CANTO
TERZO
I
SENSO
LETTERALE
[Lez.
IX]
«Per me si va nella
cittá dolente», ecc. In questo canto ne racconta l’autore come alla
porta dello ‘nferno pervenissero, e come dentro ad essa fosse da
Virgilio menato, e quivi vedesse i cattivi miseramente afflitti, e
ultimamente pervenissero al fiume d’Acheronte. E dividesi questo
canto in due parti: nella prima mostra come alla prima porta dello
‘nferno pervenisse, e dentro a quella fosse da Virgilio menato; nella
seconda parte discrive quello che dentro della porta udisse e
vedesse. E comincia quivi: «Quivi sospiri, pianti ed alti guai».
Adunque nella prima
parte, continuandosi a quello che nella fine del precedente canto ha
detto, cioè come con Virgilio entrasse in cammino, dice dove
pervenne, cioè alla prima porta dell’entrata d’inferno; sopra la
qual, dice, vide scritto: «Per me», cioè per entro me, «si va
nella cittá dolente», cioè nella cittá di Dite, dolente in
perpetuo per li dannati spiriti li quali dentro vi sono; della qual
cittá, percioché pienamente se ne scriverá in questo libro
appresso nel canto ottavo, qui non curo di dirne alcuna cosa; «Per
me si va nell’eterno dolore», al quale dannati sono coloro li quali
muoiono nell’ira di Dio; «Per me si va tra la perduta gente». Dice
«perduta», percioché alcuna potenza di bene adoperare non è in
loro; e questi cotali meritamente si posson dir perduti. «Giustizia
mosse», a farmi: e la giustizia che ‘l mosse fu la superbia del
Lucifero, la quale meritò eterno supplicio; il quale Iddio volle
tanto da sé dilungare, quanto piú si potea, e perciò, nel centro
della terra gittatolo, quivi la sua prigione fece, e volle quella
similmente esser prigione di tutti quegli li quali contro alla sua
deitá operassero; «il mio alto Fattore», cioè Iddio; «Fecemi la
divina Potestate», cioè Iddio Padre, al quale è attribuita ogni
potenza; «La somma Sapienzia», cioè il Figliuolo, il quale è
sapienza del Padre, «e ‘l primo Amore», cioè lo Spirito santo, il
quale è perfettissima caritá, igualmente moventesi dal Padre e dal
Figliuolo. E cosí appare questa porta essere stata fatta dalla
Trinitá è a dimostrare che chi offende in alcuna cosa Iddio offenda
queste tre persone, e perciò da tutte e tre essere quello luogo
composto, dove gli offenditori in perpetuo fuoco sono dannati.
«Dinanzi a me»,
porta, «non fûr cose create Se non eterne». Cosí mostra questo
luogo essere stato prima creato da Dio che fosse creato l’uomo, il
quale, quanto è al corpo, non è eterno; e che fosse creato poi che
fu creato il cielo e la terra e gli angioli, i quali sono eterni. [E
percioché come parte degli angioli peccarono, che peccarono prima
che l’uomo fosse fatto, fu, come detto è, di presente creato questo
luogo in lor prigione e supplicio; quantunque i santi tengano questo
aere tenebroso essere pieno di quegli, come appresso piú
distesamente alquanto si dirá.] E in quanto l’autore dice qui
«eterne», favella di licenza poetica impropriamente, come assai
spesso si fa: percioché l’essere eterno a cosa alcuna non
s’appartiene, se non a quella la quale non ebbe principio né dee
aver fine, e questa è solo Iddio; gli angioli e le nostre anime, e
certe altre creature da Dio immediatamente create, e quantunque mai
fine aver non debbano, percioché ebber principio, non si deono
propriamente parlando dire «eterne», ma «perpetue». «Ed io
eterna duro», sí come opera creata da Dio senza alcun mezzo;
percioché per li dottori si tiene ciò, che immediatamente fu o sará
creato da Dio, è eterno. «Lasciate ogni speranza, o voi
ch’entrate», dentro di me, «quia
in inferno nulla est
redemptio»,
se ciò di potenza assoluta Iddio non facesse, come fece de’ santi
padri, li quali
ne
trasse quando giá risuscitato da morte spogliò il limbo.
«Queste parole»,
sopra dette, «di colore oscuro», conforme alla qualitá del luogo
nel quale per quella porta s’andava, «Vid’io scritte al sommo d’una
porta», cioè a quella per la quale in inferno s’entrava; «Perch’io»
(supple)
dissi: – «Maestro», Virgilio; e ben fa qui a chiamarlo «maestro»,
percioché a’ maestri si vogliono muovere i dubbi e da loro aspettar
le chiarigioni; «Il senso lor», cioè quello che dir vogliono, «m’è
duro», – cioè malagevole ad intendere.
«E
quegli», cioè Virgilio, «a me» (supple)
rispose, «come persona accorta», cioè intendente:
«Qui», cioè in
questa entrata, «si convien lasciare ogni sospetto», accioché
sicuro si vada; «Qui si convien ch’ogni viltá», d’animo, «sia
morta», cioè cacciata da colui il quale vuole entrare qua dentro.
E son queste parole prese dal sesto dell’Eneida,
dove la Sibilla dice ad Enea:
Nunc
animis opus, Aenea, nunc pectore firmo.
«Noi siam venuti al
luogo ov’io t’ho detto», cioè all’inferno, del quale vicino al fine
del primo canto gli disse; «Che vederai le genti dolorose, C’hanno
perduto», per li lor peccati, «il ben dell’intelletto», – cioè
Iddio, il quale è via, veritá e vita: [e il ben dell’intelletto è
la veritá, per la quale tutti per diverse vie ci fatichiamo, e pochi
alla notizia di quella pervengono].
