COMENTO ALLA “DIVINA COMMEDIA”. PROEMIO.

COMENTO
ALLA “DIVINA COMMEDIA”

PROEMIO

[Lez.
I]

«Nel mezzo del cammin
di nostra vita», ecc. La nostra umanitá, quantunque di molti
privilegi dal nostro Creatore nobilitata sia, nondimeno di sua natura
è sí debile, che cosa alcuna, quantunque menoma sia, fare non può
né bene né compiutamente, senza la divina grazia. La qual cosa gli
antichi valenti uomini e’ moderni considerando, a quella
supplicemente addomandare e con ogni divozione a nostro potere
impetrare, almeno ne’ princípi d’ogni nostra operazione,
pietosamente e con paterna affezione ne confortano. Alla qual cosa
dee ciascuno senza alcuna difficultá divenire, leggendo quello che
ne scrive Platone, uomo di celestiale ingegno, nel fine del prologo
del suo
Timeo,
per sé dicendo: «
Namcum omnibus mos sit et quasi quaedam religio, qui vel
de
maximis rebus, vel de minimis aliquid acturi sunt, precari
divinitatem ad auxilium; quanto nos aequius est, qui universitatis
naturae substantiaeque rationem praestaturi sumus, invocare divinam
opem, nisi plane quodam saevo furore atque implacabili raptemur
amentia?
».
E, se Platone

confessa
sé, piú che alcun altro, avere del divino aiuto bisogno, io che
debbo di me presumere, conoscendo il mio intelletto tardo, lo ‘ngegno
piccolo e la memoria labile? E spezialmente, sottentrando a peso
molto maggiore che a’ miei ómeri si convegna, cioè a spiegare
l’artificioso testo, la moltitudine delle storie, e la sublimitá de’
sensi nascosi sotto il poetico velo della
Commedia
del nostro Dante; e massimamente ad uomini d’alto intendimento e di
mirabile perspicacitá, come universalmente solete esser voi, signori
fiorentini: certo, oltre ogni considerazione umana, debbo credere
abbisognarmi. Adunque, accioché quello che io debbo dire sia onore e
gloria dell’altissimo nome di Dio, e consolazione e utilitá degli
auditori, intendo, avanti che io piú oltre proceda, quanto piú
umilmente posso, ricorrere ad invocare il suo aiuto; molto piú della
sua benignitá fidandomi che d’alcuno mio merito. E, impercioché di
materia poetica parlar dovemo, poeticamente quello invocherò con
Anchise troiano, dicendo que’ versi che nel secondo del suo
Eneida
scrive Virgilio:

Iupiter
omnipotens, precibus si flecteris ullis,

aspice
nos: hoc tantum: et, si pietate meremur,

da
deinde auxilium, pater,
ecc.

[Invocata adunque la
divina clemenzia che alla presente fatica ne presti della sua grazia,
avanti che alla lettera del testo si venga, estimo sieno da vedere
tre cose, le quali generalmente si soglion cercare ne’ princípi di
ciascuna cosa che appartenga a dottrina: la primiera è di mostrare
quante e quali sieno le cause di questo libro; la seconda, qual sia
il titolo del libro; la terza, a qual parte di filosofia sia il
presente libro supposto.]

[Le cause di questo
libro son quattro: la materiale, la formale, la efficiente e la
finale. La materiale è, nella presente opera, doppia, cosí come è
doppio il suggetto, il quale è colla materia una medesima cosa;
percioché altro suggetto è quello del senso letterale, e altro
quello del senso allegorico, li quali nel presente libro amenduni
sono, sí come manifestamente apparirá nel processo.

adunque
il suggetto secondo il senso letterale: lo stato dell’anime dopo la
morte de’ corpi semplicemente preso; percioché di quello, e intorno
a quello, tutto il processo della presente opera intende. Il
suggetto secondo il senso allegorico è: come l’uomo, per lo libero
arbitrio meritando e dismeritando, è alla giustizia di guiderdonare
e di punire obbligato. La causa formale è similmente doppia, perciò
ch’egli è la forma del trattato e la forma del trattare. La forma
del trattato è divisa in tre, secondo la triplice divisione del
libro. La prima divisione è quella secondo la quale tutta l’opera
si divide, cioè in tre cantiche; la seconda divisione è quella
secondo la quale ciascuna delle tre cantiche si divide in canti; la
terza divisione è quella secondo la quale ciascun canto si divide
in 
rittimi. La forma, o
vero il modo del trattare, è poetico, fittivo, discrittivo,
digressivo e transuntivo; e con questo, difinitivo, divisivo,
probativo, reprobativo e positivo d’esempli. La causa efficiente è
esso medesimo autore Dante Alighieri, del quale piú distesamente
diremo appresso, dove del titolo del libro parleremo. La causa finale
della presente opera è: rimuovere quegli che nella presente vita
vivono, dallo stato della miseria, allo stato della felicitá.]

