II
SENSO
ALLEGORICO
[Lez.
XXIX]
[«Papé
Satan, papé Satan aleppe»,
ecc. Dimostrò l’autore nel precedente canto come la ragione gli
dimostrò qual fosse la colpa della gola, e che supplicio fosse dalla
divina giustizia posto a’ gulosi, li quali in quel peccato morivano;
e, continuandosi alle cose precedenti, discrive come, seguendo la
ragione, gli fosse da lei dimostrato che cosa fosse il peccato
dell’avarizia e similmente quello della prodigalitá, e similmente
qual pena ne fosse data a coloro che in esse erano vivuti e morti
peccatori, e sotto il cui imperio puniti fossero: procedendo appresso
in questo medesimo canto, come, veduti
questi, seguendo la ragione, gli fossero dalla detta ragione mostrate
altre due spezie di peccatori, cioè gl’iracundi e gli accidiosi, e
il loro tormento. E però primieramente vedremo, come di sopra si
promise, quello che l’autore intenda per Plutone prencipe di questo
cerchio; e appresso che cosa sia avarizia, e in che pecchi l’avaro; e
poi che cosa sia prodigalitá, e in che pecchi il prodigo; e quinci
qual sia la pena lor data per lo peccato commesso, e come la pena si
confaccia al peccato. E, questo veduto, procederemo a vedere che
peccato sia quello dell’ira, e poi quello dell’accidia, e qual pena
agli accidiosi e agli iracundi data sia, e come essa si conformi alla
colpa.]
[Truovansi adunque,
secondo che esponendo la lettera è detto, essere stati due Plutoni,
de’ quali per avventura ciascuno potrebbe assai attamente servire a
questo luogo, quantunque l’uno molto meglio che l’altro, sí come
apparirá appresso. Diceva adunque Leon Pilato che uno, il quale fu
chiamato Iasonio, aveva amata Cerere, dea delle biade, e con lei
s’era congiunto, e di lei avea ricevuto un figliuolo, il quale avea
nominato Pluto. Sotto il qual fabuloso parlare è questa istoria
nascosa, cioè che, al tempo del diluvio il quale fu in Tessaglia a’
tempi del re Ogigio, si trovò in Creti un mercatante, il quale ebbe
nome Iasonio; e questi essendo molto ricco, e avendo, per la
fertilitá stata il precedente anno, trovata grandissima copia di
grano, e quella comperata a quel pregio che esso medesimo aveva
voluto; udendo il diluvio stato in Tessaglia, e come egli aveva non
solamente guasti i campi e le semente del paese, ma ancora corrotta
ogni biada, la quale per i tempi passati ricolta vi si trovò, e i
circustanti popoli esserne mal forniti a dover potere sovvenirne
quegli delle contrade dove stato era il diluvio; caricati piú legni
di questo suo grano, lá navicò, e di quello ebbe da’ paesani ciò
che egli addomandò; e in questa guisa, ispacciatol tutto, fece tanti
denari, che a lui medesimo pareva uno stupore: e in questa maniera di
Cerere, cioè del suo grano, generò Plutone, cioè una smisurata
ricchezza. E in questo luogo si pone Plutone, per lo quale
s’intendono le ricchezze mondane, a tormentare coloro che quelle
seppero male usare, sí come appresso apparirá; e perciò assai
convenientemente qui si potrebbe di questo Plutone intendere.]
[Ma, come di sopra
dissi, molto meglio si conformerá al bisogno questo altro, del quale
si legge che Plutone, il quale in latino è chiamato Dispiter,
fu figliuolo di Saturno e della moglie, il cui nome fu Opis,
e come altra volta giá è detto, nacque ad un medesimo parto con
Glauca, sua sorella, e occultamente, senza saperlo Saturno, fu
nutricato e allevato. Costui finsero gli antichi essere re dello
‘nferno, e dissero la sua real cittá esser chiamata Dite, della
quale assai cose scrive Virgilio nel sesto dell’Eneida
quivi:
Respicit
Aeneas subito et sub rupe sinistra
moenia
lata videt, ecc.
E appresso a Virgilio,
discrive la sua corte e la sua maestá Stazio nel suo Thebaidos,
dicendo:
Forte
sedens media regni infelicis in arce
dux
Herebi populos poscebat crimina vitae,
nil
hominum miserans iratus et omnibus umbris:
stant
furiae circum variaeque ex ordine mortes,
saevaque
multisonas exercet poena catenas:
fata
ferunt animas, ecc.
E, oltre a questo, gli
attribuirono un carro, sí come al sole; ma, dove quello del sole ha
quattro ruote, disson questo averne pur tre, e chiamarsi «triga»; e
quello dissero esser tirato da tre cavalli, i nomi de’ quali dissono
esser questi: Meteo, Abastro e Novio. E, oltre a ciò, accioché
senza moglie non fosse, dice
Ovidio esso aversela trovata in cosí fatta maniera, che, essendosi
un dí Tifeo con maravigliose forze ingegnato di gittarsi da dosso
Trinacria, alla quale egli è sottoposto, parve a Plutone che, se
questo avvenisse, esser possibile a dover poter trapassare infino in
inferno la luce del giorno; e perciò, venuto a procurare come
fondata e ferma fosse Trinacria e a quella andando d’intorno, ed
essendo pervenuto non lontano a Siragusa, gli venne veduta in un
prato una vergine chiamata Proserpina, la quale con altre vergini
andava cogliendo fiori; e percioché essa sprezzava le fiamme di
Venere e recusava i suoi amori, avvenne che, come Plutone veduta
l’ebbe, subitamente s’innamorò della sua bellezza: e perciò,
piegato il carro suo, n’andò in quella parte, e, presa Proserpina,
la quale di ciò non suspicava, seco ne la portò in inferno, e quivi
la prese per moglie. E, oltre a questo, dicono lui avere avuto un
cane, il quale aveva tre teste ed era ferocissimo, e quello avere
posto a guardia del suo regno. Del quale cane dice cosí Seneca
tragedo nella tragedia d’Ercole
furente:
Post
haec avari Ditis apparet domus.
Hic
saevus umbras territat Stygius canis,
qui
terna vasto capita concutiens sono
regnum
tuetur: sordidum tabo caput
lambunt
colubrae: viperis horrent iubae
longusque
torta sibilat cauda draco.
Par
ira formae, ecc.]
[Le quali molte fizioni
al nostro proposito io intendo cosí: Plutone voglion molti, come
altra volta è stato detto, vegna tanto a dire quanto «terra»: come
che, secondo Fulgenzio, «Plutone» in latino suona tanto quanto
«ricchezza»; e perciò è chiamato da’ latini «Dispiter»,
quasi «padre delle ricchezze»: e che le periture ricchezze
consistano in terra, o di sotterra si cavino, questo è chiarissimo;
ed «Opis»
è chiamata la terra, e perciò meritamente Plutone è detto non
solamente «terra», ma ancora «figliuolo della terra». Ma,
percioché le prime ricchezze, non essendo ancora trovato l’oro,
apparvero in parte pervenire dal lavorio della terra, e Saturno fu
colui il quale primieramente insegnò lavorare la terra, è per
questo meritamente chiamato padre di Plutone.]
[Alle ricchezze, le
quali per Plutone intendiamo, è meritamente data una cittá, la
quale ha le mura di ferro, e per guardia Tesifone; accioché per
questo noi intendiamo le menti degli avari, a’ quali le ricchezze
commesse sono, esser di ferro, e conosciamo la crudeltá loro intorno
alla guardia e tenacitá di quelle; e in questa cittá dice Virgilio
non esser licito ad alcun giusto d’entrare:
Nulli
fas casto sceleratum insistere limen;
accioché
egli appaia che il cercare o il servare le ricchezze senza
ingiustizia non potersi fare.]
[Per la real corte e
per li circustanti a questo Plutone si deono intendere l’angosce e
l’ansietá delle sollicitudini infinite, e ancora le fatiche
dannevoli, le quali hanno gli avari nel ragunar le ricchezze, e
ancora le paure di perderle, dalle quali sono infestati coloro li
quali con aperta gola intendono sempre a ragunarle; e per lo carro
dobbiamo considerare le circuizioni e i ravvolgimenti per lo mondo,
ora in questo e ora in quel paese discorrendo, che fanno coloro li
quali e tirati e sospinti sono dal disiderio di divenir ricchi; e
l’essere il detto carro sopra tre ruote tirato, nulla altra cosa
credo significhi se non la fatica, il pericolo e la incertitudine
delle cose future, nelle quali coloro, che vanno dattorno,
continuamente sono; e cosí i cavalli tiranti questo carro dicono
esser tre, a dimostrarne di tre accidenti, li quali in questi cotali
attornianti il mondo per arricchire par che sieno.]
[Chiamasi adunque il
cavallo primo Meteo, il quale è interpetrato «oscuro», per lo
quale s’intende l’oscura, cioè stolta, diliberazione d’acquistare
quello che non è di bisogno, dalla quale il cupido, senza riguardare
il fine, si lascia tirare. Il secondo cavallo è chiamato Abaster, il
quale tanto viene a dire quanto «nero», accioché per questo si
conosca il dolore e la tristizia de’ discorrenti, li quali
spessissime volte si truovano in cose ambigue e in evidenti pericoli
e in paure grandissime. Il caval terzo è nominato Novio, il qual
tanto vuol dire quanto «cosa tiepida», accioché per lui
cognosciamo che per la paura de’ pericoli, e ancora pe’ casi
sopravvegnenti, cade la speranza di coloro che ferventissimamente
disiderano d’acquistare, e cosí intiepidisce l’ardore il quale a ciò
stoltamente gli confortava.]