«E poi che la sua mano
alla mia pose Con lieto viso, ond’io mi confortai». Qui assai
manifestamente n’ammaestra l’autore con che viso noi dobbiamo
mettere, chi ne segue, nelle dubbiose cose; e dice che dee esser con
lieto, percioché dal viso lieto del duca prende conforto e sicurtá
chi segue, dove, non avendolo lieto, coloro che a lui riguardano
assai leggiermente impauriscono e diventano vili: come noi leggiamo
le legioni romane, da’ contrari auspizi e dal viso di Flaminio
consolo turbato, invilite, da Annibale allato al lago Trasimeno
essere state sconfitte. Dice adunque di sé l’autore che, vedendo
nell’entrata di cosí dubbioso luogo lieto Virgilio, egli si confortò
tutto.
«Mi mise dentro alle
segrete cose». Segrete sono in quanto agli occhi mortali manifestar
non si possono, percioché cosí i tormenti, come i tormentati e i
tormentatori ancora tutti, son cose spirituali e invisibili a noi, e
quinci segrete; quantunque gli effetti di quelle, secondo che mostrar
si possono per iscritture e per ammaestramenti di santi uomini, tutto
il dí ci sieno aperti e palesati.
«Quivi sospiri, pianti
ed alti guai». Qui incomincia la seconda parte del presente canto,
nella qual dissi che si discrivea quello che l’autore nella entrata
dello ‘nferno avea veduto e udito. E dividesi questa parte in sette:
percioché nella prima l’autor pone molti dolorosamente dolersi;
nella seconda gli dichiara Virgilio chi questi sieno che cosí si
dolgono; nella terza discrive l’autore la pena dalla quale questi son
tormentati; nella quarta dice l’autore sé aver vedute molte anime
correre ad un fiume; nella quinta dice sé essere a questo fiume
pervenuto, e non averlo voluto passare dall’altra parte un nocchiere,
che tutti gli altri in una sua barca passava; nella sesta gli apre
Virgilio perché Carón non l’ha voluto passare; nella settima ed
ultima mostra l’autore sé, per un tremor della terra e poi da un
baleno, essere stato vinto e caduto. La seconda comincia quivi: «Ed
egli a me: – Questo misero modo»; la terza quivi: «Ed io che
riguardai»; la quarta quivi: «E poi ch’a riguardare»; la quinta
quivi: «Ed ecco verso noi»; la sesta quivi: «Figliuol mio, –
disse»; la settima ed ultima quivi: «Finito questo».
Dice adunque cosí:
«Quivi», cioè nella prima entrata dello ‘nferno, «sospiri, e
pianti». «Pianto» è quello che con rammarichevoli voci si fa,
quantunque il piú i volgari lo ‘ntendano ed usino per quel pianto
che si fa con lacrime. «E alti guai»: questi appartengono ad ogni
spezie di dolore e massimamente a quello che con altissime voci e
dolorose si dimostra; «Risonavan per l’aere senza stelle», cioè
oscuro, ed al cospetto del cielo chiuso, «Perch’io, al cominciar, ne
lagrimai». Ecco una delle fatiche dell’animo, la quale predisse nel
cominciamento del secondo canto gli s’apparecchiava. «Diverse
lingue», cioè diversi idiomi, per la diversitá delle nazioni dell’universo, le quali
tutte quivi concorrono; «orribili favelle», cioè spaventevoli,
come son qui tra noi quelle de’ tedeschi, li quali sempre pare che
garrino e gridino, quando piú amichevolmente favellano; «parole di
dolore», cioè significanti dolore, «accenti d’ira»; accento è il
profferere, il quale facciamo alto o piano, [acuto o grave o
circunflesso;] ma qui dice che erano d’ira, per la quale si sogliono
molto piú impetuosi fare che, senza ira parlando, non si farieno;
«Voci alte», per le punture della doglia, «e fioche»; suole
l’uomo per lo molto gridare affiocare; «e suon di man», come
soglion far le femmine battendosi a palme, «con elle», cioè con
quelle voci: le quali cose intra sé diverse, non melodia, come
soglion fare le voci misurate, ma «Facevano un tumulto», cioè una
confusione; «il qual s’aggira»; percioché il luogo è ritondo, ed
essendo da quel tumulto l’aere percosso, e non avendo alcuna uscita,
è di necessitá che per lo luogo s’aggiri e prenda moto circulare;
«Sempre in quell’aria, senza tempo tinta», cioè mutata per
contrarietá di venti o d’altro accidente, «Come la rena quando
turbo spira». Dimostra qui l’autore, per una breve comparazione, il
moto di quel tumulto, come sopra dissi, esser circulare, e di quella
forma che noi veggiamo talvolta muovere in cerchio la polvere sopra
la superficie della terra; e questo massimamente avvenire, quando un
vento, il quale si chiama da’ suoi effetti «turbo», spira. Il quale
non pare avere alcuno ordinato movimento, come gli altri hanno,
percioché non viene da diterminata parte, ma essendo la esalazion
calda e secca, ché dalla terra surge in alto, pervenuta alla
freddezza d’alcun nuvolo, e da quella a parte a parte cacciata,
diviene vento; il quale, lá dove s’ingenera, prende moto circulare,
e per questo non è universale, anzi è solamente in quella parte
dove generato è, intanto che in una medesima piazza noi il vedremo
in una parte di quella e non in un’altra; e, percioché la esalazione
è a parte a parte repulsa dal nuvolo, il veggiam noi per certi
intervalli far queste circulazioni sopra la terra. E questo vento,
come noi il chiamiamo «turbo», Aristotile il chiama «tifone»
nella sua Meteora,
dove chi vuole può pienamente vedere di questa materia.
«Ed io, ch’avea
d’orror», cioè di stupore, «la testa cinta», cioè intorniata; e
questo dice per lo moto circulare di quel tumulto; «Dissi: –
Maestro, che è quel ch’io odo?», che fa questo tumulto, «E che
gent’è», questa, «che par nel duol sí vinta?», – secondo che le
loro voci manifestano.
