CANTO SESTO, II, SENSO ALLEGORICO

II

SENSO
ALLEGORICO

[Lez.
XXV]

«Al tornar della mente
che si chiuse», ecc. Nel principio di questo canto l’autore, sí
come di sopra ha fatto negli altri, cosí si continua alle cose
seguenti. Mostrògli nel precedente canto la ragione, come i
lussuriosi, li quali nell’ira di Dio muoiono, sieno dalla divina
giustizia puniti; e percioché la colpa della gola è piú grave che
il peccato della lussuria, in quanto la gola è cagione della
lussuria, e non
e
converso
,
gli dimostra in questo terzo cerchio la ragione, come il giudicio di
Dio con eterno supplicio punisca i golosi.

A detestazion de’
quali, e accioché piú agevolmente si comprenda quello che sotto la
corteccia litterale è nascoso, alquanto piú di lontano cominceremo.

Creò il Nostro Signore
il mondo e ogni creatura che in quello è; e, separate l’acque, e
quelle, oltre all’universal fonte, per molti fiumi su per la terra
divise, e prodotti gli alberi fruttiferi, l’erbe e gli animali, e di
quegli riempiute l’acque, l’aere e le selve, tanto fu cortese a’
nostri primi parenti, che, non ostante che contro al suo comandamento
avessero adoperato, ed esso per quello gli avesse di paradiso
cacciati, tutte le sopradette cose da lui prodotte sottomise alli lor
piedi, sí come dice il salmista: «
Omnia
subiecisti sub pedibus eius, oves et boves et universa pecora campi,
et volucres

caeli,
et pisces maris, qui perambulant semitas maris
»;
e, come queste, cosí molto maggiormente i

frutti
prodotti dalla terra, di sua spontanea volontá germinante. Per la
qual cosa con assai leggier fatica, sí come per molti si crede, per
molti secoli si nutricò e visse innocua l’umana generazione dopo ‘l
diluvio universale. I cibi della quale furono le ghiande, il sapor
delle quali era a’ rozzi popoli 
non men soave al gusto,
che oggi sia a’ golosi di qualunque piú morbido pane; le mele
salvatiche, le castagne, i fichi, le noci e mille spezie di frutti,
de’ quali cosí come spontanei producitori erano gli alberi, cosí
similemente liberalissimi donatori. Erano, oltre a ciò, le radici
dell’erbe, l’erbe medesime piene d’infiniti, salutevoli non men che
dilettevoli, sapori; e le domestiche gregge delle pecore, delle
capre, de’ buoi prestavan loro abbondevolmente latte, carne,
vestimenti e calzamenti, senza alcun servigio di beccaro, di sarto o
di calzolaio; oltre a ciò, l’api, sollecito animale, senza alcuna
ingiuria riceverne, amministravano a quegli i fiari pieni di mèle; e
la loro naturale piú tosto che provocata sete saziavano le chiare
fonti, i ruscelletti argentei e gli abbondantissimi fiumi. E a queste
prime genti le recenti ombre de’ pini, delle querce, degli olmi e
degli altri arbori temperavano i calori estivi, e i grandissimi
fuochi toglievan via la noia de’ ghiacci, delle brine, delle nevi e
dei freddi tempi; le spelunche de’ monti, dalle mani della natura
fabbricate, da’ venti impetuosi e dalle piove gli difendeano, e sola
la serenitá del cielo, e i fioriti e verdeggianti prati dilettavan
gli occhi loro. Niun pensiero di guerra, di navicazione, di
mercatanzia o d’arte gli stimolava; ciascuno era contento in quel
luogo finir la vita, dove cominciata l’avea. Niuno ornamento
appetivano, niuna quistione aveano, né era tra loro bomere, né
falce, né coltello, né lancia. I loro esercizi erano intorno a’
giuochi pastorali o in conservar le greggi, delle quali alcun comodo
si vedeano. Era in que’ tempi la pudicizia delle femmine salva e
onorata; la vita in ciascuna sua parte sobria e temperata e, senza
alcuno aiuto di medico o di medicina, sana; l’etá de’ giovani
robusta e solida, e la vecchiezza de’ lor maggiori venerabile e
riposata. Non si sapeva che invidia si fosse, non avarizia, non
malizia o falsitá alcuna, ma santa e immaculata semplicitá ne’
petti di tutti abitava; per che meritamente, secondo che i poeti
questa etá discrivono, «aurea» si potea chiamare.