[Il maritaggio di
Proserpina, la quale alcuna volta significa «abbondanza», e
massimamente qui, ad alcuno non è dubbio che con altrui che co’
ricchi non si fa, e spezialmente secondo il giudicio del vulgo
ragguardante, la cui estimazione spessissimamente è falsa; percioché
esso quasi sempre crede che lá dove vede i granai pieni, come appo i
ricchi si veggono, che quivi sia abbondanza grandissima; dove in
contrario, essendo le menti vòte, sí come l’avarizia procura, v’è
fame e gran penuria d’ogni bene, e però di questo maritaggio niuna
cosa si genera che laudevole o degna di memoria sia.]
[Cerbero, cane di
Plutone, estimano alcuni essere stato vero cane, e perciò essere
detto lui aver tre teste, per tre singulari proprietá, le quali
erano in lui: egli era nel latrato d’alta voce e di sonora, ed era
mordacissimo, e, oltre a ciò, era, in tenere quello che egli
prendeva, fortissimo. Nondimeno, sotto la veritá di questo cane,
sentirono i poeti essere altri sensi riposti, in quanto è detto
«guardiano di Dite»; e però, conciosiacosaché per Dite si debbano
intender le ricchezze, sí come davanti è mostrato, non potremo piú
dirittamente dire alcuno esser guardiano di quelle se non l’avaro; e
cosí per Cerbero sará da intendere l’avaro, al quale perciò sono
tre teste discritte, a dinotare tre spezie d’avari. Percioché alcuni
sono li quali sí ardentemente disiderano l’oro, che essi cupidamente
in ogni disonesto guadagno, per averne, si lascian correre, accioché
quello, che acquistato avranno, pazzamente spendano, donino e gittin
via; i quali, avvegnaché guardiani delle ricchezze dir non si
possano, nondimeno sono pessimi e dannosi uomini. La seconda spezie è
quella di coloro li quali con grandissimo suo pericolo e fatica
ragunano d’ogni parte e in qualunque maniera, accioché tengano e
servino e guardino, e né a sé né ad altri dell’acquistato fanno
pro o utile alcuno. La terza spezie è quella di coloro li quali non
per alcuna sua opera, o ingegno o fatica, ma per opera de’ suoi
passati, ricchi divengono, e di queste ricchezze sono sí vigilanti e
studiosi guardiani, che essi, non altramenti che se da altrui loro
fossero state diposte, le servano, né alcuno ardire hanno di
toccarle: e questi cotali sono da dire tristissimi e miseri guardiani
di Dite.]
[I serpenti, i quali
sono a Cerbero aggiunti alle chiome, sono da intendere per le tacite
e mordaci cure, le quali hanno questi cotali intorno all’acquistare e
al guardare l’acquistato.]
[Oltre a questo, gli
antichi chiamarono questo Plutone «Orco», sí come appare nelle
Verrine di Tullio, quando dice: «Ut
alter Orcus venisse Aetnam, et non Proserpinam, sed ipsam Cererem
rapuisse
videbatur»,
ecc. Il qual dice Rabano cosí essere chiamato, percioché egli è
ricettatore delle
morti;
conciosiacosaché egli riceva ogni uomo di che che morte si muoia, e
cosí l’avaro ogni guadagno riceve di che che qualitá egli si sia. E
questo basti ad aver detto intorno a quello che per Plutone si debba
intendere in questo luogo. Il che raccogliendo, sono le ricchezze e i
malvagi guardatori e spenditori di quelle: e cosí significherá
questo dimonio il peccato e la cagion del peccato, il quale in questo
quarto cerchio miseramente si punisce.]
[Son certo che ci ha di
quegli che si maraviglieranno, percioché l’allegoria, la quale io ho
al presente dato a questo cane infernale, cioè a Cerbero, non è
conforme a quella la quale gli diedi nella esposizione allegorica del
precedente canto; dove mostrai lui significare il vizio della gola, e
qui dimostro io per lui significare tre spezie d’avarizia. Ma io non
voglio che di questo alcuno prenda ammirazione, percioché la divina
Scrittura è tutta piena di simili cose, cioè che una medesima cosa
ha non solamente uno, ma due e tre e quattro sentimenti, secondo che
la varietá del luogo, dove si truova,
richiede: la qual cosa accioché voi per manifesto esempio veggiate,
mi piace per alcuna figura, e per la varietá de’ sensi di quella
mostrarvelo.]
[Leggesi nel Genesi
che il serpente venne ad Eva, e confortolla che assaggiasse del cibo
il quale l’era stato comandato che ella non assaggiasse: perciò
questo serpente doversi intendere il nemico della umana generazione,
tutti i santi uomini e dottori della Chiesa s’accordano. Similmente
scrive san Giovanni nell’Apocalissi
che fu fatta una battaglia in cielo, come nell’esposizione litterale
fu detto, nella quale san Michele arcangiolo uccise il serpente: e
per questo serpente similmente s’intende, per tutti, il nemico nostro
antico. Per che potete vedere per gli esempli posti, per lo serpente
intendersi il diavolo. Ma in altra parte si legge nella Scrittura
che, essendo il popolo d’Israel venuto, dietro alla guida di Moisé,
in parte del diserto piena di serpenti, e che questi serpenti
trafiggevano e molestavano forte il popolo, e non solamente gli
offendevano d’infermitá, ma egli ve ne morivano per le trafitte
velenose: la qual cosa come Moisé sentí, per comandamento di Dio
fece un serpente di rame, e, dirizzata nel mezzo del popolo una
colonna, vel pose suso, e comandò che qualunque del popolo trafitto
fosse, incontanente che trafitto fosse, mostrasse quella puntura o
quella piaga, che dal serpente avesse ricevuta, a questo serpente da
lui elevato, ed egli sarebbe guerito; e cosí avveniva. Intendesi in
questa parte questo serpente elevato esser Cristo, il quale, nel
mezzo del popolo ebraico elevato in su la colonna della croce, sanò
e sana tutte le piaghe delle colpe nostre, per li conforti e per le
tentazioni de’ serpenti, cioè de’ nemici nostri, fatte nelle nostre
anime: le quali come noi le mostriamo a questo serpente elevato, cioè
a Cristo, per la contrizione e per la satisfazione, incontanente
siamo per la sua passion liberati e guariti dalle piaghe, le quali a
morte perpetua ci traevano. E fu questo serpente, cioè Cristo, di
rame, secondo due proprietá del rame, il quale è di colore rosso ed
è sonoro: percioché Cristo nella sua passione divenne tutto rosso
del suo prezioso sangue, versato per le punture della corona delle
spine, per le battiture delle verghe del ferro, per le piaghe
fattegli nelle mani e ne’ piedi da’ chiovi co’ quali fu confitto in
su la croce, e per lo costato, quando gli fu aperto con la lancia. Fu
ancora questo serpente sonoro, in quanto la sua dottrina infino agli
estremi del mondo fu predicata e udita, e ancora si predica e
predicherá mentre il mondo durerá. E cosí in una medesima figura
avete il serpente significar Cristo e ‘l dimonio: Cristo in quanto
libera, il dimonio in quanto offende.]
[Leggesi ancora per la
pietra essere assai spesso nelle sacre lettere significato Cristo, e
talora l’ostinazion del dimonio. Dice il salmista: «Lapidem,
quem reprobaverunt aedificantes, hic factus
est in
caput anguli»:
e vogliono i dottori per questa pietra significarsi Cristo. Fu nella
edificazion
del
tempio di Salomone piú volte da’ maestri che ‘l muravano provato di
mettere, tra l’altre molte pietre che v’erano, una pietra in lavorio,
né mai si poterono abbattere a porla in parte dove paresse loro che
ella ben risedesse; ultimamente, provandola ad un canto, il quale
congiugneva due diverse pareti del tempio, trovarono questa pietra
ottimamente farsi in quel canto, e nella congiunzion de’ due pareti.
Vogliono adunque i dottori questi due pareti avere a significare due
popoli de’ quali Cristo compuose il tempio suo, de’ quali l’uno fu di
parte de’ giudei e l’altro fu de’ gentili, de’ quali Cristo, come che
due pareti fossero, fece una chiesa. Significano ancora le due pareti
i due Testamenti, il Nuovo e ‘l Vecchio, alla congiunzion de’ quali
solo Cristo fu sofficiente, in quanto il suo nascimento, la sua
predicazione e la sua passione furon quelle che apersero i segreti
misteri del Vecchio Testamento, velati da dura corteccia sotto la
lettera, e cosí quegli per opera congiunse con la sua dottrina, la
qual noi leggiamo nel Nuovo Testamento; e cosí potete veder qui per
la pietra significarsi Cristo. Oltre a questo, si legge
nell’Apocalissi: «Substulit
angelus lapidem quasi
molarem
et misit in mare»,
per la qual pietra vogliono i dottori, s’intendano i pessimi e
malvagi
uomini.
Ed Ezechiel dice: «Auferam
eis cor lapideum»,
per la quale intendono i dottori la durezza della infedelitá. E il
salmista dice: «Descenderunt
in profundum, quasi lapides»,
intendendo per questa pietra il peso e la gravezza del peccato.]
[E però, senza por piú
esempli, potete vedere, com’è detto, una medesima cosa avere diversi
sensi e diverse esposizioni: il che, come delle figure del Vecchio
Testamento addiviene, cosí similmente addiviene delle fizioni
poetiche, le quali significano quando una cosa e quando un’altra.]