«Ed egli a me». In
questa seconda parte della sua divisione dichiara Virgilio all’autore
chi sien costoro de’ quali esso dimanda. «Ed egli», cioè Virgilio,
«a me» (supple)
rispose: – «Questo misero modo», il quale tu odi e del quale tu se’
stupefatto, «Tengon l’anime triste di coloro, Che visser senza
infamia», d’alcuna loro malvagia operazione, percioché, quantunque
buone non fossero, erano intorno a sí bassa e misera materia, che di
sé non davano alcuna cagion di parlare, e perciò si può dire che
senza infamia vivessero; «e senza lodo», cioè senza fama,
percioché, come del loro male adoperare è detto, il simigliante dir
si può se alcun bene adoperavano.
Ma da vedere è che
gente questa può essere. E, se io estimo bene, questa mi pare quella
maniera d’uomini, li quali noi chiamiamo «mentacatti» o vero
«dementi», li quali, ancora che abbiano alcun senso umano, per
molta umiditá di cerebro hanno sí il vigore del cuore spento, che
cosa alcuna non ardiscono d’adoperare degna di laude, anzi si stanno
freddi e rimessi, ed il piú del tempo oziosi, quantunque talvolta
sospinti sieno dal disiderio di dovere alcuna cosa adoperare; di che
quello segue che l’autore ne dice, cioè «Che visser senza infamia e
senza lodo».
«Mischiate sono»,
queste misere anime, «a quel cattivo coro». «Coro» [si dice
propriamente un’adunazion d’uomini, li quali in figura di cerchio
sieno congiunti insieme; o «coro» è detto quello luogo nel quale
stanno nelle chiese coloro che cantano, il quale ha figura di mezzo
cerchio: e qui si potrebbe prendere per ciascuno di questi due
significati, percioché, considerato il movimento di questi spiriti,
il quale è circulare, come appresso si dimostrerá, si può il loro
dir «coro»; e se per altro significato il vorrem prendere, quello
di costoro potrem dire «coro», cioè loro essere ordinati a modo di
coro, ma non a cantare, anzi a piangere miseramente e in eterno.]
«Cattivo» il chiama per la similitudine, la quale hanno quegli
spiriti con queste anime de’ cattivi, le quali con loro son
mischiate; e in tanto sono lor simili, in quanto non seppero
diliberare che farsi nel tempo della rebellione del
Lucifero, ma si stettero freddi e timidi, senza diliberare di tenersi
con Dio come doveano, o di seguire il Lucifero come non doveano.
«Degli angeli».
Questo nome angelo è derivato da un nome greco, cioè «aggelos»,
il quale in latino viene a dire «nunzio» o «ambasciadore» o
«messo»: e percioché essi quello oficio appo il diavolo fanno,
cioè d’esser mandati, che appo Iddio fanno i buoni angeli, quel nome
antico d’angeli ritenuto s’hanno e ritengono, quantunque sieno
divenuti dimòni [e, secondo che alcun santo vuole, questo nome non è
loro attribuito giammai, se non quanto sono in alcuna commissione
loro fatta da Dio; la qual finita, non si chiama piú angelo, ma
spirito beato].
«Che non furon
ribelli», (supple)
a Dio, «Né fûr fedeli a Dio, ma per sé fôro»: non tenner
costoro né con Dio né col diavolo.
[Ed accioché qui
alcuno per men che bene intendere non errasse, è da sapere non
essere state che due maniere di angeli, sí come il Maestro ne
dimostra nel secondo delle Sentenzie,
e di queste due l’una non peccò, e però appresso a Dio si rimase in
paradiso; l’altra che peccò, tutta fu gittata fuori di paradiso, e
cadde, e questo aere tenebroso propinquo alla terra riempié; e
questo affermano i santi esserne pieno. E da questi talvolta muovono
le tempeste e le impetuose turbazioni che nell’aere sono e in terra
discendono; e da questi dicono noi essere tentati e stimolati, e
venire quelle illusioni dalle quali i non molto savi son talvolta
beffati e scherniti. Concedono nondimeno talvolta di questi dimòni
discenderne in inferno ad infestare e tormentare l’anime dei dannati;
affermando questi cotali spiriti immondi al dí del giudicio tutti
dovere dalla divina potenza essere racchiusi in inferno. Ora] pare
qui che all’autor piaccia questi malvagi angeli essere di due spezie
divisi: delle quali vuole l’una aver men peccato che l’altra, in
quanto mostra questa spezie, che men peccò, vicina alla superficie
della terra essere rilegata; [e percioché la giustizia di Dio
secondo piú e meno punisce, non intende costoro al dí del giudicio
dover essere da Dio nel profondo inferno rilegati, come saranno gli
altri che molto piú peccarono.]
E però vuolsi questa
lettera che segue leggere in questo modo: «Cacciangli i cieli», da
sé: e segue incontanente la ragione perché, cioè «per non esser
men belli»; percioché i cieli sono bellissimi, ed intra l’altre
loro singulari bellezze hanno che in essi alcuna macula di colpa non
si truova, percioché in essi alcuna cosa non si riceve se non
purissima, ed essi furono purissimi creati da Dio; per che segue, se
essi ricevessero questa spezie d’angeli, la quale è viziosa, essi
maculerebbono la lor bellezza: e perciò, accioché questo non
avvenga, essi gli scacciano e dilunganli da loro. «Né il profondo
inferno gli riceve» [cioè riceverá; e ponsi qui il presente per lo
futuro, percioché, altrimenti leggendosi o intendendosi, parrebbero
le spezie degli angeli esser tre, la qual cosa sarebbe contro alla
cattolica veritá]; e dice «il profondo», a differenza del luogo
dov’e’ sono in inferno, che veggiamo gli pone nella piú alta parte
di quello. E appresso mostra la cagione perché dal profondo inferno
ricevuti non sieno, dicendo: «Ch’alcuna gloria», cioè piacere, «i
rei», angeli, li quali manifestissimamente furon ribelli, «avrebber
d’elli», – veggendoli in quel medesimo supplicio ch’essi [saranno].