Ma, poi che, per
suggestion diabolica, sí come io credo, cominciò tacitamente ne’
cuori d’alcuni ad entrare l’ambizione, e quinci il disiderio di
trascendere a piú esquisita vita, venne Cerere, la quale appo
Eleusia e in Sicilia prima mostrò il lavorío della terra, il
ricogliere il grano e fare il pane: Bacco recò d’India il mescolare
il vino col mèle, e fare i beveraggi piú dilicati che l’usato; e
con appetito non sobrio, come il passato, furon cominciate a gustare
le cortecce degli alberi indiani, le radici e’ sughi di certe piante,
e quelle a mescolare insieme, e a confondere nel mèle i sapori
naturali, e a trovare gli accidentali con industria: furono
incontanente avute in dispregio le ghiande. Similmente, avendo
alcuni, in lor danno divenuti ingegnosi, trovato modo di tirare in
terra con reti i gran pesci del mare, e di ritenere ne’ boschi le
fiere, e ancora d’ingannare gli uccegli del cielo; furon da parte
lasciati i lacciuoli e gli ami, e la terra riposatasi lungamente,
cominciata a fendere, e ‘l mare a solcar da’ navili, e portare d’un
luogo in un altro, e recare, i viziosi princípi: si mutaron con
esercizi gli animi. E giá in gran parte, sí come piú atta a ciò,
Asiaper gli artifici di Sardanapalo, re degli assiri, e sí per
gli altrui, da questa dannosa colpa della gola, come lo ‘ncendio suol
comprender le parti circostanti, cosí l’Egitto, cosí la Grecia
tutta comprese, in tanto che giá non solamente ne’ maggiori, ma
eziandio nel vulgo erano venuti i dilicati cibi e ‘l vino, e in ogni
cosa lasciata l’antica simplicitá. Ultimamente, sparto giá per
tutto questo veleno, agl’italiani similmente pervenne; e credesi che
di quello i primi ricevitori fossero i capovani, percioché né
Quinzi né Curzi né Fabrizi né Papirii né gli altri questa
ignominia sentivano; e giá era perfetta la terza guerra macedonica,
e vinto Antioco magno, re d’Asia e di Siria, da Scipione asiatico,
quando primieramente il cuocere divenne, di mestiere, arte.

intra
‘l mestiere e l’arte questa differenza, che il mestiere è uno
esercizio, nel quale niuna opera manuale, che dallo ‘ngegno proceda,
s’adopera, sí come è il cambiatore, il quale nel suo esercizio non
fa altro che dare danari per danari; o come era in Roma il cuocere
a’ tempi che io dico, ne’ quali si metteva la carne nella caldaia, e
quel servo della casa, il quale era meno utile agli altri servigi,
faceva tanto fuoco sotto la caldaia, che la carne diveniva tenera a
poterla rompere e tritar co’ denti. Arte è quella intorno alla
quale non solamente l’opera manuale, ma ancora lo ‘ngegno e la
‘ndustria dell’artefice s’adopera, sí come è il comporre una
statua, dove, a doverla proporzionare debitamente, si fatica molto
lo ‘ngegno; e sí come è il cuocere oggi, al quale non basta far
bollir la caldaia, ma vi si richiede l’artificio del cuoco, in fare
che quel, che si cuoce, sia saporito, sia 
odorifero, sia bello
all’occhio, non abbia alcun sapore noioso al gusto, come sarebbe o
troppo salato o troppo acetoso o troppo forte di spezie, o del
contrario a queste; o sapesse di fumo o di fritto o di sapor simile,
del quale il gusto è schifo.