[Ora si suole intorno a
queste esposizioni spesse volte dire per li laici la Scrittura avere
il naso di cera, e perciò i predicatori e i dottori, secondo che lor
pare, torcerlo ora in questa parte e ora in altra. La qual cosa non è
vera: percioché la Scrittura di Dio non ha il naso di cera, anzi
l’ha di diamante, del quale non si può levare, né vi si può
appiccare alcuna cosa, né si può rintuzzare, sí come quella la
quale è fondata e ferma sopra pietra viva, e questa pietra è
Cristo: ma puossi piú tosto dire questi cotali avere il cuore, lo
‘ntelletto e lo ‘ngegno di cera, e perciò vedere con gli occhi
incerati, e come son fatti eglino pieghevoli ad ogni dimostrazione
vera e non vera, cosí par loro sia fatta la Scrittura; non
conoscendo che la varietá de’ sensi è quella che n’apre la veritá
nascosa sotto il velo delle cose sacre, la quale noi aver non
possiamo, né potremmo, se sempre volessimo ad una medesima cosa dare
un medesimo significato. Non si dovranno alcuni maravigliare, se in
altra parte Cerbero significò il vizio della gola, e in questa gli
s’attribuisce la guardia delle ricchezze.]
[Lez.
XXX]
Ma, accioché noi alle
spezie de’ due peccati ci deduciamo, dico che, secondo che i poeti
scrivono, ne’ tempi che Saturno regnò, fu una etá tanto laudevole,
tanto piacevole e tanto, a coloro che allora vivevano, graziosa e
innocente, che essi la chiamarono, come altra volta è detto, l’«etá
dell’oro». E, quantunque essi vogliano quella in ciascuno atto umano
essere stata virtuosa, intorno all’appetito delle ricchezze del tutto
la discrivono innocua. Percioché essi dicono, regnante Saturno
predetto, tutti i beni temporali, avvegnaché pochi e rozzi fossero,
essere stati comuni a ciascheduno, e perciò non essersi allora
trovato alcuno che servo fosse, o che in ispezialitá alcun
mercennaio servigio facesse; ciascuno era e signore e servo di sé
parimente, né era campo alcuno che da alcun termine o fossa o siepe
segnato fosse; alcuno armento non era, che d’esser piú d’uno che
d’un altro si conoscesse; di niuna pecunia era notizia, sí come di
quella che ancora non era stata da alcuna stampa segnata; né
mercatante, né navilio o alcuna altra cosa, per la quale apparer
potesse alcuno in singularitá avere appetito di possedere quello che
agli altri non fosse comune, si conoscea. E per questo vogliono, e
meritamente, in que’ secoli il mondo avere avuta lieta pace e
consolata, né alcun vizio ancora esser potuto entrare nelle menti
de’ mortali. La quale benignitá e di Dio e della natura delle cose,
se continuata fosse stata da noi, come mostrata ne fu ne’ primi tempi
per doverla seguire e continuare, non è dubbio alcuno [che dove
avendola lasciata, e preso altro cammino, e per quello i vizi ne
trasviano allo ‘nferno] che noi, dopo riposata vita mortale, non
fossimo similmente saliti all’eterna. Ma, poi che, tra tanta
simplicitá, tra tanta innocenzia nella vita piena di tranquillitá,
[essendone operatore il nemico dell’umana generazione,] furon questi
due pronomi, «mio» e «tuo», seminati, tanto il santo ordine si
turbò, che grandissima parte di quegli, li quali a dovere riempiere
in paradiso le sedie degli angioli ribelli creati furono e sono,
rovinano ad accrescere il loro numero in inferno.
Entrato adunque co’ due
pronomi il veleno pestifero, del voler ciascuno piú che per bisogno
non gli era, nelle menti degli uomini, si cominciarono i campi a
partire con le fosse, a raccogliere nelle proprie chiusure le greggi
e gli armenti, a separare l’abitazioni e a prezzolar le fatiche; e,
cacciata la pace e la tranquillitá dell’animo, entrarono in lor
luogo le sollecitudini, gli affanni superflui, le servitudini, le
maggioranze, le violenze e le guerre: e, quantunque con onesta
povertá alcuni vincessero e scalpitassero un tempo l’ardente
desiderio d’avere oltre al natural bisogno, non poté però
lungamente la vertú de’ pochi adoperare, che il vizio de’ molti non
l’avanzasse. E, non bastando all’insaziabile appetito le cose poste
dinanzi agli occhi nostri e nelle nostre mani dalla natura, trovò lo
‘ngegno umano nuove ed esquisite vie a recare in publico i nascosi
pericoli: e, pertugiati i monti e viscerata la terra, del ventre suo
l’oro, l’ariento e gli altri metalli recarono suso in alto; e
similmente, pescando, delle profonditá de’ fiumi e del mare tirarono
a vedere il cielo le pietre preziose e le margherite; e non so da
quale esperienza ammaestrati, col sangue di pesci e coi sughi
dell’erbe trasformarono il color della lana e della seta; e,
brevemente, ogni altra cosa mostrarono, la qual potesse non saziare,
ma crescere il misero appetito de’ mortali. Di che Boezio nel secondo
libro Della
consolazione,
fortemente dolendosi, dice:
auri
qui pondera tecti
gemmasque
latere volentes
pretiosa
pericula fodit?
Ma, poiché lo splendor
dell’oro, la chiaritá delle pietre orientali e la bellezza delle
porpore fu veduta, in tanto s’acceser gli animi ad averne, che, con
abbandonate redine, per qualunque via, per qualunque sentiero a quel
crediam pervenire, tutti corriamo; e in questo inconveniente, non
solamente ne’ nostri giorni, ma giá sono migliaia di secoli, si
trascorse; e cosí la prima semplicitá e l’onesta povertá e i
temperati disidèri scherniti, vituperati e scacciati, ad ogni
illicito acquisto siam divenuti. Per la qual cosa l’umana caritá, la
comune fede e gli esercizi laudevoli, non solamente diminuiti, ma
quasi del tutto esinaniti sono; e, che è ancora molto piú
dannevole, con ogni astuzia e con ogni sottigliezza s’è cercato e
cerca continovo l’odio di Dio: pensando che dove noi dobbiam lui
sopra ogni altra cosa amare, onorare e reverire, noi l’oro e
l’ariento, i campi e l’umane sustanze in luogo di lui amiamo,
onoriamo e adoriamo. Laonde segue che, per lo non saper por modo
all’appetito, e non sapere o non volere con ragione spendere
l’acquistato, morendo ci convien qui lasciare quello che noi ne
vorremmo portare, e portarne quello che noi vorremmo poter lasciare;
e col doloroso incarico delle nostre colpe, in eterna perdizione,
dalla divina giustizia a voltare i faticosi pesi, come l’autore ne
dimostra, mandati siamo.
E, accioché meglio si
comprenda la gravitá di questa colpa, e quello che l’autore intende
in questa parte di dimostrare; e che l’uomo ancora si sappia con piú
avvedimento dalla meglio conosciuta colpa guardare: piú
distintamente mi pare che sia da dire che cosa sia e in che,
brievemente, consista questo vizio.
adunque
l’avarizia, secondo che alcuni dicono, «auri
cupiditas»,
cioè disiderio d’oro. San Paolo dice (Ad
Ephaesios,
V): «Avaritia
est idolorum servitus».
E, secondo la sentenza d’Aristotile, nel quarto dell’Etica,
l’avarizia è difetto di dare ove si conviene, e soperchio volere
quello che non si conviene. Che l’avarizia sia cupiditá d’oro, in
parte è giá dimostrato, e piú ancora si dimostrerá appresso; che
ella sia un servire agl’idoli, seguendo la sentenza dell’apostolo,
assai bene il dimostra san Geronimo in una sua pistola a Rustico
monaco, dove dice: «Æstimato
malo pondere
peccatorum,
levius alicui videtur peccare avarus quam idolatra; sed non
mediocriter errat. Non enim gravius peccat qui duo grana thuris
proiicit super altare Mercurii, quam qui pecuniam avare, cupide et
inutiliter congregat: ridiculum videtur quod aliquis iudicetur
idolatra, qui duo grana thuris offert creaturae, quae Deo debuit
offerre, et ille non iudicetur idolatra, qui totum servitium vitae
suae, quod Deo debuit offerre, offert creaturae».
Che ella sia difetto di non dare ove si
conviene,
e soperchio volere quello che non si conviene, dimostrerá il
seguente trattato.
Sono adunque alcuni, li
quali, non essendo loro necessitá, in tanto disiderio s’accendono di
divenir ricchi, che il trapassar l’Alpi e le montagne e’ fiumi, e
navigando divenire alle nazioni strane, tirati dalla speranza e
sospinti dal disiderio, par loro leggerissima cosa; avendo del tutto
in dispregio ciò che Seneca intorno a queste fatiche scrive a
Lucillo, dove dice: «Magnae
divitiae sunt, lege
naturae,
composita paupertas. Lex autem illa naturae scis quos terminos nobis
statuat: non exurire, non sitire, non algere; ut famem sitimque
depellas, non est necesse superbis assidere liminibus, nec
supercilium grave et contumeliosam etiam humilitatem pati; non est
necesse maria tentare, nec sequi castra; parabile est quod natura
desiderat et appositam. Ad supervacua sudatur: illa sunt quae togam
conterunt, quae nos senescere sub tentorio cogunt, quae in aliena
litora impingunt. Ad manum est, quod sal est: qui cum paupertate bene
convenit, dives est».
E se questi cotali fossono
contenti
quando ad alcun convenevole termine pervenuti sono, o fossero
contenti di pervenire a questo termine con onesta fatica e laudevole
guadagno, forse qualche scusa il naturale appetito, il quale abbiamo
infisso, d’avere, gli troverebbe; ma, percioché, a questo, modo non
si sa porre, tutti nel miserabile vizio
trapassiamo, cioè in soperchio volere piú che non si conviene. È
il vero che il trapassar per questa via il convenevole par
tollerabile, quando a quelle che molti altri tengono si riguarda.