[La seconda cosa
principale, che è da vedere, è qual sia il titolo del presente
libro, il quale secondo alcuni è questo: «Incomincia la
Commedia
di Dante Alighieri fiorentino»; alcun altro, seguendo piú la
‘ntenzione dell’autore, dice il titolo essere questo: «Incominciano
le cantiche della
Commedia
di
Dante Alighieri fiorentino». La quale, percioché, come detto è, è
in tre parti divisa,

dice
il titolo di questa prima parte essere: «Incomincia la prima cantica
delle cantiche della
Commedia
di
Dante Alighieri»; volendo per questa mostrare dovere il titolo di
tutta l’opera essere:

«Cominciano
le cantiche della Commedia di Dante» ecc., come detto è.]

[Ma, perché questo
poco resulta, il lasceremo nell’albitrio degli scrittori, e verremo a
quello per che all’autore dové parere di doverlo cosí intitolare,
dicendo la cagione del titolo secondo, percioché in quello si
conterrá la cagione del primo, il quale quasi da tutti è usitato. E
ad evidenzia di questo, secondo il mio giudicio, è da sapere, sí
come i musici ogni loro artificio formano sopra certe dimensioni di
tempi lunghe e brievi, e acute e gravi, e della varietá di queste,
con debita e misurata proporzione congiunta, e quello poi appellano
«canto»; cosí i poeti, non solamente quelli che in latino
scrivono, ma eziandio coloro che, come il nostro autore fa,
volgarmente dettano: componendo i lor versi, secondo la diversa
qualitá d’essi, di certo e diterminato numero di piedi, intra se
medesimi, dopo certa e limitata quantitá di parole, consonanti: sí
come nel presente trattato veggiamo che, essendo tutti i rittimi
d’equal numero di sillabe, sempre il terzo piè nella sua fine è
consonante alla fine del primo, che in quella consonanza finisce. Per
che pare che a questi cotali versi, o opere composte per versi,
quello nome si convenga che i musici alle loro invenzioni dánno,
come davanti dicemmo, cioè «canti», e per conseguente quella
opera, che di molti canti è composta, doversi «cantica» appellare,
cioè cosa in sé contenente piú canti.]

[Appresso si dimostra
nel titolo questo libro essere appellato «commedia». A notizia
della qual cosa è da sapere che le poetiche narrazioni sono di piú
e varie maniere, sí come è tragedia, satira e commedia, buccolica,
elegia, lirica ed altre. Ma, volendo di quella sola, che al presente
titolo appartiene, vedere, vogliono alcuni mal convenirsi a questo
libro questo titolo, argomentando primieramente dal significato del
vocabolo, e appresso dal modo del trattare de’ comici, il quale pare
molto essere differente da quello che l’autore serva in questo libro.
Dicono adunque primieramente mal convenirsi le cose cantate in questo
libro col significato del vocabolo; percioché «commedia» vuol
tanto dire quanto canto di villa, composto da «
comos,»,
che in latino viene a dire «villa», e «
odos»,
che viene a dire «canto»; e i canti villeschi, come noi sappiamo,
sono di basse materie, sí come di loro quistioni intorno al cultivar
della terra, o conservazione di lor bestiame, o di lor bassi e rozzi
innamoramenti e costumi rurali: a’ quali in alcuno atto non sono
conformi le cose narrate in alcuna parte della presente opera; ma
sono di persone eccellenti, di singulari e notabili operazioni degli
uomini viziosi e virtuosi, degli effetti della penitenza, de’ costumi
degli angeli e della divina essenza. Oltre a questo, lo stilo comico
è umile e rimesso, accioché alla materia sia conforme; quello che
della presente opera dir non si può; percioché, quantunque in
volgare scritto sia, nel quale pare che comunichino le femminette,
egli è nondimeno ornato e leggiadro e sublime; delle quali cose
nulla sente il volgar delle femmine. Non dico però che, se in versi
latini fosse, non mutato il peso delle parole volgari, ch’egli non
fosse molto piú artificioso e piú sublime, percioché molto piú
d’arte e di gravitá ha nel parlar latino che nel materno.]