Era dunque, al tempo di
sopra detto, mestiere ancora il cuocere in Roma, in che appare la
modestia e la sobrietá loro; ma, poi che le ricchezze e’ costumi
asiatichi v’entrarono, con grandissimo danno del romano imperio, di
mestiere, arte divenne; essendone, secondo che alcuni credono,
inventore uno il quale fu appellato Apicio: e quindi si sparse per
tutto, accioché i membri dal capo non fosser diversi; e non che le
ghiande e’ salvatichi pomi e l’erbe o le fontane e’ rivi fossero in
dispregio avute, ma e’ furono ancora poco prezzati i familiari
irritamenti della gola: e per tutto si mandava per gli uccelli, per
le cacciagioni, per li pesci strani, e quanto piú venien di lontano,
tanto di quegli pareva piú prezzato il sapore. Né fu assai a’
golosi miseri l’avere i lacciuoli, le reti e gli ami tesi per tutto
il mondo, alle cose le quali dovevano poter dilettare la gola ed
empiere il ventre misero, ma diedero e dánno opera che nelle cose,
le quali e’ loro deono corrompere, fossero gli odori arabici,
accioché, confortato il naso, e per lo naso il cerebro, lui
rendessero piú forte all’ingiurie de’ vapori surgenti dallo stomaco,
e l’appetito piú fervente al disiderio del consumare. Né furono
ancora contenti a’ cibi soli, ma dove l’acqua solea salutiferamente
spegner la sete, trovati infiniti modi d’accenderla, a dileticarla
non a consumarla, varie e molte spezie di vini hanno trovate; e, non
bastando i sapori vari che la varietá de’ terreni e delle regioni
danno loro, ancora con misture varie gli trasformano in varie spezie
di sapore e di colore. E, accioché piú lungo spazio prender possano
ad empiere il tristo sacco, hanno introdotto che ne’ triclini, nelle
sale, alle mense sieno intromessi i cantatori, i sonatori, i
trastullatori e i buffoni, e, oltre a ciò, mille maniere di
confabulazioni ne’ lor conviti, accioché la sete non cessi. Se i
familiari ragionamenti venisser meno, si ragiona, come Iddio vuole,
in che guisa il cielo si gira, delle macchie del corpo della luna,
della varietá degli elementi; e da questi subitamente si trasvá
alle spezie de’ beveraggi che usano gl’indiani, alle qualitá de’
vini che nascono nel Mar maggiore, al sapore degli spagnuoli, al
colore de’ galli, alla soavitá de’ cretici: né passa intera alcuna
novelletta di queste, che rinfrescare i vini e’ vasi non si comandi.
Ed è tanto questa maladizione di secolo in secolo, d’etá in etá
perseverata e discesa, che infino a’ nostri tempi, con molte maggior
forze che ne’ passati, è pervenuta; e, secondo il mio giudicio, dove
che abbia ella molto potuto, o molto possa, alcuno luogo non credo
che sia, dove ella con piú fervore eserciti, stimoli e vinca gli
appetiti, che ella fa appo i toscani; e forse non men che altrove
appo i nostri cittadini nel tempo presente. Con dolore il dico: e, se
l’autore non avesse solamente Ciacco, nostro cittadino, essere
dannato per questo vituperevol vizio, nominato, forse senza alcuna
cosa dire del nostro esecrabile costume mi passerei. Questo, adunque,
mi trae a dimostrare la nostra dannosa colpa, accioché coloro, li
quali credono che dentro a’ luoghi riposti delle lor case non passino
gli occhi della divina vendetta, con meco insieme, e con gli altri,
s’avveggano e arrossino della disonestá la quale usano. Intorno a
questo peccato, non quanto si converrebbe, ma pure alcuna cosa ne
dirò.

