detti «animali
razionali», o vogliam dire, per la grazia cooperante, o vogliam dire
l’una e l’altra insieme; conciosiacosaché alcuno piú atto luogo in
noi io non cognosca, dove la grazia cooperante mandatane da Dio si
debba piú tosto ricevere che nella sedia della ragione;
conciosiacosaché essa, dopo la grazia operante ben ricevuta, ogni
bene in noi disponga e ordini, e con noi insieme adoperi.
E, a dichiarare come
Virgilio del limbo sia mosso, è da sapere, come giá dicemmo, esser
due mondi: l’uno si chiama il maggiore e l’altro il minore, sí come
ne mostra Bernardo Silvestre in due suoi libri, de’ quali il primo è
intitolato Megacosmo
da due nomi greci, cioè da «mega»,
che in latino viene a dire «maggiore», e da «cosmos»,
che in latino viene a dire «mondo»: e il secondo è chiamato
Microcosmo,
da «micros»,
greco, che in latino viene a dire «minore», e «cosmos»,
che vuol dire «mondo». E, ne’ detti libri, ne dimostra il detto
Bernardo il maggior mondo esser questo il quale noi abitiamo, e che
noi generalmente chiamiamo «mondo», e il minor mondo esser l’uomo,
nel quale vogliono gli antichi, sottilmente investigando, trovarsi
tutti o quasi tutti gli accidenti che nel maggior mondo sono. Ed è
del maggior mondo quella parte chiamata «limbo», la quale non ha
sopra di sé altra cosa, che il cerchio della circunferenza della
terra, o la estrema superficie della terra che noi vogliam dire. E,
quantunque l’autore, secondo la sentenza litterale, mostri Virgilio
essere nel limbo, [cioè nell’uno] del maggior mondo, non è da
intendere che quindi fosse mossa la ragione da Beatrice, ma fu mossa
dal limbo del mondo minore, cioè dalla piú eminente parte
dell’uomo, la quale è il cerebro, sopra il quale nulla altra cosa è
del nostro corpo, se non il cranio e la cotenna; percioché in quello
fu da Dio locata la ragione. E questo, percioché ad essa è stata
commessa la guardia di tutto il corpo nostro, e, oltre a ciò, il
dominio a dovere regolare i movimenti della nostra sensualitá, sí
come ad ottima distinguitrice delle cose nocive dall’utili. E
convenevole cosa è che colui al quale è commessa la guardia
d’alcuna cosa, che egli stea nella piú sublime parte di quella,
accioché esso possa vedere e discernere di lontano ogni cosa
emergente, e a quelle cose, che fossero avverse alla cosa la qual
guarda, opporsi e trovar rimedio, per lo quale da sé le dilunghi: la
qual cosa ne’ sensati uomini ottimamente fa la ragione posta nella
superiore parte di noi. Oltre a questo, come il savio re pone il suo
real solio in quella parte del suo regno, nella qual conosce esser di
maggior bisogno la sua presenza, accioché per questa si tolgan via
le sedizioni e i movimenti inimichevoli, fu di bisogno la ragione
esser posta nel cerebro, percioché qui vi è piú di pericolo che in
tutto il rimanente del nostro corpo. E la ragione è, percioché
nella nostra testa son gli occhi, gli orecchi, la bocca e tutti gli
altri sensi del corpo, li quali con ogni istanzia nutricano il regno
della ragione. E perciò, se loro vicina non fosse, potrebbon muovere
cose assai dannose, dove dalla ragione sono oppresse e
diminuite le forze loro. E questa sedia della ragione essere nel
nostro cerebro, e perché quivi, ottimamente sotto maravigliosa
fizione dimostra Virgilio nel primo dell’Eneida,
dove dice:
Aeoliam venit: hic
vasto rex Aeolus antro,
ecc.,
e,
appresso a questo, in piú altri versi.
adunque
nel limbo, cioè nella superior parte di questo minor mondo, la
ragione, e quindi la muove la grazia salvificante in soccorso del
peccatore. Il quale movimento non si dee altro intendere se non un
rilevarla dallo infimo e depresso stato nel quale lungamente tenuta
l’aveano l’appetito concupiscibile e irascibile, e, lei sotto i
piedi delle loro scellerate operazioni tenendo, aveano occupata la
sedia sua; e questo per tanto tempo, che essa, non potendo il suo
oficio esercitare, era tacendo divenuta fioca, cioè nell’esser
fioca dimostrava la lunghezza della sua servitudine: e, cosí
rilevatala, in essa pone la grazia cooperante, e parala dinanzi allo
smarrito intelletto del peccatore. E di questo non è alcun dubbio
che noi, quante volte ci ravveggiamo delle nostre disoneste
operazioni, tante per divina grazia ricominciamo ad essere uomini, i
quali non siamo quanto nella ignoranza de’ peccati dimoriamo: anzi,
avendo la ragion perduta, siamo divenuti quegli animali bruti, a’
quali, come altra volta è detto, sono i nostri difetti conformi. Il
che se altra dottrina non ci mostrasse, spesse volte ne ‘l mostrano
le poetiche fizioni, quando ne dicono alcuno uomo essersi
trasformato in lupo, alcuno in leone, alcuno in asino o in
alcun’altra forma bestiale. E come la ragione dalla grazia
salvificante è nella sua real sedia rimessa, fatta donna e
consultrice e aiutatrice del peccatore, il toglie co’ suoi
ammaestramenti dinanzi a’ vizi, li quali gli hanno tolta la corta
salita al monte, cioè al luogo della sua salute. E «corta» dice,
percioché agli uomini, li quali in istato d’innocenzia vivono, è
il salire a questo monte leggerissimo, sí come il salmista ne
mostra, lá dove dice: «Quis
ascendet in montem Domini, aut quis stabit in loco sancto eius?».
