CANTO SESTO, I, SENSO LETTERALE

CANTO
SESTO
I
SENSO
LETTERALE

[Lez.
XXIII]

«Al tornar della mente
che si chiuse», ecc. Come ne’ precedenti canti ha fatto, cosí in
questo si continua l’autore alle cose dette. Egli, nella fine del
precedente canto, mostra come, per compassione avuta di madonna
Francesca e di Polo da Rimino, cadesse, e da quel cadimento, nel
principio di questo, essere tornato in , e ritrovarsi nel terzo
cerchio dello ‘nferno. E fa in questo canto l’autore cinque cose:
nella prima discrive la qualitá del luogo; nella seconda dice quello
che Cerbero demonio facesse, vedendogli, e come da Virgilio chetato
fosse; nella terza pone come trovasse un fiorentino, e che da lui
sapesse qual peccato quivi si puniva, e altre cose piú, domandandone
esso autore; nella quarta, passando piú avanti, muove l’autore un
dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella quinta dimostra
l’autore dove pervenissero. La seconda comincia quivi: «Quando ci
scorse»; la terza quivi: «Noi passavam»; la quarta quivi: «
trapassammo»; la quinta quivi: «Noi aggirammo».

Discrive adunque
l’autore nella prima parte di questo canto la qualitá del luogo,
dicendo: «Al tornar della mente», mia, la quale per compassione «si
chiuse», come nella fine del precedente canto è mostrato, «Dinanzi
alla pietá de’ due cognati», di madonna Francesca e di Polo, «Che
di tristizia tutto mi confuse»: la compassione avuta della loro
misera fortuna; «Nuovi tormenti», non quegli li quali nel secondo
cerchio aveva veduti, ma altri, li quali dice «nuovi», quanto a ,
che mai piú veduti non gli avea; «e nuovi tormentati», altri che
quegli che di sopra avea veduti; «Mi veggio intorno come ch’io mi
muova», a destra o a sinistra, «E ch’io mi volga», in questa parte
o in quella, «e come che io mi guati».

«Io sono al terzo
cerchio della piova», la qual piova è «Eterna», non vien mai
meno; «maladetta», in quanto è mandata dalla divina giustizia per
perpetuo supplicio di coloro a’ quali addosso cade; «fredda», e per
tanto è piú noiosa; «e greve», cioè ponderosa, per piú
affliggere coloro a’ quali addosso cade: «Regola e qualitá mai non
l’è nuova», sempre cade d’un modo. E poi discrive qual sia la
qualitá di questa piova, dicendo: «Grandine grossa, ed acqua tinta
e neve». Come che queste tre cose, causate da’ vapori caldi e umidi
e da aere freddo, nell’aere si generino, nondimeno per effetto della
divina giustizia in quello luogo caggiono, in tormento e in pena di 
quegli che in questo
terzo cerchio puniti sono; e però dice: «Per l’aer tenebroso si
riversa»; e, oltre a ciò, «Pute la terra che questo riceve», cioè
queste tre cose.

«Cerbero, fiera
crudele e diversa». Fingono i poeti questo Cerbero essere stato un
cane ferocissimo, il quale essendo di Plutone, Iddio dello ‘nferno,
dicevano Plutone lui aver posto alla porta dello ‘nferno, accioché
quindi alcuno uscir non lasciasse, come che l’autore qui il ponga a
tormentare i peccatori che in questo terzo cerchio sono, discrivendo
la qualitá della forma sua dicendo: «Con tre gole», percioché tre
capi avea, «caninamente latra»; e in questo atto dimostra lui
essere cane, come i poeti il discrivono; «Sopra la gente, che quivi
è sommersa» sotto la grandine e l’acqua e la neve. «Gli occhi ha
vermigli», questo Cerbero, «e la barba unta ed atra», cioè nera.
«E ‘l ventre largo», da poter, mangiando, assai cose riporre, «e
unghiate le mani», per poter prendere e arrappare: «Graffia gli
spiriti», con quelle unghie, «e ingoia», divorandogli, «ed
isquatra», graffiandogli.

«Urlar»; questo è
proprio de’ lupi, comeché e’ cani ancora urlino spesso; «gli fa la
pioggia», la qual continuamente cade loro addosso, «come cani.
Dell’un de’ lati fanno all’altro schermo», questi spiriti dannati:
«Volgonsi spesso», mostrando in questo che gravemente gli offenda
la pioggia; e perciò, come alquanto hanno dall’un lato ricevutala,
cosí si volgon dall’altro, infino a tanto che alcun mitigamento
prendano in quella parte che offesa è stata dalla pioggia, «i
miseri profani».

«Profano»
propriamente si chiama quello luogo il quale alcuna volta fu sacro,
poi è ridotto all’uso comune d’ogni uomo, come alcun luogo, nel
quale giá è stata alcuna chiesa o tempio, la qual mentre vi fu, fu
sacro luogo, poi per alcuno acconcio [comune], trasmutata la chiesa
in altra parte, e il luogo rimaso comune, chiamasi «profano»; cosí
si può dire, degli spiriti dannati, essere stati alcuna volta sacri,
mentre seguirono la via della veritá, percioché, mentre questo
fecero, era con loro la grazia dello Spirito santo; ma, poi che,
abbandonata la via della veritá, seguirono le malvagitá e le
nequizie, per le quali dannati sono, partita da loro la grazia dello
Spirito santo, sono rimasi profani.