adunque
in tanto moltiplicato e cresciuto appo noi, per quel che a me paia,
l’eccesso della gola, che quasi alcuno atto non ci si fa, né nelle
cose publiche né nelle private, che a mangiare o a bere non riesca.
[In questo i denari publici sono dagli uficiali publici trangugiati,
l’estorsioni dell’arti e ne’ sindacati, il mobile de’ debitori
dovuto alle vedove e a’ pupilli, le limosine lasciate a’ poveri e
alle fraternite, l’esecuzioni testamentarie, le quistioni
arbitrarie, e a qualunque altra pietosa cosa, non solamente i laici,
ma ancora li religiosi divorano.] E questo miserabile atto non ci si
fa come tra cittadino e cittadino far si solea, anzi è tanto d’ogni
convenevolezza trapassato il segno, che gli apparati reali, le mense
pontificali, gli splendori imperiali sono da noi stati lasciati a
dietro; né ad alcuna, quantunque grande spesa, quantunque disutile,
quantunque superba sia, si riguarda; ogni modo, ogni misura, ogni
convenevolezza è pretermessa. Vegnono oggi ne’ nostri conviti le
confezioni oltremarine, le cacciagioni transalpine, i pesci marini
non d’una ma di molte maniere; e son di quegli, che, senza vergogna,
d’oro velano i colori delle carni, con vigilante cura e con
industrioso artificio cotte. Lascio stare gl’intramessi, il numero
delle vivande, [i savori] di sapori e 
di color diversissimi,
e le importabili some de’ taglieri carichi di vivande tra poche
persone messi, le quali son tante e tali, che non dico i servidori,
che le portano, ma le mense, sopra le quali poste sono, sotto di
fatica vi sudano. Né è penna che stanca non fosse, volendo i
trebbiani, i grechi, le ribole, le malvagíe, le vernacce e mille
altre maniere di vini preziosi discrivere. E or volesse Iddio che
solo a’ principi della cittá questo inconveniente avvenisse; ma
tanto è in tutti la caligine della ignoranza sparta, che coloro
ancora, li quali e la nazione e lo stato ha fatti minori, queste
medesime magnificenze, anzi pazzie, trovandosi il luogo da ciò,
appetiscono e vogliono come i maggiori. In queste cosí oneste e
sobrie commessazioni, o conviti che vogliam dire, come i ventri
s’empiano, come tumultuino gli stomachi, come fummino i cerebri, come
i cuori infiammino, assai leggier cosa 
da
comprendere a chi vi vuole riguardare. In queste insuperbiscono i
poveri, i ricchi divengono intollerabili, i savi bestiali; per le
quali cose vi si tumultua, millantavisi, dicevisi male d’ogni uomo e
di Dio; e talvolta, non potendo lo stomaco sostenere il soperchio,
non altramente che faccia il cane, sozzamente si vòta quello che
ingordamente s’è insaccato; e in queste medesime cosí laudevoli
cene s’ordina e solida lo stato della republica, diffinisconsi le
quistioni, compongonsi l’opportunitá cittadine e i fatti delle
singular persone; ma il come, nel giudicio de’ savi rimanga. In
queste si condanna e assolve cui il vino conforta, o cui l’ampiezza
delle vivande aiuta o disaiuta: e coloro, a’ quali i prieghi unti e
spumanti di vino sono intercessori, procuratori o avvocati, le piú
delle volte ottengono nelle lor bisogne.

Che
fine questo costume si debba avere, Iddio il sa; credo io che egli da
esso molto offeso 
sia.

Ma, che che esso alle
misere anime s’apparecchi nell’altra vita, è assai manifesto lui a’
corpi essere assai nocivo nella presente. Percioché, se noi vorrem
riguardare, noi vedremo coloro, che l’usano, essere per lo troppo
cibo e per lo soperchio bere perduti del corpo, e innanzi tempo
divenir vecchi; perdoché il molto cibo vince le forze dello stomaco,
intanto che, non potendo cuocere ciò che dentro cacciato v’è per
conforto del non ordinato appetito e dal diletto del gusto, convien
che rimanga crudo, e questa crudezza manda fuori rutti fiatosi, tiene
afflitti i miseri che la intrinseca passion sentono, raffredda e
contrae i nervi, corrompe lo stomaco, genera umori putridi; i quali,
per ogni parte del corpo col sangue corrotto trasportati, debilitan
le giunture, creano le podagre, fanno l’uom paralitico, fanno gli
occhi rossi, marcidi e lagrimosi, il viso malsano e di cattivo
colore, le mani tremanti, la lingua balbuziente, i passi disordinati,
il fiato odibile e fetido; senza che essi, e meritamente e senza
modo, tormentano il fianco di questi miseri che nel divorare si
dilettano. Per le quali passioni i dolenti spesse volte gridano,
bestemmiano, urlano e abbaiano come cani. Cosí adunque la rozza
sobrietá, la rustica simplicitá, la santa onestá degli antichi, le
ghiande, le fontane, gli esercizi e la libera vita è permutata in
cosí dissoluta ingluvie, ebrietá e tumultuosa miseria, come
dimostrato è. Per che possiam comprendere l’autore sentitamente aver
detto: «la dannosa colpa della gola»; la quale ancora piú dannosa
cognosceremo, se guarderemo e a’ publici danni e a’ privati, de’
quali ella è per lo passato stata cagione.