Sono i piú sí
offuscati dall’appetito concupiscibile, che ogni onestá, ogni
ragione, ogni dovere cacciano da sé, in dover per qualunque via
ragunare, non solamente piú che non bisogna ad uno, ma ancora piú
che non bisognerebbe a molti: e, per pervenire a questo, altri si
dánno senza alcuna coscienza a prestare ad usura, altri a rubare e
occupare con violenza l’altrui, altri ad ingannare e fraudolentemente
acquistare, e con altri esercizi simili, non piú d’infamia che di
fama curando, si sforzano le lor fortune ampliare. Contro a questi
cotali dice Tullio nel libro terzo Degli
offici:
«Detrahere
igitur alteri aliquid, et hominem hominis incommodo suum commodum
augere, magis est contra naturam, quam mors, quam paupertas, quam
dolor, quam caetera, quae possunt aut corpori accidere, aut rebus
aeternis»,
ecc.
Sono nondimeno alcuni
altri, li quali pare che prima
facie
vogliano e ingegninsi d’avere piú che il bisogno non richiede, li
quali sono a distinguere da questi, percioché, dove i predetti sono
pessima spezie d’avari, quelli, dei quali intendo di dire, non si
posson con ragione dire avari, né sono. Son di quegli li quali, in
nulla parte passato il dovere, con diligenzia s’ingegneranno di fare
che i lor campi loro abbondevolmente rispondano: questo è giusto
disiderio e giusta operazione, quantunque ella trapassi il bisogno,
percioché quel piú in assai cose commendabili si può poi a luogo e
a tempo adoperare. Alcuni altri, per non stare oziosi, con ogni
lealtá faranno una loro arte, alcuna mercatanzia, li quali,
quantunque piú che lor non bisogna avanzin di questa, non sono
perciò da reputare avari. Altri s’ingegnano di riscuotere e di
racquistare quello o che hanno creduto o che hanno prestato del loro
ad altrui: né questo è da dire avarizia, quantunque sia piú che
quel che bisogna a chi il raddomanda. E similmente sono alcuni altri,
li quali col sudore e con la fatica loro, o per prezzo o per
provvisione si fien messi al servigio d’alcun altro e con fede
l’avranno servito: il domandar questo, e il volerlo, niuna ragion
vuole che sia reputata avarizia.
È, oltre alla
predetta, la seconda spezie d’avarizia, la quale consiste in difetto
di dare dove e quanto si conviene; e in questa quasi tutta
l’universitá degli uomini pecca. Sonne alcuni, che, poi che per loro
opera o per l’altrui sono divenuti ricchi, sono sí fieramente
tenaci, che, non che pietá o misericordia gli muova a sovvenire
eziandio d’una piccola quantitá un bisognoso, ma a’ figliuoli, alle
mogli e a se medesimi son sí scarsi, che, non che in altro si
ristringano, ma essi né beono né mangiano quanto il naturale uso
disidera; e dell’altrui prenderebbono, se loro dato ne fosse. Alcuni
altri ne sono, li quali né onore né dono voglion ricevere da
alcuni, per non avere a dare o ad onorare.
Alcuni altri ne sono,
li quali non solamente alle loro vigilie o a’ cassoni ferrati li loro
tesori fidano, ma, fatte profondissime fosse ne’ luoghi men sospetti,
gli sotterrano: di che segue assai sovente, come essi vivendo non ne
hanno avuto bene, cosí dopo la morte loro non ne puote avere alcun
altro. E pallian questi cotali la lor miseria col dire: noi siamo
solenni guardatori del nostro, accioché alcuno bisogno non ne
costringa a dimandar l’altrui, o a fare altra cosa che piú disonesta
fosse che l’avere ben guardato il suo. E di questi cotali sono alcuni
piú da riprendere che alcuni altri; sí come noi veggiamo spesse
volte avvenire che alcuno per ereditá diverrá abbondante, senza
avere in ciò alcuna fatica durata, e nondimeno sará piú tenace che
se per sua industria o procaccio ricco divenuto fosse: il che, oltre
al vizio, pare una cosa mirabile, percioché in loro non dovrebbe
avvenir quello che in coloro avviene, li quali con suo grandissimo
affanno hanno ragunato quello che essi poi con sollecitudine
guardano; e ciascuno naturalmente, secondo che dice Aristotile, ama
le sue opere piú che l’altrui, come i padri i figliuoli e i poeti i
versi loro. E di questi medesimi si posson dire essere i cherici, ne’
quali è questo peccato tanto piú vituperevole, quanto con men
difficultá l’ampissime entrate posseggono, non di loro patrimonio,
non di loro acquisto pervenute loro; e, oltre a ciò, con men ragione
le ritengono, percioché i loro esercizi deono essere intorno alle
cose divine, all’opere della misericordia e di ciascuna altra pietosa
cosa: deono stare in orazione, digiunare, sobriamente vivere, e
dar di sé buono esemplo agli altri in disprezzare le cose temporali
e ‘l mondo, e seguire con povertá le vestigie di Cristo, accioché,
bene adoperando, appaiano le loro opere esser conformi alla dottrina.
Le quali cose come essi le fanno, Iddio il vede.
È, appresso, questo
vizio meno abbominevole in una etá che in un’altra, percioché
l’essere un giovane avaro, senza dubbio non riceve scusa alcuna,
percioché l’etá del giovane è di sua natura liberale, sí come
quella che si vede forte e atante ne’ bisogni sopravvegnenti, ed è
piena di mille speranze e d’altrettanti aiuti, e molte vie o vede o
le par vedere da potere risarcire quello che speso fosse, o
d’acquistar di nuovo; il che ne’ vecchi non puote avvenire, percioché
essi, li quali il piú sono astuti e avveduti, non si veggono,
procedendo avanti nel tempo, rimanere alcuno aiuto né amico, se non
le sustanze temporali; e in contrario si veggono ogni dí pieni di
bisogni nuovi e inopinati, e similmente s’accorgono che, essendo essi
delle dette sustanze abbondevoli, non mancar loro l’essere serviti e
aiutati e avuti cari, da coloro spezialmente li quali sperano,
secondo il loro adoperare verso loro, doversi nella fine dettare il
testamento; dove spesso, se essi senza denari, senza derrate sono,
non che da’ piú lontani, ma dalle mogli, da’ figliuoli, da’ fratelli
sono scacciati, ributtati e avviliti e avuti in dispregio. La qual
paura se considerata fia, non sará alcuno che si maravigli se essi
son tenaci e ancora cupidi d’avanzare, se il come vedessero.
Contro a costoro
gridano la dottrina evangelica, i santi, i filosofi e’ poeti. Leggesi
nell’Evangelio
di Luca, capitolo quinto: «Vae
vobis, divitibus!»;
e nella Canonica
di san Iacopo, capitolo quinto: «Agite
nunc, divites, plorate ululantes in miseriis, quae evenient vobis»;
e nello Evangelio:
«Mortuus est dives, et sepultus est in inferno».
Ed Abacuc, capitolo secondo, dice: «Vae
qui congregat non sua!»;
ed esso medesimo, capitolo decimo: «Vae
qui congregat avaritiam malam domui suae!»;
e l’Ecclesiastico,
decimo: «Avaro
nihil est scelestius».
E santo Agostino dice: «Vae
illis, qui vivunt ut augeant res perituras, unde aeternas amittunt!»;
ed esso medesimo: «Maledictus
dispensator avarus, cui largus est Dominus».
E Seneca a Lucillo, epistola diciassettesima, scrive:
«Multis
parasse divitias, non finis miseriarum fuit, sed mutatio».
E Tullio in
primo Officiorum:
«Nihil
est tam angusti animi parvique, quam amare divitias; nihil honestius
magnificentiusque, quam pecuniam contemnere, si non habeas; si
habeas, ad beneficentiam liberalitatemque conferre».
E
Virgilio, nel terzo dell’Eneida:
…
quid non mortalia pectora cogis,
auri
sacra fames?
E
Persio scrive:
Discite,
o miseri, et causas cognoscite rerum:
quis
modus argento, quid fas optare, quid asper
utile
nummus habet? ecc.
E
Giovenale ancora dice:
Sed
quo divitias haec per tormenta coactas?
Cum
furor haud dubius, cum sit manifesta phrenesis,
ut
locuples moriaris, egenti vivere fato, ecc.
Mostrato che cosa sia
avarizia e in che pecchi l’avaro, percioché in quel medesimo luogo e
tormento sono i prodighi tormentati, è sotto brevitá da vedere che
cosa sia prodigalitá e in che il prodigo pecchi. È prodigalitá,
secondo che Aristotile vuole nel quarto dell’Etica,
l’uno degli estremi della liberalitá, opposito all’avarizia; e, cosí
come l’avarizia consiste in tenere dove e come e quando non si
conviene, e disiderare e adoperare d’avere piú che non si conviene,
e donde e da cui non si conviene; cosí la prodigalitá consiste in
donare e spendere quanto e come e dove non si conviene, e sta questo nel
trapassare ogni termine di debita spesa intorno a quella cosa, la
quale alcun far vuole o che si conviene: come ne’ vestimenti e negli
ornamenti veggiamo spesse volte alcuni trasandare, senza considerare
la qualitá, la nazione o lo stato suo, e l’entrate e’ frutti delle
sue possessioni; come ancora veggiamo nel convitare, nel quale senza
considerare a cui, o quando o dove il convito s’apparecchi, quella
spesa si fa per privati uomini, e di bassa condizione o di vile, che
se per alcun prencipe o venerabile uomo si facesse (come si legge
faceva il figliuolo d’Isopo filosafo, il quale, rimaso del padre
ricchissimo, per dar mangiare a’ suoi pari, comperava gli usignuoli,
i montanelli, i calderugi, i pappagalli, li quali gli uomini hanno
carissimi per lo lor ben cantare, e, quando grassi gli trovava, non
gli lasciava per danaio, e quegli arrostiti poi poneva innanzi a’
suoi convitati: per che talvolta avveniva essere per avventura
costato il boccone dieci fiorini d’oro), o come ancora si può fare
in cose assai. Il come consiste negli apparati: coroneranno alcuni le
sale, ornerannole di drappi ad oro, metteranno le mense splendide,
faranno venire i trombatori, i saltatori, i cantatori, i
trastullatori, i servidori pettinati, azzimati e leggiadri, non come
se scellerati e scostumati uomini vi dovesser mangiare, come le piú
volte fanno, ma re o imperadori; useranno ancora maravigliosa
sollecitudine, non dico nelle sale o nelle camere, ma nelle stalle e
ne’ cellieri, in far le mangiatoie intarsiate, i sedili iscorniciati,
e gli altri vasi a questi luoghi opportuni cosí esquisiti, come se
negli occhi sempre aver gli dovessero e al lor proprio uso
adoperargli. Peccasi ancora nel dove i doni e le spese smisuratamente
si fanno, cioè in cui e in quanto: le piú delle volte a ghiottoni,
a lusinghieri, a ruffiani, a buffoni, a femminette di disonesta vita
e di vilissima condizione si faranno doni magnifichi, li quali
sarebbono ad eccellentissimi uomini accettevoli; apparecchierannosi
loro cavalcature, farannosi letti e scalderannosi i bagni non
altramenti che se nobili e segnalati uomini dovessero pervenirvi: e,
se per avventura un valente uomo capitasse alle case di questi cotali
gittatori, con tristo viso, con leggieri spese malvolentieri ricevuto
vi fia. Ora in queste e in simili cose consiste il vizio della
prodigalitá e il prodigo gitta via il suo.