«Quando ci scòrse».
Comincia qui la seconda parte del presente canto, nella quale,
come ne’ superiori cerchi è addivenuto all’autore d’essere stato con
alcuna parola spaventato da’ diavoli presidenti a’ cerchi, ne’ quali
disceso è, cosí qui similmente mostra Cerbero averlo voluto
spaventare. E questo, con quello atto generalmente soglion fare i
cani, quando uomo o altro animale vogliono spaventare: innanzi ad
ogni altra cosa gli mostrano i denti. Il che aver fatto Cerbero verso
Virgilio e verso lui dimostra qui l’autore, dicendo: «Quando ci
scòrse», cioè ci vide venire, «Cerbero, il gran vermo» (pone
l’autore questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo ove il trova,
cioè sotterra, percioché i piú di quegli animali, li quali
sotterra stanno, sono chiamati «vermini»), «Le bocche», per ciò
dice le bocche, perché tre bocche avea questo Cerbero, come di sopra
è dimostrato; «aperse, e mostrocci le sanne», cioè i denti: «Non
avea membro che tenesse fermo». Il che può avvenire da impetuoso
desiderio di nuocere e da altro.

«E ‘l duca mio»,
veduto quello che Cerbero faceva, «distese le sue spanne», cioè
aperse le sue mani, a guisa che fa colui che alcuna cosa con la
grandezza della mano misura, «Prese la terra, e con piene le pugna»;
come la mano aperta si chiama «spanna», cosí chiusa, «pugno»;
«La gittò dentro alle bramose canne»; dice «canne», percioché
eran tre, come di sopra è mostrato.

E appresso questo, per
una comparazione ottimamente convenientesi al comparato, dimostra
quel dimonio essersi acquetato, e dice: «Qual è quel cane
ch’abbaiando», cioè latrando, «agogna». «Agognare» è
propriamente quel disiderare il quale alcun dimostra veggendo ad
alcuno altro mangiare alcuna cosa; quantunque s’usi in qualunque cosa
l’uom vede con aspettazione disiderare; ed è questo atto proprio di
cani, li quali davanti altrui stanno quando altri mangia. «E si
racqueta», sanza piú abbaiare, «poi che ‘l pasto morde», cioè
quello che gittato gli è da mangiare, «Che solo a divorarlo intende
e pugna; Cotai si fecer», cioè cosí quiete, «quelle facce lorde»,
brutte di Cerbero, 
che eran tre, «Dello
demonio Cerbero, che introna», latrando, «L’anime», in quel
cerchio dannate, «, ch’esser vorrebber sorde», accioché udire
nol potessero. Questo luogo è tutto preso da Virgilio, di lá dove
egli nel sesto dell’
Eneida
scrive:

Cerberus
haec ingens latratu regna trifauci

personat,
adverso recubans immanis in antro.

Cui
vates, horrere videns iam colla colubris,

melle
soporatam et medicatis frugibus offam

obiicit:
ille fame rabida tria guttura pandens,

corripit
obiectam, atque immania terga resolvit

fusus
humi, totoque ingens extenditur antro,
ecc.

«Noi passavam». Qui
comincia la terza parte di questo canto, nella quale l’autore truova
un fiorentino, il quale gli dice qual peccato in questo terzo cerchio
si punisca: e, oltre a ciò, d’alcune cose addomandato da lui, il
dichiara. Dice adunque: «Noi passavam», Virgilio ed io, «su per
l’ombre ch’adona», cioè prieme e macera, «La grave pioggia», la
quale in quel luogo era, come di sopra è mostrato, «e ponevam le
piante», de’ piedi, «Sopra lor vanitá, che par persona».

Altra volta è detto
gli spiriti non avere corpo, ed essere agli occhi nostri invisibili,
ma in questa opera tutti li mostra l’autore essere corporei, imitando
Virgilio, il quale nel sesto dell’
Eneida
fa il simigliante; e questo fa, accioché piú leggiermente inteso
sia, figurando essere corporee le cose che incorporee sono e i loro
supplici: la qual cosa non si potrebbe far tanto che bastevole fosse,
se questa maniera non tenesse. Nondimeno mostra che, quantunque in
apparenza corpi paiano, non essere in esistenza, dicendo lor «vanitá,
che par persona» e non è: il che come addivenga, pienamente si
mostrerá nel canto venticinquesimo del
Purgatorio,
dove questa materia si tratta.

«Elle», cioè
quell’anime, «giacean per terra tutte quante, Fuor d’una, ch’a seder
si levò», che appare che anche questa una giaceva come l’altre,
«ratto», cioè tosto, «Ch’ella ci vide passarsi davante».

E disse cosí: – «O
tu, che se’ per questo inferno tratto», – cioè menato, «Mi disse,
– riconoscimi, se sai»; quasi volesse dire: – Guatami, e vedi se tu
mi riconosci, percioché tu mi dovresti riconoscere; – e la ragione è
questa, che – «Tu fosti prima fatto», cioè creato e nato, «ch’io
disfatto», – cioè che io morissi, percioché, nella morte, questa
composizione, che noi chiamiamo «uomo», si disfá per lo partimento
dell’anima; e cosí né ella che se ne va, né ‘l corpo che rimane, è
piú uomo. E veramente nacque l’autore molti anni avanti che costui
morisse, e fu suo dimestico, quantunque di costumi fossono strani.