E cosí appare non essere opera de’ ministri infernali che questi
angeli non sieno nel profondo inferno, ma della giustizia di Dio, la
quale non patisce che di cosa alcuna quegli spiriti maledetti possano
avere alleggiamento della pena loro.
«Ed
io: – Maestro», (supple)
dissi, «che è tanto greve», cioè qual tormento, «A lor, che lamentar
gli fa sí forte?» – cioè sí amaramente. «Rispose», cioè
Virgilio:
– «Dicerolti molto breve».
E dice cosí: «Questi»,
cattivi, che tu odi cosí dolersi, «non hanno speranza di morte»,
percioché manifesto è loro l’anime essere eterne; «E la lor cieca
vita», senza alcuna luce di merito, «è tanto bassa», cioè tanto
depressa, avendo riguardo che in inferno sieno dannati in eterno, e
su nel mondo di loro alcuna memoria non sia, e quasi sieno come se
stati non fossero; «Che invidiosi son d’ogni altra sorte», di
peccatori, quantunque di gravissimi supplici tormentati sieno. Per
che chiaro comprender si può costoro essere miserissimi, poiché di
ciascuno, quantunque misero, invidiosi sono, conciosiacosaché
invidia non si soglia portare se non a migliore o a piú felice di
sé. «Fama di loro» [che cosa sia
fama, è mostrato di sopra nella esposizione della lettera del
precedente canto] «il mondo», cioè il costume de’ mondani, il
quale è solamente i segnalati uomini far famosi, «esser non lassa»,
percioché furono torpenti e miseri e freddi; «Misericordia e
giustizia gli sdegna»; e questo percioché le loro opere non furon
tali, che impetrar misericordia per quelle sapessero o potessero, per
la quale sarebbero stati elevati alla gloria eterna; e furon sí vili
e sí dolorose, che giustizia gli sdegna, cioè non cura di doverli
tra le piú gravi colpe dannare, quantunque in quelle per
mentacattaggine forse peccassero; ma, sí come morti senza la grazia
di Dio, gli lascia quivi, come gittati da sé, miseramente dolersi,
come miseramente vissero. [E questa seconda cagione è troppo piú
ponderosa che la primiera, e piú gli prieme; e per questa si
manifesta loro sentire quanto la lor vita sia vile.] E questa è la
cagione perché, come l’altre anime de’ peccatori, non vanno a
passare il fiume d’Acheronte, quantunque nondimeno in inferno sieno,
lá dove sono. «Non ragioniam di lor»; quasi voglia dire che il
ragionar di cosí fatta spezie di genti è un perder tempo; «ma
guarda», se t’aggrada di vedere la lor pena, e, guardando, «passa»
– e lasciagli stare. E questo riguardare gli concede Virgilio, non in
contentamento dell’autore, ma in dispetto de’ riguardati, li quali
noia sentono, vedendo la lor miseria essere da alcuno veduta o
conosciuta.
«Ed io che riguardai»,
secondo m’avea conceduto Virgilio: e qui discrive la qualitá della
loro afflizione, per la quale sí amaramente si dolgono: «vidi una
insegna, Che girando», cioè in giro andando, «correva», cioè
correndo era portata, «tanto ratta», cioè sí velocemente, «Che
d’ogni posa mi pareva indegna. E dietro le venia», a questa insegna,
«sí lunga tratta», cioè sí gran quantitá, «Di gente», d’anime
state di gente, «ch’io non avrei creduto», avanti che io avessi
veduto questo, «Che morte tanta n’avesse disfatta», cioè uccisa. E
dice «disfatta», percioché la morte non è altro che la
separazione dell’anima dal corpo, la quale per la morte separandosi,
resta questa composizione dell’anima e del corpo, le quali insieme
fanno l’uomo, essere disfatta; percioché, dopo cotale dipartimento,
colui, che prima era uomo, non è poi piú uomo.
«Poscia ch’io v’ebbi»,
guardando, «alcun riconosciuto», il quale non nomina, percioché,
se egli il nominasse, qualche fama o infamia gli darebbe (il che
sarebbe contro a quello che di sopra ha detto, cioè: «Fama di loro
il mondo esser non lassa» ecc.), «Vidi, e conobbi l’ombra di colui,
Che fece per viltate il gran rifiuto». Chi costui si fosse, non si
sa assai certo; ma, per l’operazione la quale dice da lui fatta,
estiman molti lui aver voluto dire di colui il quale noi oggi abbiamo
per santo, e chiamiamlo san Piero del Morrone, il quale senza alcun
dubbio fece un grandissimo rifiuto, rifiutando il papato. E dicesi
lui a questo rifiuto essere in questa maniera pervenuto, che, essendo
egli semplice uomo e di buona vita nelle montagne del Morrone in
Abruzzo sopra Selmona in atto eremitico, egli fu eletto papa in
Perugia, appresso la morte di papa Niccola d’Ascoli; ed, essendo il
suo nome Piero, fu chiamato Celestino. La cui semplicitá
considerando messer Benedetto Gatano cardinale, uomo avvedutissimo e
di grande animo e disideroso del papato, astutamente operando,
gl’incominciò a mostrare che esso in pregiudicio dell’anima sua
tenea tanto oficio, poiché a ciò sofficiente non si sentía. Alcuni
voglion dire ch’esso usò con alcuni suoi segreti servidori, che la
notte voci s’udivano nella camera del predetto papa, le quali, quasi
d’angeli mandati da Dio fossero, dicevano: – Renunzia, Celestino!