[Lez.
XXXI]
È, oltre a questo, il
prodigo in parte simile all’avaro, in quanto esso disidera, e con
ardente sollecitudine, d’acquistare; e in ciò posta giuso ogni
coscienza, ogni onestá e dovere, non cura come né donde si venga
l’acquisto: per che talvolta commette baratterie, frodi e inganni e
violenze; ma nol fa al fine che l’avaro, cioè per adunare, ma per
aver piú che gittar via. E se alcuni sono in questo vizio oltre ad
ogni misura peccatori, sono i cherici, cioè i gran prelati,
percioché essi il piú, senza avere alcun riguardo a Dio, né al
popolo loro commesso, o alla qualitá di colui in cui conferiscono,
concedono, anzi gittano gli arcivescovadi, i vescovadi, le badie e
l’altre prelature e benefici di santa Chiesa ad idioti, ebriachi,
manicatori, furiosi, d’ogni scelleratezza viziosi e cattivi uomini:
di che il popolo cristiano non solamente non è all’opportunitá
sovvenuto, ma dalle miserie e cattivitá di cosí fatti pastori son
trasviati allo ‘nferno, dietro al malo esempio.
Piace, oltre alle dette
cose, ad Aristotile, questo vizio della prodigalitá essere assai men
dannevole che quello dell’avarizia, percioché, non ostante che
dell’avarizia né l’avaro né alcun altro abbia alcun bene, dove
della prodigalitá pur n’hanno bene alcuni, quantunque mal degni,
pare la prodigalitá non debba potersi accrescere né divenir
maggiore, percioché il prodigo continuamente diminuisce le sustanze
sue, senza le quali la prodigalitá non si può mandare ad
esecuzione, e, diminuendosi, pare di necessitá si debba diminuire il
vizio: il che dell’avarizia non avviene, percioché l’avaro
continuamente accresce il suo, e, accrescendolo, accresce la
cupidigia dell’aver piú. Appresso, il vizio il quale si può in
alcuna maniera curare pare essere minore che quello che curar non si
può; e la prodigalitá si può curare, il che non si può
l’avarizia: e però pare la prodigalitá esser minor vizio che
l’avarizia. Il che, quantunque per una ragione di sopra mostrato sia,
si può ancora mostrar con due altre, cioè che la prodigalitá si
possa curare. Delle quali ragioni è l’una questa: curasi la
prodigalitá dal tempo, percioché, quanto l’uomo piú s’avvicina
alla vecchiezza, tanto diventa piú inchinevole a ritenere, per la
ragione di sopra mostrata, dove si disse perché i vecchi eran piú
avari che i giovani: e non è alcun dubbio le ricchezze naturalmente
disiderarsi, accioché l’uom possa per quelle sovvenire a’ difetti
umani; e perciò convenevole pare, quanto alcuno sente i difetti
maggiori, tanto piú inchinevole sia a quelle cose, per le quali si
puote o rimediare o sovvenire a quegli. La seconda ragione è,
percioché la povertá è ottima medica a cotale infermitá, e in
essa si perviene assai agevolmente da chi gitta e scialacqua senza
modo e senza misura il suo, sí come i prodighi fanno; e chi in essa
diviene, non può donar né spendere, e cosí si truova guerito di
questo vizio; il che dell’avarizia non avviene, come mostrato è.
Pare adunque, per le
ragioni dette, la prodigalitá essere minor vizio che l’avarizia. E
se cosí è, sará chi moverá qui una question cosí fatta: se la
prodigalitá è minor vizio che l’avarizia, perché dimostra qui
l’autore essere in igual tormento puniti i prodighi e gli avari,
conciosiacosaché il minor vizio meriti minor pena? Puossi a questa
cosí rispondere: che il vizio della prodigalitá non è in sé
minore che l’avarizia, percioché, dove l’avarizia procede da
naturale appetito, pare che la prodigalitá abbia origine da
stoltizia, ch’è spezie di bestialitá. Laonde, se alcuna cosa di
questo vizio pare che diminuisca l’essere curabile, questa bestialitá
della stoltizia pare che il supplisca; e, oltre a ciò, quantunque
curabile paia questo vizio, egli non si cura né per volontá né per
opera laudevole del vizioso, e cosí per questo il vizioso non
merita; e similmente, quantunque cessata sia la cagione, e per
conseguente l’effetto, per le sopradette ragioni, nel prodigo, dove
il disiderio non cessi di quel medesimo adoperare, avendo di che, non
pare, non che curato sia, ma diminuito il vizio. E nelle nostre colpe
riguarda la divina giustizia non solamente l’opere, ma ancora la
volontá: e non pecca in assai cose meno chi vuole e non puote che
chi vuole e puote; e perciò, non diminuendosi l’abito preso del
vizio, non diminuisce il vizio nello abituato. Laonde
convenientemente segue in igual supplicio punirsi il prodigo e
l’avaro. E percioché questi due peccati sono radice e principio di
molti mali, agramente insieme puniti sono, accioché in eterno si
pianga l’avere per loro non solamente dimenticato Iddio, e in luogo
di lui avere adorati e onorati i denari, ma ancora vendutolo come
fece Giuda, e come molti altri fanno, che, giurando e spergiurando,
simoneggiando e ingannando, tutto il giorno il vendono; e l’aver
venduta la giustizia, corrotto le leggi, falsificati i testamenti, i
metalli e le monete, assediate le strade, commessi i tradimenti, i
furti, gli omicidii; l’esser lusinghiere divenuto e ad ogni malvagio
guadagno inchinevole; l’aver la loro verginitá, la pudicizia,
l’onestá e ogni vergogna posta giú, e l’esser divenute menandare,
maliose, venefiche e indovine.
La pena adunque
attribuita a questi peccatori è da vedere come sia conforme al
peccato. Come detto è, tutta la sollecitudine dell’avaro è in
ragunare e in tenere il ragunato e in guardarlo piú che si conviene;
e quella del prodigo è in procurare con ogni studio d’avere e di
male spender quello che aver puote: e però assai convenevolmente
pare che dalla divina giustizia puniti sieno nel continuo volgere
gravissimi pesi col petto, e con quegli l’avaro e ‘l prodigo
amaramente urtarsi e percuotersi insieme. Per lo quale atto è da
intendere che, come in questa vita, senza darsi alcun riposo, a
diversi e contrari fini faticarono, satisfacendo all’appetito loro e
in quello sentendo dannosa dilettazione; cosí in inferno perduti,
per grande afflizion di loro, son posti in continuo esercizio di
volger col petto pesi che sien loro faticosi e noiosi: e con quegli,
come a diversi fini, vivendo, affannarono, diverse opinioni
seguitando, cosí, l’uno incontro all’altro facendosi, si percuotano
e molestino, in lor maggior dolore la loro viziosa vita con ontoso
verso si rimproverino. E accioché nel tormento loro si dimostri essi
mai nella presente vita alcuna quiete non avere avuta, né doverla in
quella sperare, vuole la giustizia che il loro discorrimento a tanta
noia sia circulare.
Appresso, l’esser
queste due spezie di vizio poste sotto la giurisdizione di Plutone si
dee credere non esser fatto senza ragione. [Io vi mostrai di sopra
questo Plutone essere disegnato per lo padre delle ricchezze, e
quello che la sua cittá, la corte, i circustanti, il carro, lo
sterile matrimonio e il can tricerbero era da intendere: le quali son
tutte cose spettanti ed all’un vizio ed all’altro, se sanamente si
riguarderá.] E perciò, comeché l’autor non scriva questo dimonio
alcuna cosa adoperare in costoro, che sotto la sua giurisdizion son
dannati, nondimeno si può comprendere lui, cioè il suo significato
(oltre all’ontoso verso che l’una parte contro all’altra dice),
sempre con la sua presenzia raccendere nella memoria degli avari i
tesori, tanto amati da loro e per molte vie acquistati e con
vigilante cura guardati, essere stati da loro lasciati e, in un
punto, tutti i lor pensieri, tutte le loro speranze, tutte le lor
fatiche non solamente essere evacuate e vane, ma essi ancora esserne venuti a
perdizione. Per che creder si dee loro con vana compunzione piangere
e dolersi che, poiché pur da loro partir si doveano, non li aveano
con liberale animo a’ bisognosi participati: della qual cosa loro
sarebbe seguita eterna salute, dove essi, per lo non farlo, ne son
caduti in perpetua perdizione. E cosí similmente i prodighi, per
l’aspetto di Plutone si ricordano, se per caso alcuno loro uscisse di
mente, de’ loro tesori e delle loro ricchezze disutilmente, anzi
dannosamente spese, donate e gittate; e dove, bene e debitamente
spendendole, potevano acquistar quella gloria che mai fine aver non
dee, dove per lo contrario si veggiono in tormento e in miseria
sempiterna: la quale assidua ricordazione si dee credere esser loro
afflizion continua e incomparabile dolore, il quale con
inestinguibile fiamma sempre di nuovo accende le coscienze loro.
