CANTO TERZO
II
SENSO
ALLEGORICO
«Per me si va nella
cittá dolente». Nel principio del presente canto si continua
l’autore alle cose dette nella fine del precedente, lá dove disse,
per le vere dimostrazioni fattegli dalla ragione, sé avere la viltá
dell’anima posta giuso e essersi ritornato nel proponimento primo, e
cosí, dietro alla ragione, essere rientrato nel cammino da dovere
poter pervenire allo stato della grazia, e quindi ad eterna salute,
come disiderava; e camminando mostra sé alla porta dello inferno
essere pervenuto. E sono intorno al senso allegorico di questo canto
da considerare tre cose: la prima è quello che l’autore voglia
intendere per questa porta; la seconda, come si conformi il supplicio
dato a’ cattivi con la colpa loro; la terza, quello che l’autore
voglia sentire per lo fiume d’Acheronte e per lo nocchiere, ed, oltre
a ciò, per lo accidente a lui avvenuto: e, queste vedute, assai
convenientemente s’avrá il senso allegorico veduto del presente
canto.
Avendo adunque riguardo
a parte delle parole scritte sopra la porta, la quale l’autor
discrive, e alla ampiezza di quella, e similmente all’averla senza
alcun serrame trovata, possiam comprendere quella essere la via della
morte; conciosiacosaché il Nostro Signore dica nell’Evangelio:
«Intrate
per
angustam portam, quia lata et spatiosa via est quae ducit ad
perditionem, et multi sunt qui intrant per eam»;
e cosí per questa via il peccato ne mena a dannazione eterna. Ed è
questa via
ampia,
a farne chiari agevol cosa essere il peccare, e quello essere
assoluto da ogni strettezza di regola; il che delle virtú non
avviene, le quali sono ristrette e limitate dalli loro estremi.
L’essere senza alcun serrame, ne mostra assai chiaro in ogni ora, in
ogni tempo essere a ciascuno, volendo, possibile d’entrare nella via
della morte, ed andare ad eterna perdizione. Ed ancora si può per
l’ampiezza di questa porta comprendere, essa in tanta larghezza
distendersi, che, in qualunque parte del mondo l’uomo pecca,
trovi di questa porta la larga entrata. E fu aperta questa dalla
superbia dell’angiolo malvagio, il quale primieramente ardí di
levare la fronte contro a Colui che creato l’avea, né mai piú si
richiuse.
Dentro alla quale,
entrata l’umana considerazione, dietro a’ passi della ragione, nel
vestibulo della perdizione eterna vede i cattivi e inerti, come nella
lettera è dimostrato, correre dietro ad una insegna aggirandosi; e
questi essere agramente stimolati da mosconi e da vespe, e il sangue
di questi dolenti esser ricevuto da putridi vermini. Li quali perciò
all’entrata della perduta vita dimostrati ne sono, accioché da essi
prendiamo quanto abbominevole colpa sia quella della inerzia,
veggendo essa non solamente alla divina giustizia, ma ancora a’
diavoli dispiacere: e per questo siamo ammaestrati a guardarci da
quella, accioché in tanta miseria non divegnamo, che igualmente a’
buoni e a’ malvagi siamo odiosi. Pare adunque questo vizio consistere
in una freddezza d’animo, la quale, occupate non solamente le potenze
intellettive, ma eziandio le sensitive, tiene coloro, ne’ quali esso
dimora, del tutto oziosi, intanto che, brievemente, niuna opportunitá
pare che muover gli possa ad alcuno atto operativo; e per questo non
come uomini, ma come bruti animali, anzi come vermini pútridi e
fastidiosi, menano la vita loro. Ed in questo pare loro, per quel che
comprender si possa, sentire alcun diletto, il quale, percioché da