renunzia, Celestino! – Dalle quali mosso, ed essendo uomo idiota,
ebbe consiglio col predetto messer Benedetto del modo del poter
renunziare. Il quale gli disse: – Il modo sará questo, che voi
farete una decretale, nella quale si contenga che il papa possa nelle
mani de’ suoi cardinali renunziare il papato. – Il quale come a
doverla fare il vide disposto, essendo essi in Napoli, segretamente
fu col re Carlo secondo, re di Cicilia, a cui stanza il detto papa
poco davanti avea fatti dodici cardinali, e apertogli l’animo suo,
gli promise d’aiutarlo con ogni forza della Chiesa nella guerra sua
di Cicilia, dove facesse che, rifiutando Celestino il papato, esso
facesse che i dodici cardinali, fatti a sua stanza, gli dessero le
boci loro nella elezione: la qual cosa il re gli promise. Laonde
esso, con alcuni altri cardinali italiani, sotto certe promessioni,
ordinato questo medesimo, adoperò che il papa pronunziò la legge
del dover potere rinunziare il papato: e il dí di santa Lucia,
essendo stato cinque mesi e alcun dí papa, venuto co’ papali
ornamenti in concistoro, in presenza de’ suoi cardinali pose giú la
corona e il papale ammanto, e rifiutò al papato. Di che poi seguí
che la vilia di Natale messer
Benedetto predetto fu eletto papa e chiamato Bonifazio ottavo. Il
quale ivi a poco tempo, percioché vedeva gli animi di molti
inchinarsi ad avere nel detto frate Piero, quantunque rinunziato
avesse, divozione come in vero papa, fece il predetto frate Piero
chiamare dal monte Sant’Agnolo in Puglia, dove per divozione andato
n’era, e quindi, secondo che alcuni affermano, era disposto di
passarsene in Ischiavonia, e quivi in montagne altissime e salvatiche
finire in penitenzia i dí suoi; il fece chiamare, e fecenelo andare
alla ròcca di Fumone, e quivi tennelo mentre visse; ed, essendo
morto, il fece in una piccola chiesicciuola fuori della ròcca, senza
alcuno onore funebre, seppellire in una fossa profondissima, accioché
alcuno non curasse di trarne giammai il corpo suo.
Pare adunque l’autore
qui volere lui, per questa viltá d’animo, in questa parte superiore
dello ‘nferno tra’ cattivi esser dannato. Sono per questo alcuni che
riprendono l’autore, dicendo lui qui avere errato e detto contro a
quello articolo che si canta nel Simbolo,
cioè: «Et
in unam sanctam
catholicam
et apostolicam Ecclesiam»;
in quanto dice contro a quello che la Chiesa di Dio ha
diliberato,
cioè questo frate Piero essere santo, ed egli, mostrando di non
crederlo, il mette tra’ dannati. Alla quale obiezione è cosí da
rispondere: che, quando l’autore entrò in questo cammino, il quale
egli discrive, e nel qual dice aver veduta e conosciuta l’ombra di
colui che fece per viltá il gran rifiuto, questo san Piero non era
ancora canonizzato; percioché, sí come apparirá nel vigesimoprimo
canto di questo libro, l’autore entrò in questo cammino nel MCCCI, e
questo santo uomo fu canonizzato molti anni dopo, cioè al tempo di
papa Giovanni vigesimosecondo: e però, infino a quel dí che
canonizzato fu, fu lecito a ciascuno di crederne quello che piú gli
piacesse, sí come è di ciascuna cosa che dalla Chiesa diterminata
non sia; e per conseguente l’autore non fece contro al predetto
articolo, ma farebbe oggi chi credesse quello esser vero.
Altri voglion dire
questo cotale, di cui l’autore senza nominarlo dice che fece il gran
rifiuto, essere stato Esaú, figliuolo d’Isac. Il quale, essendo
primogenito di Isac, come nel Genesi
si legge, percioché innanzi a Iacob, con lui ad un parto nascendo,
uscí dal ventre della madre; ed aspettando a lui, per questa
ragione, la benedizione del padre quando a morte venisse, secondo che
a quegli tempi s’usava; tornando un dí da cacciare, ed avendo
grandissimo desiderio di mangiare, trovò Iacob suo fratello avere
innanzi una minestra di lenti, le quali la madre gli aveva cotte, e
domandogliele: Iacob rispose che non gliele darebbe, se egli non
rifiutasse alle ragioni della sua primogenitura e concedessele a lui;
per la qual cosa Esaú, tirato dall’appetito del mangiare, rifiutò
ogni sua ragione e concedettela a Iacob. E per questo voglion dire
l’autore intender d’Esaú, e lui vuol dire aver fatto il gran
rifiuto. La qual cosa né la nego né l’affermo. So io bene, secondo
che nel Genesi
si
legge, Esaú fu reo e malizioso e fattivo uomo, e non fu semplice né
mentacatto, e fu
grande
e potente uomo e padre di molte nazioni.
«Incontanente», come
veduto ebbi e riconosciuto costui, «intesi», dalla sua viltá, «e
certo fui, Che questa», che cosí correva dietro a quella insegna,
«era la setta dei cattivi, A Dio spiacenti ed a’ nemici sui», cioè
a’ demòni; quasi voglia dire: come a Domenedio piace l’uomo il quale
s’esercita sempre in bene adoperare, «quia
non sufficit abstinere a malo, nisi faciat quis quod bonum est»;
cosí dispiacciono a’ demòni coloro che son pigri, oziosi e tardi, e
non si esercitano in male adoperare.
«Questi sciaurati».
Questo vocabolo è disceso dall’antico costume de’ gentili, li quali
nelle piú lor cose seguivano gli augúri, cioè quelle
significazioni che dal volato e dal garrito degli uccelli, qual buona
e qual malvagia, secondo le dimostrazioni di quella facultá,
scioccamente prendevano; laonde quelli che malo augurio avevano,
erano chiamati «sciagurati»; il qual vocabolo oggi appo noi suona
«sventurati». «Che mai», cioè in alcun tempo, «non fur vivi»,
quanto è ad operazioni spettanti ad uomini, li quali si dican
vivere. «Erano ignudi»: questo medesimo si può dire di tutti i
dannati, i quali non solamente son privati di vestimenti, ma di
consolazione e di riposo; «e stimolati molto», trafitti, «da
mosconi e da vespe, ch’eran ivi», cioè in quel luogo. «Elle»,
cioè i mosconi e le vespe, «rigavan lor di sangue», il quale delle
trafitture usciva, «il volto». Chiamasi la faccia dell’uomo «volto», in
quanto per quella il piú delle volte si discerne quello che l’uom
vuole: e cosí si diriverá da «volo
vis»,
che sta per «volere». «Che mischiato di lagrime, a’ lor piedi, Da
fastidiosi vermi era ricolto», questo sangue mescolato con le
lagrime de’ miseri cattivi.