«Or discendiamo omai a
maggior pièta», ecc. Questa è la seconda parte principale di
questo settimo canto, nella quale, sí come nella esposizion testuale
appare, l’autore del cerchio quarto discende nel quinto. E avendogli
la ragion dimostrato che colpa sia quella del vizio dell’avarizia e
della prodigalitá, e che tormento per quella ricevano i dannati; in
questo quinto cerchio gli dimostra punirsi la colpa dell’ira e quella
dell’accidia. Le quali accioché alquanto meglio si comprendano, e
piú piena notizia s’abbia della intenzion dell’autore, è alquanto
da dichiarare in che questi due vizi consistano, e quindi verremo a
dimostrare come con la pena si confaccia la colpa.
Se noi adunque vogliam
sanamente guardare, assai leggermente potrem vedere che alcuno de’
quattro elementi non è, il quale sia tanto stimolato, tanto
infestato, né tanto percosso e rivolto dal cielo, dall’acqua e dagli
uomini, quanto è la terra. Questa nelle sue parti intrinseche è con
vari strumenti cavata e ricercata, accioché di quelle i metalli
nascosi si traggano, evellansi i candidi marmi, i durissimi porfidi e
l’altre pietre di qualunque ragione, facciansi cadere le fortezze
sopra gli alti monti fermate, e facciansi pervie quelle parti, le
quali da sé non prestavano leggermente l’andare; questa nella sua
superficie ora da’ marroni, ora da’ bómeri e ora dalle vanghe è
rivolta, cavata e rotta e d’una parte in un’altra gittata; questa da’
templi mirabili, dagli edifici eccelsi delle cittá grandissime è
oppressa, caricata e premuta; questa dagli animali, da’ carri, e da
ponderosissimi strascinii è attrita e scalpitata; questa dal mare,
da’ fiumi e da’ torrenti è rosa, estenuata e trasportata; questa
dalle selve, dall’erbe e dalle semente continue è poppata, sugata e
munta; questa è dagli incendi evaporanti arsa, dalle folgori
celestiali percossa e da’ tremuoti sotterranei dicrollata; questa dai
diluvi dilavata, da’ raggi solari esusta e da’ ghiacci ristretta.
Chi potrebbe assai pienamente raccontare le molestie, dalle quali
ella è senza alcuna intermissione offesa e malmenata? Né per tutte
le raccontate ingiurie, né per molte altre, leggiamo o veggiamo che
essa alcuna volta rammaricata si sia, o si rammarichi; tanta è la
sua umiltá costante e paziente. Per la qual cosa forse creder si
potrebbe esser piú tosto piaciuto al nostro Creatore d’aver di
quella il corpo dell’uom composto che d’altro elemento o d’altra
materia, accioché la natura di questa, della qual fu composto,
seguitando, fosse paziente, e con tolleranzia fermissima sostenesse
i casi per qualunque cagione emergenti.
Le quali cose mal
considerate da noi, non come térrei, ma quasi come se di fuoco
fossimo stati formati, chi per nobiltá di sangue, chi per
eccellenzia di dignitá, chi per altezza di stato, chi per sublimitá
di scienza, chi per abbondanza di ricchezze, chi per corporal forza,
chi per bellezza, chi per destrezza di membri, tanto fastidiosi
divenuti siamo, teneri e déscoli e impazienti, che per ogni
leggerissima cosa ci accendiamo; e, non potendo l’un dell’altro
sofferire i costumi, non solamente per ogni piccola ingiuria ci
adiriamo, ma come fiere salvatiche da’ cacciatori e da’ cani
irritate, in pazzo e bestial furore trascorriamo, tumultando,
gridando e arrabbiando. E cosí nelle tenebre dell’ignoranza
offuscati, spesse volte e noi e altrui in miseria quasi
incomportabile sospignamo. Di che, provocata sopra noi la divina ira,
avviene che la sua giustizia ne manda in parte, dove gli splendor
mondani e le ricchezze e le dignitá avute son per niente, e noi non
altramenti che porci siamo avviluppati, convolti e trascinati in
puzzolente e fastidioso loto, dove con misera ricordazione e
continua, senza pro, cognosciamo che noi eravam térrei, quando,
adirati, di percuotere il cielo non che altro ci sforzavamo. Alla
dimostrazione della qual cosa accioché deducendoci pervegnamo, prima
mi par di dimostrare in che questo vizio consista, che di procedere
ad altro; accioché per questa dichiarazione
sia meglio conosciuto, e, per conseguente, dal meglio conosciuto
meglio guardar ci possiamo, e, oltre a ciò, con men difficultá
veggiamo come attamente l’autor disegni dalla giustizia di Dio essere
alla colpa dato conveniente supplicio.
Dico adunque che,
secondo che ad Aristotile pare nel quarto dell’Etica,
che l’ira, la quale meritamente si dee reputar vizio, è un
disordinato appetito di vendetta; e perciò pare questa esser causata
da tristizia nata nell’adirato, per alcuna ingiuria ricevuta in sé o
in altrui di cui gli caglia o nelle sue cose, o falsa o vera che
quella ingiuria sia. E in tanto è questo appetito vizioso, in quanto
questi cotali iracundi si turbano verso coloro, verso li quali non è
di bisogno turbarsi, e per quelle cose per le quali turbar non si
deono, e quando turbar non si deono, e ancora piú velocemente che
non deono, e piú tempo perseverano in stare adirati che essi non
deono.
E di questi cotali
adirati o iracundi, secondo che Aristotile medesimo dimostra, son tre
maniere. La prima delle quali è quella d’alcuni, che, per ogni
menoma cosa che avviene, non che per le maggiori, solamente che loro
non sodisfaccia, subitamente s’adirano e gridano e prorompono in
furore; ma in essa non lungamente perseverano, quasi lor sia
bastevole d’aversi mostrati adirati, o perché subitamente vien lor
fatto di prender vendetta della cosa per la quale adirati si sono; e
cosí esalata l’ira, ritornano nella quiete prima. La qual cosa in
questi cotali è commendabile, quantunque non sia perciò stata la
colpa dell’adirarsi minore. E’ pare che in questa spezie d’ira sieno
fieramente inchinevoli coloro, li quali sono di complession
collerica, dalla velocitá o sottigliezza della quale par che venga
questa subitezza.
La seconda maniera è
quella di coloro li quali non troppo correntemente per ogni piccola
cagion s’adirano, ma pure in quella, dopo alquanto aver sofferto,
pervengono: l’ira de’ quali è sí pertinace e ferma, che non senza
difficultá si dissolve. E questi stanno lungamente adirati, servando
dentro a se medesimi l’ira loro, né quasi mai quella risolvono, se
della ingiuria, la quale par loro aver ricevuta, alcuna vendetta non
prendono. Né questa tengono ascosa senza lor gravissima noia,
percioché, quanto il fuoco piú si ristrigne in poco luogo, piú
cuoce; e perciò, mentre penano a sodisfare a questo loro disordinato
appetito, tanto servano l’ira e se medesimi affliggono e molestano.
Ed è questa ira men curabile in quanto è nascosa, percioché né
amico né altri può a questi cotali persuadere alcuna cosa, per la
quale questa ira nascosa si diminuisca o si lasci; per che segue
esser di necessitá o che per vendetta, o che per lunghezza di tempo,
nella quale ogni cosa diminuisce, ella intiepidisca e ismaltiscasi e
ritorni in niente. E son questi cotali non solamente a se medesimi
molesti, ma ancora alle lor famiglie, a’ compagni e agli amici, co’
quali essi, stimolati dalla turbazione intrinseca, vivere con alcuna
consolazione non possono. [E da questa spezie d’ira sono infestati
maravigliosamente quegli che son di complessione malinconica,
percioché in essi, per la grossezza dell’umor terreo, la impression
ricevuta persevera lungamente.]
La terza maniera di
questi iracundi sono alcuni, li quali, adirati, in alcuna maniera non
lasciano l’ira, né per consiglio d’alcuno, né per lusinga, né
ancora per lunghezza di tempo, senza aver prima presa vendetta
dell’offesa, la quale par loro avere ricevuta: e questi sono pessimi
adirati, percioché, come assai chiaramente veder si può, essi hanno
l’ira convertita in odio. [Della qual maladizione fieramente son
maculati i toscani, e tra loro in singularitá i fiorentini, li quali
per alcuno ammaestramento datoci non ci sappiamo recare a perdonare;
e, che ancora è molto peggio, mandandoci Domeneddio per questo il
giudicio suo sopra, tanto impazientemente il comportiamo, che di
questo male in molti altri strabocchevolmente trapassiamo,
bestemmiandolo, rinnegandolo e chiamandolo ingiusto; non volendoci
per alcuna maniera ricordare delle sue parole nello Evangelio, nel
quale egli, per farci al perdonare inchinevoli, per figura dimostra
di quel signore, il quale volle rivedere la ragione
dell’amministrazione che un de’ suoi servi aveva fatta de’ fatti
suoi. Trovò che ‘l servo gli doveva dare cento talenti, e però
comandò che esso, ogni sua cosa venduta, fosse messo in prigione,
infino a tanto che egli avesse interamente pagato: ma, pregandolo con
umiltá il servo gli perdonasse, impetrò rimessione del debito; e
poi liberato, fece, senza voler perdonare, prendere un suo conservo,
per dieci talenti che dar gli dovea, e metterlo in prigione. Il che
udendo il signore, che cento n’avea perdonati
a lui, il fece prendere e d’ogni suo bene spogliare e gittare nelle
tenebre esteriori, percioché verso il prossimo suo era stato
ingrato, non volendosi ricordare di ciò che esso avea dal suo signor
ricevuto. Alle quali cose se noi riguardassimo, cognosceremmo questo
signore essere Iddio Padre, e il servo che dar dovea i cento talenti
esser ciascheduno uomo: e perché possibile non ci era pagare il
debito, mandò di cielo in terra il Figliuolo, il quale con la sua
passione e morte ne liberò da cosí ponderoso debito. E noi poi, mal
grati di tanta grazia, non ci possiamo, né ci lasciamo recare a’
conforti di coloro che saviamente ne consigliano, a perdonare alcuna
ingiuria, quantunque menoma, l’uno all’altro: di che, privati d’ogni
nostro bene, siamo per giudicio di Dio gittati in casa il diavolo.]