viziosa cagione è preso, senza colpa esser non puote. E però,
spenta la loro sensual vita e tolta via la gravezza del misero corpo
consenziente alla viltá dell’animo, avendo quel conoscimento
assoluti che perduto avevan legati, dal vermine della coscienza
morsi, e per quello conoscendo sé niuno onesto segno nella lor
misera vita aver seguito, ora senza pro seco dicendo: – Cosí
dovremmo aver fatto; – non tardi né lenti, ma correndo, seguitano
quel segno che seco estimano dover vivendo aver seguito. E percioché
questo lor vermine non muore, il seguono in giro, a dimostrare che,
come nel cerchio non è alcun principio né fine, cosí questa lor
fatica non debba giammai avere requie né riposo. E a questo atto gli
solletica il vermine della coscienza con due stimoli, con mosconi e
con vespe, li quali continuamente li trafiggono. Li quali mosconi e
vespe sono da intendere per la memoria di due loro singulari miserie,
nelle quali nella loro dolorosa vita presero alcun piacere: le quali
furono l’una nel brutto e sporcinoso modo di vivere che tennero,
l’altra nell’oziosamente vivere. [E queste si deono intendere,
percioché i mosconi sono generati da putredine d’acqua e di terra
corrotte, e questi intender si deono la rimembranza della loro
fastidiosa vita, la quale ora conoscono e dispiace loro e,
dispiacendo, senza pro gli affligge e infesta; sí che assai bene
dimostrano confarsi in questo la pena con la colpa. Le vespe
s’ingenerano dell’interiora dell’asino similmente corrotte, e l’asino
essere inerte, ozioso e torpente animale, assai chiaro si conosce per
tutti; e però per le punture delle vespe, amarissime, assai bene si
dee comprendere, per quelle, il morso doloroso della rimembranza
della loro oziositá, dalla quale sono dolorosamente trafitti, come
apparir può per lo sangue il quale cade dalle punture.] Il loro
sangue essere da puzzolenti vermini raccolto, ha a rammemorare a
questi dolenti che il sangue generato dalla digestione de’ cibi, li
quali usarono vivendo, non nutricò e sostenne in vita corpi umani,
anzi putridi e sozzi vermini: per le quali cose assai bene pare si
conformi con la colpa la pena di costoro. E questo basti de’ cattivi
aver detto.
Resta a vedere la terza
parte, cioè quello che l’autore per lo fiume e per lo nocchiere e
per lo caso, che a lui addivenne, voglia sentire. [E, secondo che io
possa comprendere, la sua intenzione è di mostrare come in inferno,
oltre al fiume d’Acheronte, si discenda: e questo mostra convenirsi
fare passando il fiume, il quale in due maniere trapassarsi, qui,
sotto assai artificiosa fizione, discrive. Delle quali dice esser la
prima per la nave di Carón, nella quale, come detto è, esso
trapassa l’anime di quegli che in peccato mortale morti sono. E però,
avanti che della seconda maniera tocchiamo, è da vedere quello che
l’autore sente per questo fiume, che per lo nocchiere, che per la
nave e che per lo remo col qual dice che batte qualunque s’adagia.]
Vuole adunque per
questo fiume l’autore disegnare la vita presente, la quale
ottimamente dir si può simile ad un fiume; percioché, sí come il
fiume corre continuo, sempre declinando, senza mai in su ritornare;
cosí la nostra vita, dal dí del nostro nascimento, sempre e con
velocissimo corso declina verso la morte, senza mai indietro
rivolgersi. Il che ci è, oltre alla continua esperienza, per la divina Scrittura
mostrato, nella quale leggiamo: «Omnes
morimur et quasi aquae dilabimur in
terram,
quae non revertuntur».