«E poi che a
riguardare». Qui comincia la quarta parte della suddivisione della
seconda parte di questo canto, nella quale, poi che discritta ha la
pena dei cattivi, dice aver vedute molte anime tutte correre ad un
fiume. «E poi», che veduta la miseria de’ cattivi, «che a
riguardare oltre mi diedi», cioè piú avanti: il general costume
degli uomini pone, li quali, conciosiacosaché tutti siam vaghi di
veder cose nuove, sempre oltre alle vedute sospigniamo gli occhi;
«Vidi gente alla riva d’un gran fiume, Perch’io dissi: – Maestro»,
a Virgilio,«or mi concedi, Ch’io sappia quali e’ sono», quegli
ch’io veggio, «e qual costume Le fa di trapassar», il fiume, «parer
sí pronte», cioè volenterose, «Com’io discerno per lo fioco
lume», – cioè per lo non chiaro lume; percioché, sí come l’esser
fioco impedisce la chiaritá della voce, cosí le tenebre impediscono
la chiaritá della luce. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me»
(supple)
rispose: – «Le cose», delle quali tu domandi, «ti fien cónte»,
cioè manifeste, «Quando fermerem li nostri passi», lá pervenuti,
«Su la trista riviera d’Acheronte». –
Secondo che scrive
Pronapide nel suo Protocosmo,
Acheronte è un fiume infernale, il quale dice che in una spelunca,
la quale è nell’isola di Creti, nacque della prima Cerere figliuola
di Celio; e, vergognandosi di venire in publico, per certe fessure
della terra se ne discese in inferno. Sotto questa fizione è da
intendere questo: come altra volta dissi, Titano e i figliuoli
combatterono con Saturno, e presero lui e la moglie; per la qual cosa
Cerere, figliuola di Celio, percioché confortato avea Saturno che
non rendesse il regno a Titano. temendo di lui, si fuggí in Creti,
tanto dolente, quanto piú esser poteva, di ciò che avvenuto era a
Saturno, e quivi si nascose. E poi, sentendo che Giove aveva vinto
Titano, e liberato Saturno e la moglie di prigione, non altrimenti
che la femmina depone il peso del ventre suo partorendo, cosí
Cerere, posto in questo luogo, dove occulta dimorava, ogni dolore giú
ed ogni amaritudine, uscí in publico lieta. E da questo dolor posto
giú fu data la materia alla fizione: quasi voglia dire il dolore
essersi tornato al suo principio, cioè al luogo del dolore in
inferno. E questo discrive in forma di fiume, a dimostrare la
quantitá essere stata grande del dolore. Ma il nostro autore gli dá,
fingendo, altra origine: percioché, sí come apparirá nel
quattordicesimo canto del presente libro, egli mostra questo fiume e
gli altri infernali nascere di gocciole d’acqua che caggiono di
fessure, le quali dice essere in una statua di piú metalli, dritta
nell’isola di Creti: e quivi piú a pieno se ne tratterá, e di
questo e degli altri.
«Allor con gli occhi
vergognosi e bassi, Temendo no ‘l mio dir gli fosse grave», cioè
noioso, «Infino al fiume», d’Acheronte, «di parlar mi trassi»,
cioè senza parlare mi condussi.
«Ed ecco verso noi».
Questa è la quinta parte della suddivisione del presente canto,
nella quale l’autore mostra un dimonio venire verso loro in una nave
e passar gli altri, e lui non aver voluto passare. Ed è questa parte
presa da Virgilio, dove nel sesto dell’Eneida
scrive:
Portitor
has horrendus aquas et flumina servat
terribili
squalore Charon,
ecc.
per
ben ventun verso. Dice adunque: «Ed ecco verso noi venir per nave Un
vecchio bianco per antico pelo», [il quale per altro sarebbe paruto
nero, se gli anni non l’avessero fatto divenir canuto, percioché la
gente volgare stimano che il diavolo sia nero, percioché i dipintori
dipingono Domeneddio bianco; ma questa è sciocchezza a credere,
percioché lo spirito essendo cosa incorporea, non può d’alcun
colore esser colorato;] «Gridando: – Guai a voi, anime prave!»,
cioè malvage. «Non isperate mai veder lo cielo»: il che vuole che
elle intendano, in perpetuo quindi non dovere uscire. «Io vegno per
menarvi all’altra riva», di questo fiume, «Nelle tenebre eterne, in
caldo e ‘n gielo. E tu, che se’ costí, anima viva», volgendo il suo
parlare all’autore, «Pártiti da cotesti, che son morti»; – quasi
voglia dire: percioché con loro tu non déi né puoi passare. «Ma,
poi ch’e’ vide ch’io non mi partiva», per suo comandamento, «Disse:
– per altra via», che per questa, «per altri porti, Verrai a
piaggia, non qui», donde io levo l’altre, «per passare»,
dall’altra parte. «Piú lieve legno», cioè nave; è «legno» tra’
marinai general nome di qualunque spezie di navilio, e massimamente
de’ grossi, come che qui per la sua barca, o per un’altra, lo ‘ntenda
Carone; «convien che ti porti», – cioè ti valichi.