I primi nostri padri,
sí come noi leggiamo nel principio del
Genesi,
gustarono del legno proibito loro da Dio, e per questo da lui
medesimo furon cacciati del paradiso, e noi con loro insieme; e,
oltre a ciò, per questo a e a noi procurarono la temporal morte
e l’eterna, se Cristo stato non fosse. Esaú per la ghiottornia delle
lenti, le quali, tornando da cacciare, vide a Iacob suo fratello,
perdé la sua primogenitura. Ionatas, figliuolo di Saul re, per
l’avere con la sommitá d’una verga, la quale aveva in mano, gustato
d’un fiaro di mèle, meritò che in lui fosse la sentenza della morte
dettata. Certi sacerdoti, per aver gustati i sacrifici della mensa di
Bel, furono il dí seguente tutti uccisi. E quel ricco del quale noi
leggiamo nello Evangelio, il qual continuo splendidamente mangiava,
fu seppellito in inferno. Come i troiani si diedono in sul mangiare e
in sul bere e in far festa, cosí furon da’ greci presi; e quel, che
l’arme e l’assedio sostenuto dieci anni non avean potuto fare,
feciono i cibi e ‘l vino d’una cena. I figliuoli di Iob, mangiando e
bevendo con le lor sorelle, furon dalla ruina delle lor medesime case
oppressi e morti. La robusta gente d’Annibale, la quale né il lungo
cammino, né i freddi dell’Alpi, né l’armi de’ romani non avean mai
potuto vincere, da’ cibi e 
dal vino de’ capovani
furono effeminati, e poi molte volte vinti e uccisi. Noé, avendo
gustato il vino e inebriatosi, fu nel suo tabernacolo da Cam, suo
figliuolo, veduto disonestamente dormire e ischernito. Lot, per avere
men che debitamente bevuto, ebbro fu dalle figliuole recato a giacer
con loro. Sisara, bevuto il latte di mano di Iabel e addormentatosi,
fu da lei, con uno aguto fittogli per le tempie, ucciso. Leonida
spartano ebbe, tutta una notte e parte del seguente dí, spazio di
uccidere e di tagliare insieme co’ suoi compagni l’esercito di Serse,
seppellito nel vino e nel sonno. Oloferne, avendo molto bevuto, diede
ampissimo spazio d’uccidersi a Iudit. E le figliuole di Prito, re
degli argivi, per lo soperchio bere vennero in tanta bestialitá, che
esse estimavano d’essere vacche.

Ma, perché mi fatico
io tanto in discrivere i mali per la gola stati, conciosiacosaché io
conosca quegli essere infiniti? E perciò riducendosi verso la finale
intenzione, come assai comprender si puote per le cose predette, tre
maniere son di golosi. Delli quali l’una pecca nel disordinato
diletto di mangiare i dilicati cibi senza saziarsi; e questi son
simili alle bestie, le quali senza intermissione, sol che essi trovin
che, il dí e la notte rodono. E di questi cotali, quasi come di
disutili animali, si dice che essi vivono per manicare, non manucan
per vivere; e puossi dire questa spezie di gulositá, madre di
oziositá e di pigrizia, sí come quella che ad altro che al ventre
non serve. La seconda pecca nel disordinato diletto del bere, intorno
al quale non solamente con ogni sollecitudine cercano i dilicati e
saporosi vini, ma quegli, ogni misura passando, ingurgitano, non
avendo riguardo a quello che contro a questo nel
Libro
della Sapienza

ammaestrati siamo, nel quale si legge: «
Ne
intuearis vinum, cum flavescit in vitro color eius: ingreditur
blande, et in novissimo

mordebit,
ut coluber
».
Per la qual cosa, di questa cosí fatta spezie di gulosi
maravigliandosi, Iob