[E appresso, dell’arte
spettante al commedo;] mai nella commedia non introducere se medesimo
in alcun atto a parlare, ma sempre a varie persone, che in diversi
luoghi e tempi e per diverse cagioni deduce a parlare insieme, fa
ragionare quello che crede che appartenga al tema impreso della
commedia: dove in questo libro, lasciato l’artificio del commedo,
l’autore spessissime 
volte, e quasi sempre,
or di sé or d’altrui ragionando favella. Similmente nelle commedie
non s’usano comparazioni né recitazioni d’altre istorie che di
quelle che al tema assunto appartengono; dove in questo libro si
pongono comparazioni infinite, e assai istorie si raccontano, che
dirittamente non fanno al principale intento. Sono ancora le cose,
che nelle commedie si raccontano, cose che per avventura mai non
furono, quantunque non sieno sí strane da’ costumi degli uomini che
essere state non possano: la sustanziale istoria del presente libro,
dello essere dannati i peccatori, che ne’ lor peccati muoiono, a
perpetua pena, e quegli, che nella grazia di Dio trapassano, essere
elevati all’eterna gloria, è, secondo la cattolica fede, vera e
santa sempre. Chiamano, oltre a tutto questo, i commedi le parti
intra sé distinte delle lor commedie «scene»; percioché,
recitando li commedi quelle nel luogo detto «scena», nel mezzo del
teatro, quante volte introducevano varie persone a ragionare, tante
della scena uscivano i mimi trasformati da quelli che prima avevano
parlato e fatto alcun atto, e in forma di quegli che parlar doveano,
venivano davanti al popolo riguardante e ascoltante il commedo che
recitava: dove il nostro autore chiama «canti» le parti della sua
Commedia.
E cosí, accioché fine pognamo agli argomenti, pare, come di sopra è
detto, non

convenirsi
a questo libro nome di «commedia». Né si può dire non essere
stato della mente dell’autore che questo libro non si chiamasse
«commedia», come talvolta ad alcuno di alcuna sua opera è
avvenuto; conciosiacosaché esso medesimo nel ventunesimo canto di
questa prima cantica il chiami commedia, dicendo: «Cosí di ponte in
ponte altro parlando, Che la mia commedia cantar non cura», ecc. Che
adunque diremo alle obiezioni fatte? Credo, conciosiacosaché
oculatissimo uomo fosse l’autore, lui non avere avuto riguardo alle
parti che nelle commedie si contengono, ma al tutto, e da quello
avere il suo libro dinominato, figurativamente parlando. Il tutto
della commedia 
(per
quello che per Plauto e per Terenzio, che furono poeti comici, si
può comprendere): che la commedia abbia turbolento principio e
pieno di romori e di discordie, e poi l’ultima parte di quella
finisca in pace e in tranquillitá. Al qual tutto è ottimamente
conforme il libro presente: percioché egli incomincia da’ dolori e
dalle turbazioni infernali, e finisce nel riposo e nella pace e
nella gloria, la quale hanno i beati in vita eterna. E questo dee
poter bastare a fare che cosí fatto nome si possa di ragion
convenire a questo libro.

[Resta a vedere chi
fosse l’autore di questo libro: la qual cosa non pure in questo
libro, ma in ciascun altro pare di necessitá di doversi sapere; e
questo, accioché noi non prestiamo stoltamente fede a chi non la
merita, conciosiacosaché noi leggiamo: «
Qui
misere credit, creditur esse miser
».
E qual cosa è piú misera che credere al patricida dell’umana pietá,
al libidinoso della castitá, o all’eretico della fede cattolica?
Rade volte avviene che l’uomo contro alla sua professione favelli.
Voglionsi adunque esaminare la vita, e’ costumi e gli studi degli
uomini, accioché noi cognosciamo quanta fede sia da prestare alle
loro parole.]