«E ‘l duca», cioè
Virgilio, «a lui: – Carón». Questo Carón, secondo che Crisippo
scrisse, fu figliuolo d’Erebo e della Notte (di questa favola sará
il significato nella esposizione allegorica) ed è posto a questo
uficio di passare l’anime dannate dall’una riva all’altra
d’Acheronte, come qui appare. «Non ti crucciare», e incontanente
soggiunge la cagione per la quale gli mostra non doversi crucciare,
dicendo: «Vuolsi cosí», cioè che costui vivo vada per questo
regno de’ morti, e dov’e’ si vuole, «colá, dove si puote Ciò che
si vuole», cioè nella divina mente, percioché Iddio può ciò che
vuole; «e piú non dimandare»; – quasi voglia per questo dirgli:
non è convenevole che a te si dimostri la cagione della volontá di
Dio. «Quinci», cioè dalle parole da Virgilio dette, «fûr quete»,
cioè quetate, senza alcuna cosa piú dire, «le lanute gote», cioè
barbute, «Del nocchier della livida palude», cioè di Carone. E
chiama ora «palude» quello che di sopra chiama «fiume», e questo
fa di licenza poetica, per la quale spessissimamente si pone un nome
per un altro, sí veramente che quel cotal nome abbia alcuna
convenienza con la cosa nominata, come è qui, che il fiume è acqua
e la palude è acqua, e talvolta in alcuna parte corre il fiume sí
piano, che egli par non men tosto palude che fiume. «Livida» la
chiama, a dimostrazione che l’acqua sia torbida, e quella torbidezza
sia nera ed oscura. «Che ‘ntorno agli occhi avea di fiamma rote», a
dimostrare la sua ferocitá e il suo furore.
«Ma quelle anime,
ch’eran lasse», per dolore, non per lunghezza di cammino, «e nude»,
di consiglio e d’aiuto; «Cangiár colore», mostrando l’angoscia di
fuori, la quale dentro sentivano, «e dibattéro i denti», come
coloro fanno li quali la febbre piglia, che innanzi lo ‘ncendio di
quella tremano e battono i denti; «Tosto che ‘nteser le parole
crude», dette da Carón di sopra («Io vegno per menarvi all’altra
riva» ecc.).
«Bestemmiavano Iddio».
Fa qui l’autore imitare a quelle anime il bestiale costume di molti
uomini che, quando attendono o hanno alcuna cosa la quale loro a
grado non sia, disperatamente cominciano a bestemmiare, quasi per
quello non altramenti che se Dio spaventassono, si debba diminuire o
mitigare la fatica, la quale aspettano o la quale hanno: «e’ lor
parenti», cioè i padri e le madri, li quali principio e cagione
dierono all’esser loro; «L’umana spezie», quasi volessero piú
tosto essere animali bruti, accioché col corpo si fosse morta
l’anima; «il luogo», (supple)
bestemmiavano dove nacquero, «il tempo», nel qual nacquero, «e ‘l
seme», del quale nacquero, «di lor semenza», cioè bestemmiavano
il seme di lor semenza, cioè della quale seminati furono, «e di lor
nascimenti», cioè bestemmiavano il luogo e ‘l tempo di lor
nascimenti. «Poi si ritrasser tutte quante insieme»; quinci appare
loro quivi esser venute sparte; «Forte piangendo alla riva
malvagia», d’Acheronte, «Ch’attende ciascun uom, che Dio non teme»,
percioché tutti dichinan quivi coloro che, vivendo, non ebbono temor
di Dio, «Carón dimonio, con occhi di bragia», cioè ardenti e
focosi; «loro accennando, tutte le raccoglie», in su la sua nave;
«batte con remo», cioè con quel bastone col quale mena la sua
nave, il quale i marinai chiamano «remo», «qualunque», di quelle
anime, «s’adagia», a sedere o in altra guisa.
«Come d’autunno» cioè
in quella stagione la quale noi chiamiamo «autunno», da mezzo
settembre infino a mezzo dicembre, «si levan le foglie, L’una
appresso dell’altra», cadendo, «infin che ‘l ramo», sopra il quale
erano, «Vede alla terra tutte le sue spoglie», cioè i vestimenti,
li quali, la stagione gli ha fatti cadere da dosso. Ed è questa
comparazione presa da Virgilio in quella parte del sesto libro
dell’Eneida,
che di sopra dicemmo. «Similemente il mal seme d’Adamo», il quale
fu il primo nostro padre, e del quale noi siamo tutti seme: ma parte
di questo seme è buono, sí come sono i santi uomini e i servanti i
comandamenti di Dio, e parte n’è malvagio, sí come sono i
peccatori, li quali ostinati nelle loro colpe muoiono nell’ira di
Dio: e questa è quella parte che si raccoglie nella nave di Carone.
«Gittansi in quel lito», cioè d’in su quella riva, «ad una ad
una», quelle anime dannate, «Per cenni»,
da Carón fatti, «com’augel» fa «per suo richiamo», cioè per lo
pasto mostratogli.
«Cosí», raccolte,
«sen vanno su per l’onda bruna», d’Acheronte, «E avanti che sien»,
queste che pur mò salirono, «di lá», cioè dall’altra riva,
«discese, Anche di qua», da quest’altra parte, «nuova schiera»,
cioè quantitá d’anime non ancora statavi, «s’aduna». E in questo
dimostra l’autore continuamente molti morirne sopra il circuito della
terra, de’ quali la maggior parte muoiono nell’ira di Dio, «quia
multi sunt vocati, pauci vero electi».
«Figliuol
mio, – disse» In questa sesta parte della suddivisione gli apre
Virgilio la cagione perché Caron non l’ha voluto passare, e perché
quelle anime son pronte a voler passare il fiume. E dice: –
«Figliuol mio»; – mostra in questa parola Virgilio paterna
affezione all’autore; «disse il maestro cortese». Ben dice
«maestro», percioché, come qui appare, Virgilio gli solve il
dubbio della domanda fattagli da lui di sopra, dove dice: «Maestro,
or mi concedi, Ch’io sappia» ecc., e coloro che solvono bene i
dubbi meritamente si possono e debbon esser chiamati «maestri».