dice:
«Numquid
potest
quis gustare, quod gustatum affert mortem

Né è dubbio alcuno la ebrietá essere stata a molti cagione di
vituperevole morte, come davanti è dimostrato. È questa gulositá
madre della lussuria, come assai chiaramente testifica Ieremia,
dicendo: «
Venter
mero aestuans,

facile
despumat in libidinem
»;
e Salomon dice: «
Luxuriosa
res est vinum, et tumultuosa ebrietas; quicumque in his delectabitur,
non erit sapiens
»;
e san Paolo, volendoci far cauti contro alla forza

del
vino, similmente ammaestrandoci, dice: «
Nolite
inebriari vino, in quo est luxuria
».
È ancora questa spezie di gulositá pericolosissima, in quanto ella,
poi che ha il bevitore privato d’ogni razional sentimento, apre e
manifesta e manda fuori del petto suo ogni secreto, ogni cosa riposta
e arcana: di che grandissimi e innumerabili mali giá son seguiti e
seguiscono tutto il dí. Ella è prodiga gittatrice de’ suoi beni e
degli altrui, sorda alle riprensioni, e d’ogni laudabile costume
guastatrice. La terza maniera è de’ golosi, li quali, in ciascheduna
delle predette cose, fuori d’ogni misura bevendo e mangiando e
agognando, trapassano il segno della ragione; de’ quali si può dire
quella parola di Iob: «
Bibunt
indignationem, quasi aquam
».
Ma, secondo che si legge nel salmo: «
Amara
erit
potio bibentibus illam
»;
e come Seneca a Lucillo scrive nella ventiquattresima epistola:
«
Ipsae
voluptates in tormentum vertuntur; epulae cruditatem afferunt;
ebrietates, nervorum torporem, tremoremque; libidines, pedum et
manuum, et articulorum omnium depravationes
»
ecc. Questi

adunque
tutti ingluviatori, ingurgitatori, ingoiatori, agognatori,
arrappatori, biasciatori, abbaiatori, cinguettatori, gridatori,
ruttatori, scostumati, unti, brutti, lordi, porcinosi, rantolosi,
bavosi, stomacosi, fastidiosi e noiosi a vedere e a udire, uomini,
anzi bestie, pieni di vane speranze sono; vòti di pensieri laudevoli
e strabocchevoli ne’ pericoli, gran vantatori, maldicenti e bugiardi,
consumatori delle sustanzie temporali, inchinevoli ad ogni dissoluta
libidine e trastullo de’ sobri. E, percioché ad alcuna cosa virtuosa
non vacano, ma se medesimi guastano, non solamente a’ sensati uomini,
ma ancora a Dio sono tanto odiosi, che, morendo come vivuti sono, ad
eterna dannazione son giustamente dannati; e, secondo che l’autor ne
dimostra, nel terzo cerchio dello ‘nferno della loro scellerata vita
sono sotto debito supplicio puniti. Il quale, accioché possiamo
discernere piú chiaro come sia con la colpa conforme, n’è di
necessitá di dimostrare brievemente.