[Fu adunque l’autore
del presente libro, sí come il titolo ne testimonia, Dante
Alighieri, per ischiatta nobile uomo della nostra cittá; e la sua
vita non fu uniforme, ma, da varie mutazioni infestata, spesse volte
in nuove qualitá di studi si permutò, della qual non si può
convenevolmente parlare che con essa non si ragioni de’ suoi studi. E
però egli primieramente dalla sua puerizia nella patria si diede
agli studi liberali, e in quegli maravigliosamente s’avanzò;
percioché, oltre alla prima arte, fu, secondo che appresso si dirá,
maraviglioso loico, e seppe retorica, sí come nelle sue opere appare
assai bene; e, percioché nella presente opera appare lui essere
stato astrolago, e quello esser non si può senza arismetrica e
geometria, estimo lui similemente in queste arti essere stato
ammaestrato. Ragionasi similmente lui nella sua giovanezza avere
udita filosofia morale in Firenze, e quella maravigliosamente bene
avere saputa: la qual cosa egli non volle che nascosa fosse
nell’undicesimo canto di questo trattato, dove si fa dire a Virgilio:
«Non ti rimembra di quelle parole, Con le qua’ la tua Etica
pertratta», ecc., quasi voglia per questa s’intenda la filosofia
morale in singularitá essere stata a lui familiarissima e nota.
Similemente udí in quella gli autori poetici, e studiò gli
storiografi, e ancora vi prese altissimi princípi nella filosofia
naturale, sí come esso vuole che si senta per li ragionamenti suoi
in questa opera avuti con ser Brunetto Latino, il quale in quella
scienza fu reputato solennissimo uomo. Né fu, quantunque a questi
studi attendesse, senza 
grandissimi stimoli,
datigli da quella passione, la qual noi generalmente chiamiamo
«amore»: e similmente dalla sollecitudine presa degli onori
publici, a’ quali ardentemente attese, infino al tempo che, per paura
di peggio, andando le cose traverse a lui e a quegli che quella setta
seguivano, convenne partir di Firenze. Dopo la qual partita, avendo
alquanti anni circuita Italia, credendosi trovar modo a ritornare
nella patria, e di ciò avendo la speranza perduta, se n’andò a
Parigi, e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede;
nelle quali in poco tempo s’avanzò tanto, che fatti e una e altra
volta certi atti scolastici, sí come sermonare, leggere e disputare,
meritò grandissime laude da’ valenti uomini. Poi in Italia
tornatosi, e in Ravenna riduttosi, avendo giá il cinquantesimosesto
anno della sua etá compiuto, come cattolico cristiano fece fine alla
sua vita e alle sue fatiche, dove onorevolmente fu appo la chiesa de’
frati minori seppellito, senza aver preso alcun titolo o onore di
maestrato, sí come colui che attendeva di prendere la laurea nella
sua cittá, com’esso medesimo testimonia nel principio del canto
venticinquesimo del
Paradiso.
Ma al suo disiderio prevenne la morte, come detto è. I suoi costumi
furono gravi e pesati assai, e quasi laudevoli tutti; ma, percioché
giá delle predette cose scrissi in sua laude un trattatello, non
curo al presente di piú distenderle. Le quali cose se con sana mente
riguardate saranno, mi pare esser certo che assai dicevole testimonio
sará reputato e degno di fede, in qualunque materia è stata nella
sua
Commedia
da
lui recitata.]