«Ed io a lei», cioè
a quella anima: – «L’angoscia, che tu hai», dal tormento nel quale
tu se’, «Forse» è la cagione la quale «ti tira fuor della mia
mente», cioè del mio ricordo; e tiratane fuor «, che non par
ch’io ti vedessi mai. Ma», poiché io non me ne ricordo, «dimmi chi
tu se’, che ‘n dolente Luogo se’ messo», come questo è, «e a
fatta pena», come è questa, la quale è tale, «Che s’altra è
maggia», cioè maggiore, «nulla è spiacente». –

«Ed egli a me»,
rispuose cosí: – «La tua cittá», cioè Firenze, della qual tu
se’, «ch’è piena D’invidia», ed énne piena «, che giá
trabocca il sacco»; quasi voglia dire: ella n’è piena, che ella
non la può dentro a tenere, per la gran quantitá conviene che
si versi di fuori, cioè si pervenga agli effetti, li quali dalla
invidia procedono. E questo dice costui, percioché, tra l’altre
invidie che in Firenze erano, ve n’era una, la quale gittò molto
danno alla cittá, e massimamente a quella parte alla quale era
portata; e questa era la ‘nvidia, la quale portava la famiglia de’
Donati alla famiglia de’ Cerchi; percioché dove i Donati erano delle
sustanze temporali anzi disagiati gentiliuomini che no
vedendosi tutto dí
davanti, come vicini in cittá e in contado, la famiglia de’
Cerchi, li quali in quei tempi erano mercatanti grandissimi, e tutti
ricchi e morbidi e vezzosi, e, oltre a ciò, nel reggimento della
cittá e nello stato potentissimi, avevano e alle ricchezze e allo
stato loro invidia; e aveanne tanta che, com’è detto, non potendola
dentro piú tenere, non molto poi con dolorosi effetti la versaron
fuori. «Seco mi tenne», come cittadino, «in la vita serena»,
cioè in questa vita mortale, la quale chiama «serena», cioè
chiara, per rispetto a quella nella quale dannato dimorava.

[Lez.
XXIV]

«Voi cittadini», di
Firenze, «mi chiamaste Ciacco». Fu costui uomo non del tutto di
corte; ma, percioché poco avea da spendere, ed erasi, come egli
stesso dice, dato del tutto al vizio della gola, [era morditore di
parole, e] le sue usanze erano sempre co’ gentiliuomini e ricchi, e
massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano
e beveano, da’ quali se chiamato era a mangiare, v’andava, e
similmente se invitato non era, esso medesimo s’invitava. Ed era per
questo vizio notissimo uomo a tutti i fiorentini; senza che, fuor di
questo, egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed
eloquente e affabile e di buon sentimento; per le quali cose era
assai volentieri da qualunque gentileuomo ricevuto. «Per la dannosa
colpa della gola, Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco»; cioè in
questo tormento mi rompo. Pioveva quivi, come di sopra è detto,
grandine grossa, la quale, agramente percotendogli, tutti gli rompea;
e dice che ciò gli avvenia «per la dannosa colpa della gola»,
nelle quali parole manifesta qual vizio in questo terzo cerchio
dell’inferno sia punito, che ancora per infino a qui apparito non
era, chiamando il vizio della gola «dannosa colpa»: e questo non
senza cagione, percioché dannosissimo vizio è, come piú
distesamente si mostrerá appresso nella esposizione allegorica.

«Ed io anima trista»;
e veramente è trista l’anima di chi a fatta perdizion viene,
«non son sola»; quasi voglia dire, non vorre’ che tu credessi che
io solo fossi nel mondo stato ghiotto, perciò «Che tutte queste»,
le quali tu vedi in questo luogo dintorno a me, «a simil pena
stanno», che fo io, e «Per simil colpa» – cioè per lo vizio della
gola: «e», detto questo, «piú non fe’ parola».

«Io gli risposi»,
cioè gli dissi: – «Ciacco, il tuo affanno», il quale tu sostieni
per la dannosa colpa della gola, «Mi pesa sí», cioè tanto, «ch’a
lagrimar m’invita»: e mostra qui l’autore d’aver compassione di lui,
accioché egli sel faccia benivolo a dovergli rispondere di ciò che
intende di domandare. E nondimeno, quantunque dica «a lacrimar
m’invita», non dice perciò che lacrimasse; volendo, per questo,
mostrarne lui non essere stato di questo vizio maculato, ma pure
alcuna volta essere stato da lui per appetito incitato, e perciò non
pena, ma alcuna compassione in rimorsione del suo non pieno peccato
ne dimostra. E però segue: «Ma dimmi, se tu sai, a che», fine,
«verranno i cittadin», cioè i fiorentini, «della cittá partita»;
peroché in que’ tempi Firenze era tutta divisa in due sètte, delle
quali l’una si chiamavano Bianchi e l’altra Neri; ed era caporale
della setta de’ Bianchi messer Vieri de’ Cerchi, e di quella de’ Neri
messer Corso Donati; ed era questa maladizione venuta da Pistoia,
dove nata era in una medesima famiglia chiamata Cancellieri: e dimmi
«S’alcun v’è giusto», nella cittá partita, il quale riguardi al
ben comune e non alla singularitá d’alcuna setta; «e dimmi la
cagione, Perché l’ha tanta discordia assalita». – Domandalo adunque
l’autore di tre cose, alle quali Ciacco secondo l’ordine della
domanda successivamente risponde.

«Ed egli a me»
(
supple)
rispose alla prima: – «Dopo lunga tencione», cioè dopo lunga
riotta di parole, «Verranno al sangue», cioè fedirannosi e
ucciderannosi insieme.

Il che poco appresso
addivenne: percioché, andando per la terra alcuni delle dette sètte,
tutti andavano bene accompagnati e a riguardo, e cosí avvenne che,
la sera di calendimaggio milletrecento, faccendosi in su la piazza di
Santa Trinitá un gran ballo di donne, che giovani dell’una setta e
dell’altra a cavallo e bene in concio sopravvennero a questo ballo; e
quivi primieramente cominciarono l’una parte a sospignere l’altra, e
da questo vennero a sconce parole, e ultimamente, cominciatavisi una
gran zuffa tra loro e lor seguaci e, dalle mani venuti a’ ferri,
molti vi furono fediti, e tra gli altri fu fedito Ricovero di messer
Ricovero dei Cerchi, e fugli tagliato il 
naso, di che tutta la
cittá fu sommossa ad arme. E non finí in questo il malvagio
cominciamento, percioché in questo medesimo anno in simili riscontri
pervenuti, sanguinosamente si combatterono le dette sètte.