Sono, oltre a ciò, i fiumi, quando per abbondanza d’acque e quando
per
forza di venti, tempestosi. Il che similemente della nostra vita
addiviene: percioché alcuna volta addiviene, per troppa mondana
felicitá, che noi gonfiamo e divegnamo superbi, e non ricappiendo in
noi, e non essendo a’ nostri termini contenti, esondiamo, e, come i
fiumi in danno de’ campi vicini talvolta traboccano, cosí noi in
danno del prossimo e di noi medesimi trabocchiamo, e similemente
siamo da diversi impeti della fortuna fieramente afflitti e infestati
negli animi nostri. E, come il fiume volge grandissime pietre nel suo
fondo, cosí noi nel segreto del nostro petto continuamente
rivolgiamo gravissime e noiose sollecitudini; e né altrimenti che i
fiumi con le loro circunvoluzioni talvolta trangugian le navi e’
naviganti, cosí noi tranghiottisce la circunvoluzione de’ peccati e
della bocca infernale. E, accioché io faccia fine alle comparazioni,
come i fiumi molte afflizioni porgono, cosí la nostra vita è piena
di tribolazioni infinite: per la qual cosa, per quel medesimo nome
chiamar la possiamo che questo fiume si chiama, il quale è
Acheronte, che tanto suona in latino, quanto «cosa senza
allegrezza»: la quale per certo è del tutto rimossa dalla presente
vita, veggendo non essere alcuno, quantunque vecchio, che con veritá
possa dire sé avere avuto giammai un dí intero senza mille angosce
piú cocenti che ‘l fuoco. E sopra questo fiume è una nave, nella
quale dall’una riva all’altra sono l’anime trasportate. [È manifesta
cosa di legni leggieri comporsi le navi, e quelle, senza molta acqua
prendere, sopra essa dimorare]; per la qual mi pare si possa sentire
le nostre concupiscenze, le quali, leggieri e mutabili, non
altrimenti per la presente vita trasvolano, che facciano sopra l’onde
le navi, e seco d’uno appetito in un altro trasportano coloro, li
quali miseramente disiderano, né prima a riva gli pongono, che in
perpetua perdizione gli conducono: come per essa dice l’autore, che
Carón trasportava l’anime in perpetua doglia.
È, appresso, di questa
nave nocchiere un demonio chiamato Carón, bianco per antico pelo, il
quale nella lettera dicemmo essere stato figliuolo d’Erebo e della
Notte. Per lo quale assai apertamente veder si puote intendersi il
tempo, percioché il Tempo fu figliuolo d’Erebo, cioè del profondo
consiglio di Dio, il quale creò lui come l’altre cose, e non essendo
avanti la creazione del mondo alcuna luce sensibile nel mezzo delle
tenebre, le quali avanti la creazion del mondo erano, produsse lui
come cominciò a distinguer quelle in dí distinti, come nel
principio del Genesi si legge; e quinci, perché nelle tenebre
prodotto fu, sentirono i poeti lui essere figliuolo della Notte, cioè
delle tenebre. Il nome del quale Servio, Sopra
l’«Eneida»
di Virgilio, dice esser «‘Charon’
quasi
‘chronos’»;
e questo vocabolo in latino viene a dire tempo. Il quale l’autore
dice esser «bianco per
antico
pelo», discrivendolo dall’accidente della vecchiezza degli uomini,
nella quale noi divegnamo canuti: e per questo vuol dimostrare il
Tempo essere vecchio, cioè giá è lungo spazio stato prodotto. E
nel vero assai è vecchio, percioché, secondo si comprende in
libro Temporum
d’Eusebio, egli è, dalla creazione del mondo infino a questo anno,
perseverato 6572 anni o in quel torno. E perciò si pone nocchiere
sopra questo fiume, percioché dir si puote il tempo esser quello che
in sé il dí della nostra nativitá ne riceve, e con le sue
revoluzioni, avendone dalla riva del nostro nascimento levati, ne
mena per la presente vita, qual piú e qual meno, e trasportalo
all’altra riva, cioè al dí della morte.
vero che egli è qui
posto dall’autore a trapassare l’anime che muoiono nell’ira di Dio,
e ciò non è senza cagione; percioché quelle, che questa mortal
vita finiscono nella grazia di Dio, non si dicono, secondo che i
santi dicono, morire, ma d’una vita trapassare in altra, e quella
essere eterna, nella quale il tempo non ha alcuna cosa a fare;
percioché l’eternitá non patisce alcuna dimensione di tempo. De’
dannati non si può dir cosí, percioché di questa vita vanno in
morte perpetua: e perciò pare che il tempo abbia a determinare con
certo numero d’anni o di dí lo spazio della presente vita, la quale
per rispetto della morte perpetua fu a’ dannati morte, in quanto
finirono questa vita, la quale, quantunque piena d’afflizioni e di
fatiche sia, è nondimeno beata stata a’ dannati, per rispetto di
quella alla quale in morte perpetua son trapassati.