Dice adunque l’autore
che essi giacciono sopra il suolo della terra marcio, putrido, fetido
e fastidioso, non altrimenti che ‘l porco giaccia nel loto, e quivi
per divina arte piove loro sempre addosso «grandine grossa e acqua
tinta e neve», la quale, essendo loro cagione di gravissima doglia,
gli fa urlare non altrimenti che facciano i cani: e, oltre a ciò, se
alcuno da giacer si lieva o parla
giace poi senza parlare
o urlare infino al dí del giudicio; e, oltre a ciò, sta loro in
perpetuo sopra capo un demonio chiamato Cerbero, il quale ha tre
teste e altrettante gole, né mai ristá d’abbaiare. E ha questo
dimonio gli occhi rossi e la barba nera ed unta, e il ventre largo, e
le mani unghiate, e, oltre all’abbaiare, graffia e squarcia e morde i
miseri dannati, li quali, udendo il suo continuo abbaiare, disiderano
d’essere sordi. La qual pena spiacevole e gravosa, in cotal guisa
pare che la divina giustizia abbia conformata alla colpa: e
primieramente come essi, oziosi e gravi del cibo e del vino, col
ventre pieno giacquero in riposo del cibo ingluviosamente preso; cosí
pare convenirsi che, contro alla lor voglia, in male e in pena di
loro, senza levarsi giacciano in eterno distesi, col loro spesso
volgersi testificando i dolorosi movimenti, li quali per lo soperchio
cibo giá di diverse torsioni lor furon cagione. E, come essi di
diversi liquori e di vari vini il misero gusto appagarono; cosí qui
sieno da varie qualitá di piova percossi ed afflitti: intendendo per
la grandine grossa, che gli percuote, la cruditá degl’indigesti
cibi, la quale, per non potere essi, per lo soperchio, dallo stomaco
esser cotti, generò ne’ miseri l’aggroppamento de’ nervi nelle
giunture; e per l’acqua tinta, non solamente rivocare nella memoria i
vini esquisiti, il soperchio de’ quali similmente generò in loro
umori dannosi, i quali per le gambe, per gli occhi e per altre parti
del corpo sozzi e fastidiosi vivendo versarono; e per la neve, il
male condensato nutrimento, per lo quale non lucidi ma invetriati, e
spesso di vituperosa forfore divennero per lo viso macchiati. E, cosí
come essi non furono contenti solamente alle dilicate vivande, né a’
savorosi vini, né eziandio a’ salsamenti spesso escitanti il pigro e
addormentato appetito, ma gli vollero dall’indiane spezie e dalle
sabee odoriferi; vuole la divina giustizia che essi sieno dal
corrotto e fetido puzzo della terra offesi, e abbiano, in luogo delle
mense splendide, il fastidioso letto che l’autore discrive. E
appresso, come essi furono detrattori, millantatori e maldicenti,
cosí siano a perpetua taciturnitá costretti, fuor solamente di
tanto che, come essi, con gli stomachi traboccanti e con le teste
fummanti, non altramenti che cani abbaiar soleano, cosí urlando come
cani la loro angoscia dimostrino, e abbian sempre davanti Cerbero, il
quale ha qui a disegnare il peccato della gola, accioché la memoria
e il rimprovero di quella nelle lor coscienze gli stracci, ingoi e
affligga; e, in luogo della dolcezza de’ canti, li quali ne’ lor
conviti usavano, abbiano il terribile suono delle sue gole, il quale
gl’intuoni, e senza pro gli faccia disiderare d’esser sordi.

Ma resta a vedere
quello che l’autor voglia intendere per Cerbero, la qual cosa sotto
assai sottil velo è nascosa. Cerbero, come altra volta è stato
detto, fu cane di Plutone, re d’inferno, e guardiano della porta di
quello; in questa guisa, che esso lasciava dentro entrar chi voleva,
ma uscirne alcun non lasciava. Ma qui, come detto è, l’autore
discrive per lui questo dannoso vizio della gola, al quale
intendimento assai bene si conforma l’etimologia del nome. Vuole,
secondo che piace ad alcuni, tanto dir «Cerbero», quanto «
creon
vorans
»,
cioè «divorator di carne»; intorno alla qual cosa, come piú volte
è detto di sopra, in gran parte consiste il vizio della gola; e per
ciò in questo dimonio piú che in alcun altro il figura, perché
egli è detto «cane», percioché ogni cane naturalmente è guloso,
né n’è alcuno che se troverá da mangiare cosa che gli piaccia, che
non mangi tanto che gli convien venire al vomito, come di sopra è
detto spesse volte fare i gulosi.