«E la parte
selvaggia», cioè la Bianca, la quale chiama «selvaggia»,
percioché messer Vieri de’ Cerchi, il quale era, come detto è, capo
della parte Bianca, e’ suoi consorti, erano tutti ricchi e agiati
uomini, e per questo erano non solamente superbi e altieri, ma egli
erano salvatichetti intorno a’ costumi cittadineschi, percioché non
erano accostanti all’usanze degli uomini, né gli careggiavano, come
per avventura faceva la parte avversa, la quale era piú povera:
«Caccerá l’altra» parte. Né si vuole intendere qui che di Firenze
cacciasse la parte Bianca la Nera, come che alcuni ne fosser mandati
dal Comune in esilio, perché non avean di che pagare le
condannagioni dagli uficiali del Comune fatte per li loro eccessi; ma
intende l’autor qui che la parte selvaggia, cioè Bianca, caccerá la
parte Nera del reggimento dello stato del Comune, come essi fecero; e
ciò avvenne, «con molta offensione», in quanto, oltre agli altri
mali e oppressioni ricevute da’ Neri, furono le condannagioni
pecuniarie grandissime, tanto piú gravi a’ Neri che a’ Bianchi,
quanto aveano meno da pagare, perché poveri erano per rispetto de’
Bianchi.

«Poi appresso», cioè
dopo tutto questo, «convien che questa», parte selvaggia, «caggia»,
dello stato e della maggioranza: e questo avverrá, «Infra tre
soli», cioè infra lo spazio di tre anni; percioché il sole
circuisce tutto il zodiaco in trecentosessantacinque dí e un quarto,
li quali noi chiamiamo «uno anno»: e questo medesimo spazio di
tempo alcuna volta si chiama «un sole», cioè il circuito intero
d’un sole. E dice «infra tre soli», percioché non si compiè il
terzo circuito del sole, che quello addivenne che egli qui vuol
mostrare di profetezzare, il che appare esser vero; percioché,
vedendosi i Neri opprimer dalla parte Bianca, n’andò messer Corso
Donati in corte di Roma a papa Bonifazio ottavo, e con piú altri
suoi aderenti pregarono il papa gli piacesse di muovere alcuno de’
reali di Francia, il quale venisse a Firenze a doverla racconciare,
poiché per messer Matteo d’Acquasparta cardinale e legato di papa
non s’era potuta racconciare, non volendo i Bianchi ubbidire al detto
legato. Per li prieghi de’ quali, non avendo il papa potuto
pacificare messer Vieri con messer Corso, per la superbia di messer
Vieri; il papa mandò in Francia al re Filippo, il quale ad istanza
del detto papa mandò di qua messer Carlo di Valois, suo fratello, il
quale sotto nome di paciaro il papa mandò a Firenze: e furono tali
l’opere sue, che, a’ dí 4 d’aprile 1302, tutti i caporali di parte
Bianca richiesti da messer Carlo per un trattato il quale dovean
tenere, contro al detto messer Carlo non comparirono, anzi si
partiron di Firenze: di che poi come ribelli condennati furono da
messer Carlo; e cosí il reggimento della cittá rimase tutto nella
parte Nera. Appare dunque, come Ciacco pronostica, la parte selvaggia
infra tre soli esser caduta e l’altra sormontata. [Nondimeno chi
questa istoria vuole pienamente sapere, legga la
Cronica
di Giovanni Villani, percioché in essa distesamente si pone.]

Séguita poi: «e che
l’altra sormonti», cioè la parte Nera, la quale sormontò, come
mostrato è di sopra, «Per la forza di tal, che testé piaggia».
Dicesi appo i fiorentini colui «piaggiare», il quale mostra di
voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che
avvenga: la qual cosa vogliono alcuni in questa discordia de’ Bianchi
e de’ Neri di Firenze aver fatta papa Bonifazio, cioè d’aver
mostrata igual tenerezza di ciascuna delle parti e, per dovergli
porre in pace, avervi mandato il cardinal d’Acquasparta, e poi messer
Carlo di Valois: ma ciò non essere stato vero, percioché l’animo
tutto gli pendeva alla parte Nera; e questo era per la obbedienza
mostrata in queste cose da messer Corso, dove messer Vieri era stato
salvatico e duro: e per questo, come egli volle e occultamente
adoperò, furono da messer Carlo tenuti i modi, li quali egli in
queste cose tenne, come di sopra appare: e perciò l’autore dice
essere stata depressa la parte Bianca ed elevata la Nera, con la
forza di tale, il quale in quel tempo, cioè nel 1300, piaggiava.

«Alte terrá», nel
reggimento e nello stato, «lungo tempo le fronti», il quale «lungo
tempo» non è ancora venuto meno, «Tenendo l’altra», parte
cacciata, «sotto gravi pesi», come lo stare fuori di casa sua
in esilio, «Come che di ciò» che io predico, «pianga, e che
n’adonti», cioè tu 
Dante. Il quale,
come altra volta è stato detto, fu della parte Bianca, e con quella
fu cacciato di Firenze, né mai poi vi ritornò, e perciò ne
piagnea, cioè se ne dolea, e adontavane, come coloro fanno alli
quali pare ricever torto.