E rispondendo alla domanda, quello n’afferma che io dico, dicendo:
«Innocens
manibus et mundo corde, qui non
accepit
in vano animam suam, nec iuravit in dolo proximo suo»;
ma a coloro diventa molto lunga, i
quali
ne’ peccati miseramente vivono. E, oltre a questo, riprende e morde
la viltá dell’animo di quegli, i quali, tirati dalle mollizie del
mondo, del divino aiuto mostran di disperarsi; mostrando loro come,
per loro [l’]umile orazione, la misericordia di Dio e la grazia
salvificante procurin per loro nel cospetto di Dio; mostrando ancora
come sicuramente ad ogni affanno metter si possano, avendo sé,
cioè, la grazia cooperante, con loro e in loro aiuto e consiglio.
Maraviglierannosi per
avventura alcuni, e diranno: – A che era di bisogno che la grazia
salvificante movesse o rilevasse la ragione nell’autore? – Alla qual
domanda è la risposta prontissima. Vuole cosí la ragion delle cose
che, negli atti morali, sí come questo è, noi non possiamo alcuna
cosa bene adoperare né con ordine debito, se noi primieramente non
cognosciamo il fine al qual noi dobbiamo adoperare; percioché la
notizia di quello ha a causare i nostri primi atti, e di quindi ad
ordinare quegli che appresso a’ primi e susseguentemente deono
seguire. Come comporrá il cirugico il suo unguento, o il fisico la
sua medicina, se prima il cirugico non vede il malore, il fisico
l’umore da purgare? Come dará il nocchiere la vela del suo legno a’
venti, se esso primieramente non avrá conosciuto e disposto in qual
contrada esso voglia pervenire? Come fará l’architetto fondare un
edificio, o preparar la materia da edificarlo, se egli primieramente
non sa che spezie d’edificio debba esser quello che far si dee?
Conciosiacosaché altra forma e altro maestro voglia un tempio che un
palagio reale, e altra forma il palagio che una casa cittadinesca. È
adunque di necessitá primieramente cognoscere il fine, che noi
pognamo alcuno nostro atto in opera. E perciò, se ben guarderemo, se
il disiderio del peccatore è di salvarsi, esser la grazia
salvificante causativa di quelle nostre operazioni, le quali a salute
ci possan perducere; e di queste nostre operazioni conviene che sia
dimostratrice e ordinatrice la ragione: e però la ragione è la
prima cosa causata dalla grazia salvificante, la quale l’autor mostra
in persona di Beatrice venire a muover Virgilio. E questo scendere
non si dee intendere essere stato attuale; ma semplicemente la
volontá di Dio, provocata dall’umile orazione del peccatore a
misericordia, è causativa di questo rilevamento della ragione, in
quanto in essa sta il concedere la grazia salvificante. Adunque,
avvicinandosi alla conclusione, dico l’autore, per le riprensioni
della ragione in lui ritornata, e per gli ammonimenti di lei, avere
la viltá, presa da’ malvagi conforti de’ nostri nemici, posta giú e
cacciata da sé; riprende, per lo sano consiglio della ragione, il
vigore e la forza smarrita, e nel primo suo buono proponimento si
ritorna, e, ad ogni fatica per acquistar salute disposto, con la
ragione insieme riprende il cammino. E questa si può dire essere
interamente l’esposizione allegorica del presente canto. Né sia
alcuno sí poco savio, che creda queste cose, quantunque mostrino nel
descriversi aver certe interposizioni di tempo, non doversi poter
fare senza la dimostrata interposizione; percioché egli è possibile
di muovere la divinitá, e d’aver veduto ciò che l’autore dee nello
‘nferno vedere, e di pervenire alla porta di purgatorio, e ancora di
salire in cielo, quasi in un momento, pure che la contrizione sia
grande e il fervore della caritá ferventissimo e intero, come di
molti abbiam giá letto essere stato.