Ma, quantunque l’uno
pecchi meno che l’altro di queste tre maniere d’iracundi, nondimeno
tutte offendono gravemente Iddio, sí nel non aver saputo porre il
freno della temperanza agli émpiti loro, e sí per la ragione detta
di sopra, e sí ancora per avere avuto in dispregio il comandamento
di Dio, dove nello Evangelio dice: «Mihi
vindictam et ego retribuam».
E per questo nell’ira sua divenuti e in quella morti, quello ne
segue, che poco davanti si disse, cioè che, dannati, siam mandati al
supplicio, il quale l’autore ne discrive.
nondimeno
questo vizio spesse volte non solamente per lo futuro supplicio
dannoso molto all’iracundo, ma ancora nella vita presente. Ercule,
adirato e in furor divenuto, uccise Megara, sua moglie, e due suoi
figliuoli; e Medea, adirata, similmente due suoi figliuoli, di
Giasone acquistati, uccise. Eteocle, re di Tebe, in singular
battaglia contro a Polinice, suo fratello, discese; Atreo diede tre
suoi nepoti mangiare a Tieste, suo fratello; Aiace telamonio, il
quale non avevan potuto vincere l’armi troiane, vinto dall’ira, se
medesimo uccise; Amata, moglie del re Latino, veduta Lavina, sua
figliuola, divenuta moglie d’Enea troiano, turbata si mise il laccio
nella gola, e divenne misero peso delle travi del real suo palagio.
Annibale cartaginese, chiaro per molte vittorie, per non poter
sofferire di venire alle mani de’ romani raddomandantilo al re
Prusia, incontro a sé adiratosi, preso volontariamente veleno, sí
morí. Che bisogna raccontarne molti? conciosiacosaché manifesto
sia, l’ira, poi che il consiglio della ragione ha tolto dell’uomo,
col furor suo molti n’abbia giá in miseria e detestabile ruina
condotti; li quali come che in questa vita e seco medesimi e con
altrui crudelmente si trattino, ne mostra l’autor nell’altra non
esser meglio dalla giustizia trattati, mostrandone loro essere nella
palude di Stige, torbida di fetido fango e orribile per lo suo
fervore e per lo fummo continuo, il quale da essa continuamente
esala, tuffati e pieni d’abominevole fastidio; e in quella non
solamente con le mani lacerarsi, ma ancora con la testa e con
ciascuno altro membro fieramente percuotersi, e co’ denti mordersi e
troncarsi le persone e stracciarsi tutti.
Sotto la corteccia
delle quali parole, mescolando il moral senso, spettante a noi che
vivi siamo, con lo spirituale, il quale a’ dannati appartiene, si può
vedere il dannoso costume degli iracundi in questa vita, e la gravosa
pena de’ dannati nell’altra. Il percuotersi con la testa, col petto e
co’ piedi niuna altra cosa è che un disegnare gl’impeti furiosi
degli iracundi, quando dal focoso accendimento dell’ira sono
incitati. Possiamo nondimeno intendere per la testa dell’iracundo i
pensieri, gl’intendimenti, le diliberazioni dell’iracundo, tutti
posti e dirizzati dietro al disiderio della vendetta: e questo,
percioché nella testa consistono tutte le virtú sensitive interiori
e ancora le ‘ntellettive, dalle quali sono formate le predette cose.
E percioché nel petto consistono le virtú vitali e le nutritive,
dobbiam sentire co’ petti offendersi gl’iracundi, non l’un l’altro,
ma se medesimi; in quanto, quando molto si pon l’animo intorno
all’effetto d’alcun disiderio, non si prende da colui, che cosí è
occupato, né la quantitá del cibo usata, né ancora con l’ordine
consueto, per che conviene che la virtú nutritiva sia intorno al suo
uficio talvolta molto impedita; dal quale impedimento séguita la
debolezza e il diminuimento delle virtú vitali: e cosí, mentre che
l’iracundo con tutto il suo disiderio sta inteso a doversi
dell’ingiuria ricevuta vendicare, offende piú se medesimo che ‘l
nemico. E cosí ancora per li piedi dobbiamo intender le affezioni di
qualunque persona; percioché, sí come i piedi portano il corpo,
cosí l’affezioni menano l’animo e son guida di quello: e percioché
tutte le affezioni dell’iracundo sono pronte e inchinevoli a dover
nuocere a colui o a coloro contro a’ quali è adirato, dice qui
l’autore gl’iracundi co’ piedi offendersi.
Il troncarsi coi denti
le carni e levarsele con essi a pezzo a pezzo è efficacissima
dimostrazione di quanta potenzia sia l’impeto di questo vizio, poiché
non solamente offusca l’intelletto e la ragione nell’adirato, ma
ancora il priva del senso corporale. Il che se non fosse, basterebbe
all’adirato l’aversi morso una sol volta; percioché il dolore
ricevuto di quella il farebbe rimanere di piú volte mordersi; dove
noi possiamo avere udito e veduto essere stati alcuni di tanta e sí
furiosa ira accesi, che in se medesimi, non potendo quel che
disiderano, come cani rabbiosi rivoltisi, co’ denti troncarsi le
proprie carni delle mani e delle braccia, e poi sputarle. E questo
medesimo ancora sono stati di quegli che, avendone il destro, hanno
adoperato nelle persone state odiate da loro: sí come ne scrive
Stazio, nel suo Thebaidos, di Tideo, amico di Polinice, il quale,
sentendosi essere stato fedito a morte da uno chiamato Menalippo, con
furia domandò d’averlo, e ultimamente, non senza gran zuffa e morte
di molti, essendo stato Menalippo nel mezzo della battaglia preso e
menato dinanzi da lui, al quale poca vita restava, come un cane
rabbiosamente co’ denti gli si gittò addosso, e in questo bestiale
atto, piú che umano, morí egli e uccise il nemico.
L’essere in quella
padule fitti, la qual dice calda, nera e nebulosa e piena di loto,
assai ben si può comprendere la tristizia esser causativa dell’ira;
percioché, se quelle cose che avvengono, delle quali l’uomo s’adira,
se esse non ci contristassono, senza dubbio noi non ci adireremmo, e
cosí per l’esser contristati ci adiriamo: e perciò, accioché i
miseri iracundi sieno nel vizio loro medesimo puniti e afflitti, e
per quello senza pro riconoscano sé dovere avere con pazienza
schifata la tristizia, donde la loro ira nacque; in questa padule di
Stige, la quale è interpretata «tristizia», demersi bollono, e in
continua ira, in danno di se medesimi, come dimostrato è,
s’accendono.
L’essere la padule
calda e nera e nebulosa ne può assai ben dimostrare le tre qualitá
degl’iracundi, delle quali di sopra è detto: intendendo per la
caldezza del pantano la qualitá degl’iracundi, la qual dissi
subitamente accendersi, e ciò procedere dall’omor collerico, il
quale è caldo e secco. Per la nebula del padule possiamo intendere
l’altra qualitá degl’iracundi, la qual dissi lungamente servare
l’ira accolta, ma poi per lunghezza di tempo a poco a poco
risolversi, sí come veggiamo che le nebule de’ pantani, state quasi
salde e intere per buona parte del dí, pure alla fine si risolvono e
tornano in niente. La terza qualitá degl’iracundi, li quali dissi
non solamente non lasciar mai l’ira presa, ma quella convertita in
odio mai non dimettere, senza aver presa vendetta dell’offesa, la
quale gli parve aver ricevuto, e ciò procedere da complession
malinconica, cioè terrea, si può intender per la nerezza del
pantano, in quanto la terra di sua natura è nera, e la
interpetrazion del nome della malinconia si dice da «melan»,
graece,
il quale in latino suona «nero». E questi cotali malinconici son
sempre nell’aspetto chiusi, bulbi e oscuri, per che assai paion
conformarsi al colore del padule. O vogliam dire queste tre
proprietá, le quali l’autor discrive esser di questa padule, dover
significare tre proprietá degl’iracundi, cioè: per la nerezza, la
tristizia; per la nebula, la caligine dell’ignoranza, la quale l’ira
para dinanzi agli occhi dello ‘ntelletto, e cosí non può,
offuscato, vedere quello che sia da fare; e per lo caldo, il furor
dell’iracundo nel qual s’accende.
Per lo loto, nel qual
sono imbrodolati e brutti tutti, possiamo intendere la sozza e fetida
macula, la quale l’ira mette nelle menti di qualunque da essa vincere
si lascia, e ancora per gli effetti di quella, li quali macolano e
bruttano ogni onesta fama.
[Lez.