«Giusti son due». Qui
risponde Ciacco alla seconda domanda fatta dall’autore dove di sopra
disse «s’alcun v’è giusto»: e dice che, intra tanta moltitudine,
v’ha due che son giusti. Quali questi due si sieno, sarebbe grave lo
‘ndovinare; nondimeno sono alcuni li quali, donde che egli sel
traggano, che voglion dire essere stato l’uno l’autor medesimo, e
l’altro Guido Cavalcanti, il quale era d’una medesima setta con lui.
«Ma non vi sono intesi», cioè non è alcun lor consiglio creduto.

«Superbia, invidia ed
avarizia sono Le tre faville c’hanno i cuori accesi». – Qui risponde
Ciacco alla terza domanda fatta dall’autore di sopra, dove dice:
«dimmi la cagione, Perché l’ha tanta discordia assalita». E dice
che tre vizi sono cagione della discordia: cioè superbia, la quale
era grande in messer Vieri e ne’ consorti suoi, per le ricchezze e
per lo stato il quale avevano; e per questo essendo male accostevoli
a’ cittadini, e dispiacendone molto, in parte si generò la
discordia. Il secondo vizio e cagione della discordia dice essere
stata invidia, la quale sente l’autore essere stata nella parte di
messer Corso, il quale a rispetto di messer Vieri era povero
cavaliere, ed era grande spenditore; per che veggendo povero e
messer Vieri ricco, gli portava invidia, come suole avvenire; ché
sempre alle cose, le quali piú felici sono stimate, è portata
invidia. [E, oltre a ciò, v’era la preeminenza dello stato, al quale
generalmente tutti coloro, che in istato non si vedevano, portavano
invidia: dalla quale invidia, stimolante coloro li quali ella ardeva,
furono aguzzati gl’ingegni e sospinti a trovar delle vie e de’ modi,
per li quali la discordia s’avanzò, e poi ne seguí quello ch’è
mostrato.] Il terzo vizio dice essere l’avarizia, la quale consiste
in tenere piú stretto che non si conviene quello che l’uom possiede,
e in disiderare piú che non bisogna altrui d’avere; e cosí può
essere stata, e nell’una parte e nell’altra, cagione di discordia:
nell’una, cioè nella Bianca, della quale erano caporali i Cerchi, li
quali erano tutti ricchi, e se per avventura corteseggiato avessero
co’ lor vicini, come non faceano, non sarebbon nate delle riotte che
nacquero; e cosí nella parte Nera, se stati fossero contenti a
quello che loro era di bisogno, non avrebbon portata invidia a’ piú
ricchi di loro, né disiderata la discordia, per potere per quella
pervenire ad occupare quello che loro non era di necessitá; il che
poi, rubando e scacciando, mostrarono nella partita de’ loro
avversari. E cosí questi tre vizi sono le tre faville che hanno
accesi i cuori a discordia e a male adoperare.

«Qui pose fine»,
Ciacco, «al lacrimabil suono», cioè ragionamento; e chiamalo
«lacrimabile», percioché a molti fu dolorosissimo, e cagione di
povertá e di miseria e di pianto, e tra gli altri all’autor
medesimo, il quale cadde dallo stato, nel quale era, in perpetuo
esilio.

[Muovono alcuni in
questa parte un dubbio, e dicon cosí, che, conciosiacosaché
singular grazia di Dio sia il prevedere le cose future, e i dannati
del tutto la divina grazia aver perduta, non pare che
convenientemente qui l’autore induca l’anima di Ciacco dannata a
dover predire le cose, le quali scrive gli predisse. Alla soluzione
del qual dubbio par che si possa cosí rispondere: esser vero alcuna
cosa non potersi fare che buona sia, senza la grazia di Dio, la qual
veramente i dannati hanno perduta; ma nondimeno concede Domeneddio ad
alcune delle sue creature nella loro creazione certe grazie, le quali
esso non toglie loro, quantunque queste creature, create da lui
buone, poi diventino perverse. Percioché noi possiam manifestamente
conoscere che, quantunque gli angeli, li quali per la loro superbia
furon cacciati di paradiso, quantunque da lui della beatitudine
privati fossero, non furon però privati della scienza, la quale
nella loro creazione avea loro conceduta; o vero che questa non fu
lor lasciata in alcuno lor bene, anzi in pena e in supplicio,
percioché quanto piú sanno, tanto piú conoscono la gloria la quale
per loro difetto perduta hanno, e per conseguente maggiore supplicio
sentono. E cosí similemente crea Nostro Signore l’anime nostre
perfette e simiglianti a ; e, quantunque esse per le loro malvage
operazioni perdano il poter salire a’ beni di vita eterna, non
perdono perciò quelle dote che nella lor creazione furono lor
concedute da Dio, quantunque in danno di loro siano lor lasciate da
Dio. E le dote, le quali noi riceviamo da Dio, sono molte, percioché
esso ne dona la ragione, la volontá, il libero arbitrio, e dánne la
memoria, l’eternitá e lo 
‘ntelletto, e in queste
cose ne fa simili a : le quali cose, quantunque nella sua ira
moiamo, in parte ne rimangono; tra le quali è quella parte della sua
divinitá, la quale conceduta n’ha. E se questa rimane a’ dannati,
meritamente delle cose future si possono addomandare, ed essi ne
posson rispondere: per che non pare che l’autore inconvenientemente
abbia del futuro addomandata l’anima dannata. Ma che le predette dote
ne sien concedute, pare che si provi per la divina Scrittura, nella
quale si legge quasi nel principio del Genesi: «
Dixit
Deus: – Faciamus hominem ad imaginem et

similitudinem
nostram
».
– E se fece egli questo, che il fece, dunque abbiam noi le cose
predette.]