[Ma del suo nome resta
alcuna cosa da recitare, e pria del suo significato, il quale assai
per se medesimo si dimostra; percioché ciascuna persona, la quale
con liberale animo dona di quelle cose, le quali egli ha di grazia
ricevute da Dio, puote essere meritamente appellato Dante. E che
costui ne desse volentieri, l’effetto nol nasconde. Esso, a tutti
coloro che prender ne vorranno, ha messo davanti questo suo singulare
e caro tesoro, nel quale parimente onesto diletto e salutevole
utilitá si trova da ciascuno che non caritevole ingegno cercare ne
vuole. E, percioché questo gli parve eccellentissimo dono, sí per
la ragion detta, e sí perché con molta sua fatica, con lunghe
vigilie e con istudio continuo l’acquistò, non parve a lui dovere
essere contento che questo nome da’ suoi parenti gli fosse imposto
casualmente, come molti ciascun dí se ne pongono; per dimostrar
quello essergli per disposizion celeste imposto, a due
eccellentissime persone in questo suo libro si fa nominare; delle
quali la prima è Beatrice, la quale apparendogli in sul triunfale
carro del celestiale esercito in su la suprema altezza del monte di
purgatorio, intende essere la sacra teologia, dalla quale si dee
credere ogni divino misterio essere inteso, e con gli altri insieme
questo, cioè che egli per divina disposizione chiamato sia Dante. A
confermazione di ciò, si fa a lei Dante appellare in quella parte
del trentesimo canto del
Purgatorio,
nel quale essa, parlandogli, gli dice: «Dante, perché Virgilio se
ne vada»: quasi voglia s’intenda, se ella di questo nome non lo
avesse conosciuto degno, o non l’avrebbe nominato, o avrebbelo per
altro nome chiamato. Oltre a ciò, soggiugnendo, per la ragion giá
detta, in quello luogo di necessitá registrarsi il nome suo, e
questo ancora, accioché paia lui a tal termine della teologia esser
pervenuto che, essendo Dante, possa senza Virgilio, cioè senza la
poesia, o vogliam dire senza la ragione delle terrene cose, valere
alle divine. L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo
nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le
cose create; e, perché si crede lui averle degnamente nominate,
volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel
nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo. La qual cosa
fa nel canto ventiseesimo del
Paradiso,
lá dove Adamo gli dice: «Dante, la voglia tua discerno meglio»
ecc. E questo basti intorno al titolo avere scritto.]

[La terza cosa
principale, la qual dissi essere da investigare, è a qual parte di
filosofia sia sottoposto il presente libro; il quale, secondo il mio
giudizio, è sottoposto alla parte morale, ovvero etica: percioché,
quantunque in alcun passo si tratti per modo speculativo, non è
perciò per cagione di speculazione ciò posto, ma per cagion
dell’opera, la quale quivi ha quel modo richiesto di trattare.]

[Espedite le tre cose
sopra dette, è da vedere della rubrica particolare che segue, cioè:
«Incomincia il primo canto dello
‘Nferno».
Ma avanti che io piú oltre proceda, considerando la varietá e la
moltitudine delle materie che nella presente lettura sopravverranno,
il mio poco ingegno

e la debolezza della
mia memoria, intendo che, se alcuna cosa meno avvedutamente o per
ignoranza mi venisse detta, la qual fosse meno che conforme alla
cattolica veritá, che per non detta sia, e da ora la rivoco, e alla
emendazione della santa Chiesa me ne sommetto.]

[Dice adunque la nostra
rubrica: «Incomincia il primo canto dello
‘Nferno»:
intorno alla quale è da vedere s’egli è inferno, e s’el n’è piú
che uno, e in qual parte del mondo sia, onde si vada in esso, qual
sia la forma di quello, a che serva, e se per altro nome si chiama
che «inferno». E primieramente dico ch’egli è inferno: il che per
molte autoritá della Scrittura si pruova, e primieramente per Isaia,
il quale dice: «
Dilatavit
infernus animam suam, et aperuit os suum absque

ullo
termino
»;
e Vergilio nel sesto dell’
Eneida
dice:
«
Inferni
ianua regis
»;
e Iob: «
In
profundissimum infernum descendet anima mea
».
Per le quali autoritá appare essere inferno.]

[Appresso si domandava
s’egli n’era piú d’uno. Appare per lo senso della Scrittura sacra
che ne sieno tre, de’ quali i santi chiamano l’uno superiore, e il
secondo mezzano, e il terzo inferiore; vogliendo che il superiore sia
nella vita presente, piena di pene, di angosce e di peccati. E di
questo parlando, dice il salmista: «
Circumdederunt
me dolores mortis, et pericula inferni invenerunt me
»;
e in altra parte dice: «
Descendant
in infernum viventes
»;
quasi voglia dire «nelle miserie della presente vita».]