XXXII]
Resta a vedere del
vizio opposito all’iracundia, il quale in questa medesima padule di
Stige si punisce con gl’iracundi, cioè l’accidia. Alla quale
rimuovere delle menti umane, assai cose ne sono dalla natura delle
cose mostrate, oltre agli ammaestramenti datine dalla filosofia e
dagli uomini virtuosi: ma, se ogni altra cosa dinanzi dagli occhi del
nostro intelletto e de’ corporali levata ne fosse, assai forza
dovrebbe avere, al sospignerci ad esser ne’ tempi debiti in continuo
esercizio, il riguardare la bruna schiera delle formiche,
piccolissimi animali, nel tempo estivo, le quali, se noi ogni cosa
vorremo attendere, senza aver né astrolago o altro maestro, senza
vedere albero o prato fiorito, senza salire in alcun luogo rilevato a
considerare se incerate son le biade ne’ campi, o altra qualitá di
tempo, come talvolta fanno i naviganti; dentro dalla sua cava
standosi, cognoscono quando la state ne
viene, e quando sono le semente mature, e in quali contrade si
ricolgano; e allora, purgata la via e aperta l’uscita della sua cava,
la qual per ventura le piove del verno e i piedi degli animali aveano
riturata, a piena schiera tutte escon fuori, e senza guida alcuna,
tutte si dirizzano all’aie, dove i lavoratori le biade segate
ragunano e battono e mondano, e a’ granai ne’ quali quelle ripongono,
e a qualunque altro luogo per li campi fosser per ventura ristrette.
E quivi ottimamente dalla lor natura ammaestrate, discernendo dalla
paglia le granella, quello che possono prendono; e, vòlti i passi
loro, sollecitamente, senza aver chi le stimoli o solleciti altri che
se medesime, con quel che preso hanno, ritornano alla lor tana; e
quello salvamente riposto, senza alcuna intermissione, quanto il sole
sta sopra la terra, ritornano al cominciato uficio. Né son contente
d’un sol dí essersi faticate, ma, mentre il caldo dura, ciascuna
mattina col sole levandosi, ritornano al loro esercizio; mostrando
assai bene, in quello, essere a loro manifesto quello nel verno non
potere operarsi, sí per le piove continue, e sí perché quello che
la state truovano in molte parti e presto è aperto loro, quello il
verno troverebbono in poche e serrato; avvedendosi ancora che, se
cosí nell’abbondanza della state fatto non avessono o non facessono,
convenirle di verno perir di fame.
La qual cosa sanamente
riguardata, non dubito che a ciascuno non prestasse utile
dimostrazione contro all’oziositá, e contro al porre indugio alle
cose opportune e a dovere, quanto è per lo corpo, sí adoperare
nella nostra fervida etá, cioè nella giovinezza, che poi, vegnendo
nella fredda e impotente vecchiezza, si potesse senza vergogna e
senza stento aspettar l’ultimo giorno, quando a Dio piacesse
mandarlo: e, oltre a ciò, per la futura vita, mentre prestato n’è
nella presente vita, adoperare che, vegnendo il freddo della morte,
noi possiamo avere lieto e glorioso luogo intra’ beati, e non esser
gittati nella morte perpetua dello ‘nferno, dove sará pianto e
stridor di denti. Ma, percioché l’addormentato intelletto di molti,
né per disciplina, né per sollecitudine, né per utili esempli non
si può destare né inducere da alcuni stimoli a volere la fatica, la
solerzia, il discreto esempio del piccolo animale, non che imitare ma
pur riguardare; avviene spesso che questi cotali in questa vita
vengono in estrema miseria, e nell’altra tuffati bollono nella palude
di Stige, come nel presente canto ne discrive l’autore.
E accioché piú
chiaramente si comprenda che vizio questo sia, e per conseguente
meglio ce ne sappiamo guardare, ed, oltre a ciò, piú leggermente
vedere quello che voglia l’autor sentire per la pena loro attribuita
dalla divina giustizia; dico [che l’accidia], secondo che nel quarto
dell’Etica
mostra ad Aristotile di piacere, colui essere accidioso, il quale
dove bisogna non s’adira, dicendo essere atto di stolto il non
adirarsi, dove e quanto e in quel che bisogna; percioché pare che
questo cotale non abbia sentimento d’uomo, e però di nulla cosa
s’attristi, e cosí non essere vendicativo: e aggiugne che sostenere
lo ‘ngiuriante e il non aver gli amici in prezzo sia atto servile.
Della qual sentenza considerata bene la cagione, credo n’apparirá
ogni altra cosa che all’accidioso s’attribuisce dover nascere e
venire. Che dobbiam noi credere altro di questa rimession d’animo
dell’accidioso, se non quella procedere da un torpore, da una viltá,
da una oziositá di mente, per le quali esso senza turbarsi sostiene
le ‘ngiurie? Se ciò avvenisse per umiltá, o per essere obbediente
a’ comandamenti di Dio, come molti santi uomini hanno giá fatto, non
potrebbe però senza alcuna perturbazion d’animo essere avvenuto;
percioché non può vittoria seguire, dove il nemico non è
comparito, e dove battaglia non è stata; e noi diciamo i santi
uomini essere stati vittoriosi nelle passioni. Turbasi adunque il
santo e savio uomo, quante volte vede o ode in sé o in altrui dire o
operare quello, che né dire né operare si convenga; ma prima
ch’egli lasci tanto avanti la perturbazion procedere, che ad atto di
peccato potesse pervenire, con umiltá e con buona pazienza vince la
turbazione, e di questa vittoria merita. Ma l’accidioso non è cosí;
percioché non per virtú, ma per cattivitá è paziente, e tutto
dimessosi per la viltá dell’animo suo all’ozio, in tutti i suoi
pensieri, in tutte le sue meditazioni s’attrista, ognora divenendo
piú vile, intanto che la sua vita, quasi non fosse vivo, trapassa; e
in essa dolorosa non è cosa alcuna, quantunque menoma, la quale esso
s’attenti di cominciare; e, se pur tanto lo ‘nfesta la necessitá che
egli alcuna ne cominci, nel cominciamento medesimo invilisce, sí
che, le piú volte intralasciatala, non la conduce alla fine. Il
tempo freddo il rattrappa, il caldo il dissolve, il giorno gli è
noioso e la notte grave; ciascheduna ora, e in qualunque stagione, ha
in sé, al giudicio del pigro,
alcuno impedimento intorno alle cose che occorrono da fare, e cosí
il tempo nuvolo e ‘l sereno. La cura familiare sempre gli peggiora
tra le mani; non visita, non sollecita le possession sue, non i
lavorator di quelle, non i servi, e l’essergli di quelle i frutti
diminuiti non se ne cura per tracutanza. Alle publiche cose non
ardirebbe di salire, alle quali se pur sospinto fosse per li meriti
d’alcun suo, come uno addormentato si starebbe in quelle; il letto,
le notti lunghissime e i sonni, non piú corti che quelle, gli sono
graziosissimo e disiderabile bene; la solitudine, le tenebre e il
silenzio prepone ad ogni dilettevole compagnia.
[Ma, posponendo gli
atti morali e alquanto parlando degli spirituali, non visita
gl’infermi, non visita gl’incarcerati, non sovviene di consiglio a’
bisognosi, non visita la chiesa, non onora il corpo di Cristo per non
trarsi il cappuccio, all’usanza di Fiandra, non si confessa a’ tempi,
non prende i sacramenti, non dispone né i fatti dell’anima né
quegli del corpo.]
Ma a che molte parole?
L’uomo si potrebbe stendere assai, volendo pienamente raccontare ogni
parte di questa miseria; ma, percioché disutile è la materia, in
poche conchiudendo le molte parole, dico che la vita dell’accidioso
è, quanto piú può, simigliante alla morte.
nondimeno
questo vizio origine e cagione di molti mali: di costui nasce non
solamente povertá, ma indigenzia e miseria, nella quale rognoso,
scabbioso, bolso, malinconico e pannoso si diviene; nasce ancor da
costui afflizion d’animo, odio di se medesimo e rincrescimento di
vita; nascene ignoranza di Dio, vilipension di virtú, perdimento di
fama e moltitudine di pensier vani; tiepidezza di spirito,
prolungazion d’opere e fastidio general d’ogni bene; e ultimamente,
dopo la trista vita, eterna perdizion dell’anima.
E percioché tutti gli
atti di coloro, li quali sono da questo vizio occupati, sono freddi,
torpenti e rimessi, e, in quanto possono, nascosi e occulti, gli fa
assai convenientemente l’autore stare nascosi e riposti, senza potere
esser veduti, nel fangoso fondo della misera palude bogliente, nera e
nebolosa; e in quella gorgogliare con la gola piena del fastidio di
quella, e piagnere e senza pro dolersi della vita trista e
nigligente, la qual menarono. Volendo per questo s’intenda
primieramente, per lo calor della padule, il calor della divina ira,
il quale, sí come contrario alla freddezza del lor peccato, gli
tormenta e punisce in gravissimo e intollerabile dolore. E per
l’essere la palude nera, vuol s’intenda la tenebrosa lor vita, e la
oscuritá delle loro opere, delle quali mai luce alcuna non apparve.
E per questo ancora vuole loro stare tuffati, sotterrati e occulti
sotto l’onde, accioché si comprenda loro nella presente vita non
essere per alcuna loro operazione stati conosciuti. L’essere la
padule nebulosa, o fumosa che vogliam dire, è a dimostrare la
caligine della ignoranza, della quale furono offuscati gli occhi
dello ‘ntelletto loro, li quali mai riguardar non vollono sé essere
uomini nati ad esercizio laudevole e non a detestabile ozio. L’avere
la strozza piena di fango, e gorgogliare, in quali cose il lor misero
adoperare si faticasse, il quale in alcuna altra cosa non si distese,
se non in pensieri e in meditazion malinconiche, le quali son di
natura terree, e, sí come grosse e fastidiose, hanno ad oppilare i
meati della chiarezza del suono della laudevole fama, della quale
niente curano gli accidiosi.