il vero che queste
cose furon concedute all’anima e non al corpo, percioché il corpo
nostro non ha similitudine alcuna con Domeneddio: percioché
Domeneddio, come altra volta è detto, non ha né mani né piedi né
alcuna altra cosa corporea, quantunque la divina Scrittura questi
membri gli attribuisca, accioché i nostri ingegni da dimostrata
forma possan comprendere i misteri, che sotto questa forma la
Scrittura intende. Furono adunque concedute all’anima, la quale esso
per ciò chiamò «uomo», perché ella è quella cosa per la quale è
l’uomo, mentre ella sta congiunta col corpo. E di questi cosí
magnifichi doni, come che tutti gli eserciti l’anima mentre viviamo,
nondimeno alcuni n’esercita dopo la morte del corpo, come detto è:
ma che la divinitá ne sia conceduta, e che ella nelle nostre anime
sia, in certe cose appare vivendo noi, quantunque, essendo oppressa
da questa gravitá del corpo, rade volte e con difficultá le
intervenga il potere esser divina mostrare; nondimeno il dimostra
talvolta dormendo, il corpo sobrio e ben disposto e soluto dalle cure
corporali, come Tullio ne dimostra
in
libro De divinatione
,
in quanto, quasi alleviata ne’ sogni, ne dimostra le cose future.
Qual piú certa dimostrazione avrebbe alcuna viva voce fatta a
Simonide poeta, volente d’una parte in un’altra navicare, che in sua
salute gli fece la divinitá della sua anima nel sonno vedere? Aveva
il dí davanti Simonide seppellito un corpo, il quale gittato dal
mare in su il lito aveva trovato, la cui effigie gli parve, dormendo,
vedere, e udire da lui: – Simonide, non salire sopra la nave, su la
quale tu ti disponi d’andare, percioché ella perirá con quegli che
su vi fieno in questo viaggio. – Per la qual cosa Simonide s’astenne;
né molti dí passarono, che con certezza gli fu recitato quella nave
esser perita. Non fu similemente non una volta, ma due, dimostrato
nel sonno ad Astiage che ‘l figliuolo, il quale di Mandane, sua unica
figliuola, nascerebbe, il priverebbe dello imperio d’Asia? parendogli
la prima volta che l’orina della figliuola allagasse tutta Asia, e la
seconda che dalla parte genitale della figliuola usciva una vite, i
palmiti e le frondi della quale adombravan tutta Asia. E di queste
dimostrazioni si potrebbon narrare infinite, le quali per certo,
senza divino lume, né potrebbe conoscer l’anima, né le potrebbe
mostrare. Similmente ancora, secondo che dice Tullio nel preallegato
libro, mostra l’anima molto della sua divinitá, quando
gravissimamente infermi e debilitati siamo; percioché, quanto piú è
il corpo debole, piú pare che sia il vigor dell’anima, e
massimamente in quanto, per l’essere le forze corporali diminuite,
non pare che possano gravar l’anima, come quando intere sono. E che
l’anima mostri la sua divinitá vicina alla fine della vita del
corpo, s’è assai volte, non dormendo, ma vegghiando veduto: e
come esso Tullio recita da Possidonio, famoso filosofo, avere
avuto, che uno chiamato Modio, morendo, aver nominato sei suoi equali
amici, li quali disse dovere appresso di morire, esprimendo qual
primo e qual secondo e qual terzo, e cosí degli altri; e ciò poi
essere ordinatamente avvenuto. E un altro chiamato Calano d’India,
essendo salito, nella presenza d’Alessandro, re di Macedonia, per
morir volontariamente sopra il rogo, il quale prima avea fatto, e
domandandolo Alessandro se egli volesse che esso alcuna cosa facesse,
gli rispose: – Io ti vedrò di qui a pochi dí; – e quindi, fatto
accendere il rogo, si morí. Non istette guari che Alessandro morí
in Babillonia. E, se io ho il vero inteso, percioché in que’ tempi
io non era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nell’anno
pestifero del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli
uomini dalla peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li
quali de’ loro amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò,
dicendo: – vienne, tale e tale, – de’ quali chiamati e nominati,
assai, secondo l’ordine tenuto dal chiamatore, s’eran morti e
andatine appresso al chiamatore. Per la qual cosa assai appare
nell’anime nostre essere alcuna divinitá, e quella essere molto
noiata da gl’impedimenti corporali, e nondimeno, come detto è, pur
talvolta in alcuno atto mostrarla; e però, se questo avviene essendo
esse ne’ corpi legate, che dobbiam noi estimare che esse debbano
intorno a questa lor divinitá dover 
potere adoperare,
quando del tutto da’ corpi libere sono? E’ non è dubbio che molto
piú la debban poter dimostrare. E perciò non pare inconveniente
l’autore aver domandata l’anima dannata, come altra volta è stato
detto, delle cose future, né essa averne risposto; come coloro, che
il dubbio moveano, volevan mostrare.]

il vero che il
credere che alcuna anima dannata usasse questa sua divinitá in
alcuna sua consolazione, credo sarebbe contro alla veritá; ma
dobbiam credere che, se per virtú di questa divinitá essa prevede
alcuna felicitá d’alcuno, questo essere ad accrescimento della sua
miseria, e cosí il prevedere gl’infortuni, li quali afflizione e
noia gli debbono aggiugnere.]

«Ed io a lui», cioè
a Ciacco, dissi: – «Ancor», oltre a ciò che detto m’hai, «vo’ che
m’insegni», cioè dimostri, «E che di piú parlar mi facci dono»,
dicendomi: «Farinata» degli Uberti «e ‘l Tegghiaio», Aldobrandi,
«che fûr degni» d’onore, quanto è al giudicio de’ volgari, li
quali sempre secondo l’apparenza delle cose esteriori giudicano,
senza guardare quello onde si muovono o che importino; «Iacopo
Rusticucci, Arrigo», Giandonati, «il Mosca», de’ Lamberti.