[E di questo inferno
sentono i poeti co’ santi, fingendo questo inferno essere nel cuore
de’ mortali; e, in ciò dilatando la fizione, dicono a questo inferno
essere un portinaio, e questo dicono essere Cerbero infernal cane, il
quale è interpretato divoratore: sentendo per lui la insaziabilitá
de’ nostri disidèri, li quali saziare né empiere non si possono. E
l’uficio di questo cane non è di vietare l’entrata ad alcuno, ma di
guardare che alcuno dello ‘nferno non esca; volendo per questo che lá
dove entra la cupiditá delle ricchezze, degli stati, de’ diletti e
dell’altre cose terrene, ella o non n’esce mai, o con difficultá se
ne trae; sí come essi mostrano, fingendo questo cane essere stato
tratto da Ercule dello ‘nferno, cioè questa insaziabilitá de’
disidèri terreni esser dal virtuoso uomo tratta fuori del cuore di
quel cotale virtuoso. Appresso dicono in questo inferno essere Carone
nocchiero e il fiume d’Acheronte: e per Acheronte sentono la labile e
flussa condizione delle cose disiderate e la miseria di questo mondo;
e per Carone intendono il tempo, il quale per vari spazi le nostre
volontá e le nostre speranze d’un termine trasporta in un altro, o
voglian dire che, secondo i vari tempi, varie cose che muovono gli
appetiti essere al cuore trasportate. Dicono, oltre a ciò, sedere in
questo inferno Minos, Eaco e Radamanto, giudici e sentenziatori delle
colpe dell’anime che in quello inferno vanno; e a costoro questo
uficio attribuiscono, percioché grandissimi legisti furono e giusti
uomini: per loro intendendo la coscienza di ciascuno, la quale,
sedendo nella nostra mente, è prima e avveduta giudicatrice delle
nostre operazioni, e di quelle col morso suo ci affligge e tormenta.
E appresso, a quali pene ella condanna i peccatori, in alquanti
tormentati disegnano.]

[Dicono quivi essere
Tantalo, re di Frigia, il quale, percioché pose il figliuolo per
cibo davanti agl’iddii, in un fiume e tra grande abbondanza di pomi,
di fame e di sete morire; sentendo per costui la qualitá dell’avaro,
il quale, per non diminuire l’acquistato, non ardisce toccarne, e
cosí in cose assai patisce disagio, potendosene adagiare. E senza
fallo sono quello che Tantalo è interpretato secondo Fulgezio, cioè
«volente visione»; percioché gli avari alcuna cosa non vogliono
de’ loro tesori se non vedergli.]

[Fingono ancora in
quello essere Isione, il quale, percioché essendo, secondo che
alcuni vogliono, segretario di Giove e di Giunone, richiese Giunone
di voler giacer con lei; la quale in forma di sè gli pose innanzi
una nuvola, con la quale giacendo, d’essa ingenerò i centauri; e
Giove il dannò a questa pena in inferno, che egli fosse legato con
serpenti a’ raggi d’una ruota, la quale mai non ristesse di volgersi:
volendo per questo che per Isione s’intendano coloro li quali sono
disiderosi di signoria, e per forza alcuna tirannia occupano, la
quale ha sembianza di regno, che per Giunone s’intende; e di questa
tirannia sopravvegnendo i sospetti, nascono i centauri, cioè gli
uomini dell’arme, co’ quali i tiranni tengono le signorie contro a’
piaceri de’ popoli: ed hanno i tiranni questa

pena, che sono sempre
in revoluzioni; e, se non sono, par loro essere, con occulte
sollicitudini: le quali afflizioni per la ruota volubile e per le
serpi s’intendono.]

[Oltre a questi, vi
discrivono Tizio: percioché disonestamente richiese Latona, dicono
lui da Apollo essere stato allo ‘nferno dannato a dovergli sempre
essere il fegato beccato da avvoltoi, e quello, come consumato è,
rinascere intero; per costui sentendo quegli che d’alto e splendido
luogo sono gittati in basso stato, li quali sempre sono infestati da
mordacissimi pensieri, intenti come tornar possano lá onde caduti
sono; né prima dall’una sollicitudine sono lasciati, che essi sono
rientrati nell’altra; e cosí senza requie s’affliggono.]