Per le tre gole canine
di questo cane intende l’autore le tre spezie de’ ghiotti poco
davanti disegnate; e in quanto dice questo demonio caninamente
latrare, vuole esprimere l’uno de’ due costumi, o amenduni de’
gulosi. Sono i gulosi generalmente tutti gran favellatori, e ‘l piú
in male, e massimamente quando sono ripieni: il quale atto veramente
si può dire «latrar canino», in quanto non espediscon bene le
parole, per la lingua ingrossata per lo cibo, e ancora perché
alquanto rochi sono per lo meato della voce, il piú delle volte
impedito da troppa umiditá; e, oltre a ciò, percioché i cani, se
non è o per esser battuti, o perché veggion cosa che non par loro
amica, non latran mai; il che avviene spesse volte de’ gulosi, li
quali come sentono o che impedimento sopravvegna, o che veggano per
caso diminuire quello che essi aspettavano di mangiare, incontanente
mormorano e latrano. E, oltre a questo, sono i gulosi grandi
agognatori: e, come il cane guarda sempre piú all’osso che rode il
compagno che a quello che esso medesimo divora, cosí i gulosi
tengono non meno gli 
occhi a’ ghiotti
bocconi che mangia il compagno, o a quegli che sopra i taglieri
rimangono, che a quello il quale ha in bocca: e cosí sono
addomandatori e ordinatori di mangee e divisatori di quelle.

E in quanto dice questo
dimonio aver gli occhi vermigli, vuol s’intenda un degli effetti
della gola ne’ golosi, a’ quali, per soperchio bere, i vapor caldi
surgenti dallo stomaco generano omóri nella testa, li quali poi per
gli occhi distillandosi, quegli fa divenir rossi e lagrimosi.

Appresso dice lui aver
la barba unta, a dimostrare che il molto mangiare non si possa fare
senza difficultá nettamente, e cosí, non potendosi, è di necessita
ugnersi la barba o ‘l mento o ‘l petto; e per questa medesima cagione
vuole che la barba di questo dimonio sia nera, percioché ‘l piú
ogni unzione annerisce i peli, fuorché i canuti. Potrebbesi ancora
qui piú sottilmente intendere e dire che, conciosiacosaché per la
barba s’intenda la nostra virilitá, la quale, quantunque per la
barba s’intenda, non perciò consiste in essa, ma nel vigore della
nostra mente, il quale è tanto quanto l’uomo virtuosamente adopera,
e allora rende gli operatori chiari e splendidi e degni di onore;
dove qui, per la virilitá divenuta nera, vuole l’autore s’intenda
nella colpa della gola quella essere depravata e divenuta malvagia.

Dice, oltre a ciò,
Cerbero avere il ventre largo, per dimostrare il molto divorar de’
gulosi, li quali, con la quantitá grande del cibo, per forza
distendono e ampliano il ventre, che ciò riceve oltre alla natura
sua; e, che è ancora molto piú biasimevole, tanto talvolta dentro
vi cacciano, che, non sostenendolo la grandezza del tristo sacco,
sono, come altra volta di sopra è detto, come i cani costretti a
gittar fuori.

E, in quanto dice
questo demonio avere le mani unghiate, vuol che s’intenda il
distinguere e il partire che fa il ghiotto delle vivande; e, oltre a
questo, il pronto arrappare, quando alcuna cosa vede che piú che
alcuna altra gli piaccia.

Appresso, dove l’autor
dice questo demonio non tener fermo alcun membro, vuol che s’intenda
la infermitá paralitica, la quale ne’ gulosi si genera per li non
bene digesti cibi nello stomaco; o, secondo che alcuni altri
vogliono, ne’ bevitori per lo molto bere, e massimamente senz’acqua,
ed essendo lo stomaco digiuno; e puote ancora significare
gl’incomposti movimenti dell’ebbro.

Oltre a ciò, lá dove
l’autore scrive che questo demonio, come gli vide, aperse le bocche e
mostrò loro le sanne, vuol discrivere un altro costume de’ gulosi,
li quali sempre vogliosi e bramosi si mostrano; o intendendo per la
dimostrazion delle sanne, nelle quali consiste la forza del cane,
dimostrarsi subitamente la forza de’ golosi, la qual consiste in
offendere i paurosi con mordaci parole, alle quali fine por non si
puote se non con empiergli la gola, cioè col dargli mangiare o bere.
La qual cosa il discreto uomo, consigliato dalla ragione, per non
avere a litigar della veritá con cosí fatta gente, fa prestamente,
volendo piú tosto gittar via quello che al ghiotto concede che, come
è detto, porsi in novelle con lui: percioché, come questo è dal
savio uomo fatto, cosí è al ghiotto serrata la gola e posto
silenzio. E in questo pare che si termini in questo canto
l’allegoria.