Furono, questi, cinque
onorevoli e famosi cavalieri e cittadini di Firenze; e, perché i
loro nomi paion degni di fama, di loro in singularitá domanda
l’autore, dimostrando poi in generalitá degli altri.

«E gli altri», nostri
cittadini, «che ‘n ben far», corteseggiando e onorando altrui, non
a ben fare secondo Iddio, «poser gl’ingegni», cioè ogni loro
avvedimento e sollecitudine, «Dimmi», se tu il sai, «ove sono»,
se son qui con teco o se sono in altra parte, «e fa’ ch’io gli
conosca»; quasi voglia dire: io non gli riconoscerei veggendogli, se
non come io non riconosceva te, tanto il brutto tormento, nel quale
se’, gli dee aver trasformati; «Ché gran disio mi strigne di sapere
Se ‘l ciel gli addolcia», cioè con dolcezza consola, «o l’inferno
gli attosca», – cioè riempie d’amaritudine e di tormento.

«E
quegli» (
supple)
rispose: – «Ei son», coloro de’ quali tu domandi, «tra l’anime piú
nere».

Creò Domeneddio
Lucifero, splendido, chiaro e bello piú che altra creatura, ma egli,
per superbia peccando, divenne oscuro e tenebroso; e cosí,
producendo noi puri e perfetti, infino a tanto che noi non pecchiamo,
nella chiaritá della puritá dimoriamo; ma, tantosto che noi
pecchiamo, incomincia, partitasi la puritá, quella chiaritá, che
avevamo, a divenire oscura, e quanto piú pecchiamo, in maggiore
oscuritá divegnamo. E quinci dice Ciacco, coloro, de’ quali l’autore
domanda, essere tra «l’anime piú nere», cioè piú oscure, e
soggiugne la cagione dicendo: «Diverse colpe giú gli grava al
fondo». E dice «diverse colpe», percioché per lo disonesto
peccato della sogdomia Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci son
puniti dentro alla cittá di Dite nel canto decimosesto di questo
libro; Farinata per eresia nel decimo canto; e ‘l Mosca, perché fu
scismatico, nel canto ventottesimo. I quali peccati, perché sono piú
gravi assai, come si dimostrerá, che non è la gola, gli aggrava e
fa andare piú giuso verso il fondo dell’inferno. «Se tanto scendi»,
quanto essi son giuso, «gli potrai vedere».

«Ma, quando tu sarai
nel dolce mondo». Possiam da queste parole comprendere quanta sia
l’amaritudine delle pene infernali, quando questa anima chiama questo
mondo «dolce», nel quale non è cosa alcuna, altro che piena
d’angoscia, di tristizia e di miseria. «Pregoti ch’alla mente altrui
mi rechi», cioè mi ricordi. E qui ancora, per queste parole,
possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la quale,
quantunque alcun bene non potesse adoperare in costui, nondimeno non
l’ha potuta, per tormento che egli abbia, dimenticare, né eziandio
lasciare, che egli non addomandasse che l’autore di lui, tornato di
qua, ragionasse e rivocasselo nella memoria alle genti. «Piú non ti
dico», cioè d’altro non ti priego, «e piú non ti rispondo», –
alle cose delle quali domandato m’hai.

«Li diritti occhi»,
co’ quali infino a quel punto guardato avea l’autore, «torse allora
in biechi», come dette ebbe queste parole; e dice «in biechi»,
quasi «in guerci». «Guardommi un 
poco»: atto è di
coloro li quali, costretti da alcuna necessitá, piú non aspettan di
vedere coloro che davanti gli sono; «e poi chinò la testa. Cadde
con essa a par degli altri ciechi», cioè de’ dannati a quella
medesima pena, che era dannato esso. E cognominagli «ciechi»,
percioché perduto hanno il vedere intellettuale, col quale i beati
veggono la presenza di Dio.

«E ‘l duca disse a
me», poi che Ciacco fu ricaduto: – «Piú non si desta», cioè non
si rileva piú; e cosí pare che, tra l’altre pene che i golosi
hanno, abbiano ancora che qual si leva o parla, per alcuna cagione,
come ricaduto è, piú di qui al dí del Giudicio non si possa levare
né parlare; «Di qua dal suon dell’angelica tromba», cioè di qua
dal dí del Giudicio, quando un agnolo mandato da Dio verrá, e con
altissima voce, quasi sia una tromba, e’ dirá: – «
Surgite,
mortui, et venite ad

iudicium»;
– «Quando vedrá», ed egli e gli altri dannati, «la nimica
podestá», cioè Cristo, in cui il

Padre
ha commessa ogni podestá. E non vedranno i dannati Cristo nella
maestá divina, ma il vedranno nella sua umanitá, e parrá loro lui
essere turbato verso di loro, come contra nemici: [ma ciò non fia
vero, percioché il giusto giudice, come sará ed è Cristo, non si
commuove contro a colui il quale ha offeso; percioché, se egli
facesse questo, parrebbe che egli animosamente venisse alla sentenza.
Ma questo è il costume di coloro che hanno offeso, che, come sentono
dire cosa che gli trafigga, cosí si turbano; e come sono turbati
essi, cosí par loro che sia turbato colui che meritamente gli
riprende.]