«Cortese» il chiama, percioché continuo in quello che al suo
uficio appartenesse, gli fu liberale. – «Quegli», uomini, o le
loro anime a dir meglio, «che muoion nell’ira di Dio», li quali
son quegli che [senza contrizione, senza confessione, veggendosi nel
caso della morte,] consistono pertinaci nelle loro nequizie, e cosí,
senza riconciliarsi a Dio de’ peccati commessi, si muoiono; [e
diconsi morire nell’ira di Dio, in quanto la sua grazia racquistar
non hanno voluto, seguendo gl’instituti della cattolica Chiesa;]
«Tutti convengon», cioè insiememente vengono, «qui», a questo
fiume, «d’ogni paese», di levante e d’occidente e di ciascuna
altra plaga del mondo, «e pronti sono a trapassar lo rio», cioè
il fiume, il quale qui chiama «rio», tirato dalla consonanza del
verso. E séguita la ragione perché a questo son pronti: «Ché la
divina giustizia gli sprona», cioè gli costringe, «Sí che la
téma», la quale hanno delle pene eternali, «si converte in
disio», di andar tosto a quelle. «Quinci», cioè per la nave di
Carone, «non passò mai anima buona», cioè che al cielo dovesse
ritornare, come déi tu, che non vieni per rimanere. «E però, se
Carón di te si lagna», cioè si duole, e non ti vuol passare, «Ben
puoi sapere omai che il suo dir suona», – avendo intesa la cagione
del suo rammarichio.
[Lez.
X]
«Finito questo».
Questa è la settima e ultima parte della suddivisione del presente
canto, nella quale l’autore mostra sé, per un tremore della terra e
per un baleno, vinto e caduto. Dice adunque: «Finito questo», cioè
la dichiarazione fattami da Virgilio della prontezza dell’anime a
trapassare il fiume, «la buia», cioè oscura, «campagna».
«Campagna» sono luoghi piani e larghi, i quali ivi non si dee
credere che sieno, ma usa il vocabolo largamente, auctoritate
poëtica;
e dé’si intendere per la qualitá di quello luogo dove vuole dare ad
intendere che era, qual che si fosse, o montuoso o piano: «Tremò sí
forte».
Ma qui è da vedere che
volle dire questo tremare, conciosiacosaché l’autore niente ponga
senza cagione; e perciò è da sapere l’autore in ogni cosa porre
quelli medesimi accidenti avvenire a’ dannati, che a coloro che in
istato di grazia sono od in via di penitenzia. E quinci, se noi
riguarderem bene, come all’entrare d’ogni cerchio di purgatorio si
truova alcun agnolo, il quale, lietamente cantando, conforta chi sale
in quello; cosí ad ogni cerchio d’inferno si truova alcun demonio,
il quale orribilmente spaventa chi discende in esso. E cosí come il
monte del purgatorio, quando alcuna anima purgata sale al cielo,
tutto triema, e tutti gli spiriti di quello, sentendo il tremore, ed
intendendo ciò che significa, da caritá mossi, cantano e
ringraziano Iddio, che a sé quella anima beata chiama; cosí in
inferno, come anime di nuovo vi caggiono, come dalle trasportate da
Carón feciono, triema tutta la valle d’inferno: per la qual cosa
l’anime dannate, che ciò sentono, intendendo venire anime ad
accrescere la loro tristizia, tutte oltre al dolore usato si
contristano e piangono.] E cosí l’autore mostra di volere in questa
parte sentire, come che non sia cosa nuova, le parti intrinseche e
cavernose della terra talvolta tremare, per la revoluzione dell’aere
che in quelle è racchiuso e che vuole uscir fuori.
«Che dello spavento,
La mente», cioè il ricordarmene, «di sudore ancor mi bagna».
Suole talvolta agli uomini subitamente spaventati, rifuggire dalle
parti esteriori dentro al cuore, sentendolo temere, il sangue; e per
questo coloro, alli quali questo avviene, rimangono pallidi e deboli
e quasi insensibili; ed esse parti esteriori, premute dalla passione
della paura, mandano per li pori fuori talvolta un’acqua fredda, la
qual noi diciamo «sudore»; e se tosto le parti predette non
recuperassero il sangue e le forze loro, caderebbe l’uomo, e
parrebbegli venir meno come se egli morisse; e forse perseverando il
sudore si morrebbe: ed hannone giá alcuni, essendo per paura il
sangue rifuggito dentro, perduti o debilitati alcuni membri in guisa
che mai poi operare non gli hanno potuti (e dicono i meno savi questi
cotali essere stati guasti dal dimonio) e per avventura anche se ne
son morti.
«La terra lacrimosa»,
cioè quella valle d’inferno, o per li molti pianti che in quella si
fanno, o per l’umiditá, la quale è nella concavitá della terra
generata dal freddo, il quale ha l’esalazioni della terra calde e
umide risolute in acqua: la quale primieramente accostata alla terra
fredda, è fatta in forma di lacrime, e cosí si può dire l’inferno
essere lacrimoso.
«Diede», cioè causò,
«vento». Generansi i venti, secondo che ad Aristotile piace nel
secondo della Meteora,
d’esalazioni calde e secche della terra, cacciate sopra da sé da’
nuvoli freddi o da alcun freddo che nell’aere sia. Le quali cose come
in inferno sieno, non so. Estimo che ‘l tumultuoso rivolgimento, il
quale l’autore vuol mostrare che vi sia, causi alcuno impeto il quale
muova quello aere, e l’aere mosso paia vento.
«Che balenò una luce
vermiglia». Questi non sono accidenti che la natura soglia producere
sotterra, e perciò è verisimile quello movimento dell’aere, il
quale ho detto essere stato, e, oltre a questo, quello impeto, avere
dalle parti inferiori seco recata qualche vampa di fuoco, la quale in
forma di un baleno apparve all’autore. «La qual», luce, «mi vinse
ogni mio sentimento»; segno è, per questo, avere quella luce
grandissimo stupore messo nell’autore, ed essere stato tanto, che
quello ne sia seguito che dice, cioè: «E caddi, come l’uom cui
sonno piglia».