[Ma da vedere è quello
che intender voglia l’autore per lo remo di questo nocchiere. È il
remo un bastone lungo, col quale il nocchiere fa muovere la sua nave,
e con esso la mena e dirizza d’un luogo ad un altro. Col quale remo
l’autor dice questo dimonio battere l’anime, le quali s’adagiano nella sua
nave, intendendo per questo la sollecitudine di coloro li quali
all’acquisto delle cose temporali son tutti dati; percioché questa
sollecitudine, dalla varietá del tempo e dalla qualitá delle cose
imprese stimolata, non lascia alcun cupido sentire alcun riposo, ma
igualmente il dí e la notte o in pensieri o in opera gli tiene
occupati, e sempre con nuove dimostrazioni a varie operazioni gli
sospigne, molesta e affligge, in guisa che, non che riposo prendere
possano, ma elle non lasciano altrui avere spazio di respirare. E, se
di ciò per avventura alcuno esemplo aspettaste, lasciando stare la
sollecitudine pastorale de’ sommi pontefici e le grandi imprese de’
re, de’ principi e de’ signori, riguardate con l’occhio della mente
quelle de’ mercatanti, co’ quali noi continuamente siamo: ogni
piccolo movimento, ora in Inghilterra, ora in Fiandra, ora in
Ispagna, ora in Cipri, ora in una parte e ora in un ‘altra,
sollecitando, ricordando, avvisando, li fa scrivere, non lettere, ma
volumi a’ lor compagni; e innanzi tratto sempre con sospetto
l’apportate ricevono; ogni vento gli tien sospesi a’ lor navili; né
sí piccolo romore di guerra nasce, che essi incontanente non temano
delle merca-* *tanzie messe in cammino, e quanti sensali parlan loro,
tanti fan loro mutare animi e consigli. Chi potrebbe esplicare quante
sieno le cose, che agli avviluppati nelle cose temporali rompano,
turbino, guastino, impediscano i desiderati riposi? Niuna scrittura è
che appieno gli potesse mostrare. E cosí i dolenti, che hanno torto
il disiderio della eterna beatitudine alle cose che perir debbono,
sono nella presente vita in continua afflizione, e di qui trapassati
alla perpetua.]
La cagione perché
questo dimonio niega di passare l’autore, puote esser questa:
percioché egli non potrebbe ancora conducer l’autore alla riva
opposita, conciosiacosaché ancora venuto non sia l’ultimo dí
dell’autore, il quale ancora vivea; e appresso sentiva il dimonio
l’autore non essere in disposizione ch’egli volesse passare per dover
di lá dimorare, e perciò non apparteneva al ministro della divina
giustizia, al quale è commesso di trapassare i malvagi, di trapassar
similmente quegli che malvagi non sono e vanno per esser buoni, sí
come l’autore andava. E però gli dice: – «Piú lieve legno convien
che ti porti»; – volendo per questo mostrare che, quando la colpa è
piú lieve, piú lievemente trapassi Acheronte. E quelle sono da dir
piú lievi, le quali talvolta si posson por giuso (come puote l’uomo,
che vive, por giú le sue colpe per la penitenza), che quelle che in
eterno non si posson metter giú, come quelle sono nelle quali l’uomo
si muore. E non è da credere che attualmente l’autore in inferno
andasse, o che questo fiume o questo nocchiere e l’altre cose, che
qui e altrove si pongono, vi sieno; ma conviensi a’ nostri ingegni in
questa maniera parlare, accioché essi con minore difficultá possano
dalle cose attualmente discritte comprendere le spirituali, le quali
per opera d’immaginazione o di meditazione s’intendono. Non ha la
divina volontá bisogno d’alcuno uficiale: basta in lei semplicemente
il volere, e quello incontanente è mandato ad esecuzione, sí come
dice il salmista: «Dixit,
et facta sunt; mandavit, et creata sunt».
Ma questo noi non comprenderemmo, se in alcuni termini dimostrativi
non ne fosse posto dinanzi quello che Iddio dispone e adopera, sí
come nelle cose dette si può comprendere, cioè noi vivere ed essere
dal tempo menati alla morte, e dopo quella, se male vivuti siamo,
dannati. [E cosí possiam questa maniera, del passare in inferno,
dire che sia per sentenza diffinitiva data da Dio, sí come da
giudice il quale esser non può in alcuna cosa ingannato: e come
quegli cotali, che da questa sentenza dannati sono, hanno il fiume
valicato, in
rem iudicatam
sono trapassati, senza dovere sperare che mai per alcuna cagione
cotal sentenza si debba o possa rivocare: quantunque scioccamente
Origene, per altro prudentissimo e grandissimo letterato uomo,
mostrasse di credere Iddio alla fine del mondo dovere, non che
d’altrui, ma eziandio de’ demòni, aver misericordia, e perdonar loro
e menarnegli in vita eterna.]