E seguisce, al suono
dell’angelica tromba, che «Ciascuno rivedrá la trista tomba». Dice
«rivedrá», risurgendo, e chiamala «trista tomba», cioè
sventurata sepoltura, in quanto ella è stata guardatrice di ceneri,
le quali deono risurgere a perpetuo tormento. «Ripiglierá sua carne
e sua figura», e questo non per lor forza, ma per divina potenza,
[sará loro in questo cortese, non per lor bene o consolazione, ma
accioché il corpo, il quale fu strumento dell’anima a commettere le
colpe per le quali è dannata, sostenga insieme con quella tormento;]
e, ripreso il corpo, ciascuno «Udirá quel che in eterno rimbomba»,
cioè risuona (e pone il presente per lo futuro), e questo sará la
sentenza di Dio, nella quale Cristo dirá a’ dannati: – «
Ite
maledicti in ignem aeternum
»,
– ecc., le quali parole in eterno non caderanno della mente loro.

« trapassammo».
Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale l’autore
muove un dubbio a Virgilio, e scrive la soluzion di quello. Dice
adunque: «Sí», cioè cosí ragionando, «trapassammo», lasciato
Ciacco, «per sozza mistura Dell’ombre e della pioggia», la quale,
essendo, come di sopra è detto, da se medesima sozza, piú sozza
ancora diveniva per la terra, la qual putiva, ricevendo la pioggia;
«a passi lenti», forse per lo ragionare, o per lo luogo che non
pativa che molto prestamente vi si potesse andare per uom vivo;
«Toccando un poco la vita futura», cioè ragionando della futura
vita. E questo mostra fosse intorno alla resurrezione de’ corpi,
per le parole passate, e ancora per quello che appare nel dubbio
mosso dall’autore.

«Perch’io dissi: –
Maestro», continuandomi a quello che della futura vita ragionavamo,
«esti tormenti», li quali io veggio in queste anime dannate,
«Cresceranno ei dopo la gran sentenza», data da Dio nell’ultimo e
universal giudicio, «O fien minori», che al presente sieno, «o
saran cocenti», – come sono al presente?

«Ed egli a me»
(
supple)
rispose: – «Ritorna a tua scienza», alla filosofia, «Che vuol,
quanto la cosa è piú perfetta, Piú senta il bene, e cosí la
doglienza». E questo ci è tutto il dí manifesto, percioché noi
veggiamo in un giovane sano e ben disposto parergli le buone cose
piacevoli e saporite, dove ad uno infermo, nel quale è molta meno
perfezion che nel sano, parranno amare e spiacevoli; vedrem
similmente un giovane sano con gravissima doglia sentire ogni piccola
puntura, dove un gravemente malato, appena sente le tagliature e
gl’incendi molte volte fattigli nella persona: e cosí adunque,
come séguita, dobbiam credere dovere avvenire a’ dannati, quando i
corpi avranno riavuti, in quanto avrá il tormento in che farsi piú
sentire.

«Tutto», cioè
avvegna, «che questa gente maladetta», cioè i dannati, «In vera
perfezion». «Perfezione» è un nome il quale sempre suona in bene
e in aumento della cosa, la quale di non 
perfetta divien
perfetta: e, percioché ne’ dannati non può perfezione essere
alcuna, e per questo per riavere i corpi non saranno piú perfetti,
ma piú tosto diminuiti, dice l’autore: «In vera perfezion giammai
non vada». Andrá adunque non in perfezione, ma in alcuna
similitudine di perfezione, in quanto riavranno i corpi cosí come
gli riavranno i beati; ma i beati gli riavranno in aumento di gloria,
dove i dannati gli riavranno in aumento di tormento e di pena, la
quale è diminuzione di perfezione. «Di lá», cioè dalla sentenzia
di Dio, «piú che di qua», dalla detta sentenzia, «essere
aspetta», – in maggior pena; cioè aspetta, dopo i corpi riavuti,
molta maggior pena che essi non hanno o avranno infino al dí che i
corpi riprenderanno.

«Noi aggirammo». Qui
comincia la quinta e ultima parte nella quale l’autor mostra dove
pervenissero. E dice: «Noi aggirammo a tondo quella strada», e dice
«a tondo», percioché ritondo è quello luogo, come molte volte è
stato detto; «Parlando piú assai ch’io non ridico», pure intorno
alla vita futura; «Venimmo al punto», cioè al luogo, «dove si
disgrada», per discendere nel quarto cerchio dello ‘nferno. «Quivi
trovammo Pluto il gran nemico», cioè il gran dimonio.

Il qual Pluto, chi egli
sia, racconteremo nel canto seguente. Nondimeno il chiama qui
l’autore avvedutamente «il gran nimico», in quanto, come si dirá
appresso, esso significa le ricchezze terrene, le quali in tanto sono
a’ mortali grandissime nimiche, in quanto impediscono il possessor di
quelle a dover potere intrare in paradiso; dicendo Cristo
nell’Evangelio: essere piú malagevol cosa ad un ricco entrare in
paradiso che ad un cammello entrare per la cruna dell’ago. [Le quali
parole piú chiaramente che il testo non suona esponendo, secondo che
ad alcun dottor piace, si deono intendere cosí: cioè essere in
Ierusalem stata una porta chiamata Cruna d’ago, piccola, che
senza scaricare della sua soma il cammello, entrar non vi potea, ma
scaricato v’entrava. E cosí, moralmente esponendo, è di necessitá
al ricco, cioè all’abbondante di qualunque sustanza, ma in
singularitá delle ricchezze male acquistate, di porre la soma di
quelle giuso, se entrare vogliono in paradiso, l’entrata del quale è
strettissima. Se adunque esse impediscono il nostro entrare in tanta
beatitudine, meritamente dir si possono grandissime nostre nemiche,
ecc.]