[La seconda maniera del
trapassare in inferno, cioè di valicare il fiume d’Acheronte, par
che l’autore voglia qui essere per una spezie di sentenza, la quale
si chiama «interlocutoria», la quale nostro Signore dá in questa
forma: che qualunque uomo cade in peccato mortale, sia incontanente
messo nella prigione del diavolo; ma nondimeno esservi con questa
condizione, che, se egli d’avere commesso quel peccato, per lo quale
è servo del diavolo divenuto, si vuole riconoscere, e per penitenza
riconciliarsi a Dio, che egli possa cosí uscire della detta prigione
e ritornare in sua libertá; e, dove riconoscer non si voglia,
s’intenda in perpetuo esser dannato a dovere stare in quella prigione, nella quale
noi miseri tutto ‘l dí caggiamo, e all’unghie del diavolo di nostra
volontá la gola porgiamo. La qual cosa avvenire discrive l’autore
sotto questa fizione.]
Dice adunque per se
medesimo, e cosí ciascuno può per se medesimo intendere, che «La
terra lagrimosa», cioè la presente vita, la quale è piena di
lagrime e di miserie, «diede vento, Che balenò una luce vermiglia»,
cioè uno splendore grande in apparenza, vano e fugace sí come è il
vento, il quale niuno può né pigliare né tenere e sempre fugge. E
questo splendore dice essere stato balenato da questa cosa vana, a
dimostrazione che dalla vanitá delle cose della presente vita nasca
questa luce a guisa di baleno, il lume del quale essendo súbito,
reca seco ammirazione, e poi subitamente si converte in nulla, sí
come noi veggiamo avvenire de’ fulgori temporali, che testé sono e
testé non sono. Or nondimeno sono appo la nostra fragilitá di tanta
forza, che spesse volte occupano in tanto le menti d’alcuno, e con
tanta affezione disiderati sono, che, lasciata la debita notizia di
Dio e dello splendore eterno, per qual è via, e per li vizi e per le
malvagie operazioni, si trascorre in essi. Di che assai appare a
questi cotali ogni sentimento razionale esser tolto, ed essi cadere
nelle colpe e nelle miserie del peccato, come cade colui il quale è
soprappreso dal sonno. E fa in questo l’autore debita comparazione:
percioché, quantunque, peccando mortalmente, nella infernal morte si
caggia, nondimeno è questa morte in tanto simile al sonno, in quanto
l’uomo si può da essa destare mentre nella presente vita dimora, sí
come nel principio del seguente canto mostra l’autore d’essere stato
desto, ma da grave tuono; la gravitá del qual tuono possiam dire
essere stata alcuna di quelle cose, con le quali davanti nel
principio del primo canto del presente libro dicemmo che Domeneddio
toccava i peccatori con la grazia operante, quando in alcuno la
mandava. E meritamente qui possiam repetere quello che nel predetto
luogo dicemmo, l’autore per lo sonno non essersi accorto come nella
prigion del diavolo s’entrasse, cioè come si trapassasse il fiume
d’Acheronte; ma, destandosi e trovandosi dall’altra parte del fiume,
assai leggiermente conoscer si può la sua colpa e la sentenza di Dio
avervelo trasportato. E questo trasportamento sarebbe stoltizia a
credere che corporale fosse stato. Fu adunque spirituale, come
spiritualmente intender si dee noi per lo peccato divenir servi del
diavolo. E, quantunque a quegli, che in questa forma trapassano in
inferno, sia licito, volendo, il poterne uscire, non posson però
uscirne per tornarsi addietro per la via donde entrarono, percioché
per lo peccato non si può di peccato uscire, come quegli farebbono
che per quella via n’uscissono, per la quale v’entrarono; ma
conviensene uscire per la via opposita al peccato, la quale nulla
altra cosa è che la penitenza. E a pervenire a questa via mostra
l’autore essergli convenuto tutto l’inferno trapassare, e di quello,
per la parte opposita a quella onde v’entrò, esserne uscito. E
questa via, se noi riguardiam bene, il conduce a piè del monte della
penitenza, dove trova Catone, che a quella il drizza e sollecita.