[Pongonvi ancora le
figliuole di Danao, e dicono, per l’avere esse uccisi i mariti, esser
dannate ad empier d’acqua certi vasi senza fondo; per la qual cosa,
sempre attignendo, si faticano invano: volendo per questo dimostrare
la stoltizia delle femmine, le quali, avendosi la ragion sottomessa
(la quale dee essere lor capo e lor guida, come è il marito)
intendono con loro artifici far quello che giudicano non aver fatto
la natura, cioè, lisciandosi e dipignendosi, farsi belle; di che
segue le piú volte il contrario, e perciò è la lor fatica perduta.
O voglian dire sentirsi per queste la effeminata sciocchezza di
molti, li quali, mentre stimano con continuato coito sodisfare
all’altrui libidine, sé vòtano ed altrui non riempiono. Ma,
accioché io non vada per tutte le pene in quello discritte, che
sarebbono molte, dico che questo del superiore inferno sentirono i
poeti gentili.]

[Il secondo inferno,
dissi, chiamavano mezzano, sentendo quello essere vicino alla
superficie della terra, il qual noi volgarmente chiamiamo limbo, e la
santa Scrittura talvolta il chiama il seno d’Abraam: e questo
vogliono esser separato da’ luoghi penali, vogliendo in esso essere
istati i giusti antichi aspettanti la venuta di Cristo. E di questo
mostra il nostro autore sentire, dove pon quegli o che non peccarono
o che, bene adoperando, morirono senza battesimo. Ma questo 
differente da quello
de’ santi, in quanto quegli che v’erano, disideravano e speravano, e
venne la loro salute, e quegli, che l’autor pone, disiderano, ma non
isperano.]

[Estimarono ancora
essere un inferno inferiore, e quello esser luogo di pene eterne date
a’ dannati. E di questo dice il Vangelo: «
Mortuus
est dives, et sepultus est in inferno
».
Ed il salmista: «
In
inferno autem quis confitebitur tibi?
».
E che questo sia, si legge nel Vangelio, in quella parte ove il ricco
seppellito in inferno, vedendo sopra sé Lazzaro nel grembo d’Abraam,
il priega che intinga il dito minimo nell’acqua, e gittandogliele in
bocca, il rifrigeri alquanto. E di questo inferno tratta similmente
il nostro autore dal quinto canto in giú.]

[Domandavasi appresso,
dove sia l’entrata ad andare in questo inferno; conciosiacosaché
l’autore quella, nel principio del terzo canto, scrivendo, dove ella
sia in alcuna parte non mostra: della qual cosa appo gli antichi non
è una medesima oppenione. Omero, il quale pare essere de’ piú
antichi poeti che di ciò menzione faccia, scrive nel libro
undicesimo della sua
Odissea,
Ulisse per mare essere stato mandato da Circe in oceano per dovere in
inferno discendere a sapere da Tiresia tebano i suoi futuri
accidenti; e quivi dice lui essere pervenuto appo certi popoli, li
quali chiama scizi, dove alcuna luce di sole mai non appare, e quivi
avere lo ‘nferno trovato. Virgilio, il quale in molte cose il
séguita, in questo discorda da lui, scrivendo nel sesto del suo
Eneida
l’entrata dello ‘nferno essere appo il lago d’Averno tra la cittá di
Pozzuolo e Baia, dicendo:

Spelunca
alta fuit vastoque immanis hiatu,

scrupea,
tuta lacu nigro nemorumque tenebris;

quam
super haud ullae poterant impune volantes

tendere
iter pennis: talis sese halitus atris

faucibus
effundens supera ad convexa ferebat:

unde
locum Graii dixerunt nomine Avernum,
ecc.

E per questa spelunca
scrive essere disceso Enea appresso la Sibilla in inferno. Stazio,
nel primo del suo
Thebaidos,
dice questo luogo essere in una isola non guari lontana da quella
estremitá d’Acaia, la quale è piú propinqua all’isola di Creti,
chiamata
«Traenaron»:
e di quindi dice essere, a’ tempi d’Edipo re di Tebe, d’inferno
venuta nel mondo Tesifone, pregata da lui a mettere discordia tra
Etiocle e Pollinice, suoi figliuoli, cosí scrivendo:

…….illa
per umbras,

et
caligantes animarum examine campos

Traenareae
limen petit irremeabile portae,
ecc.

E con costui mostra
d’accordarsi Seneca tragedo,
in
tragoedia Herculis furentis
,
dove dice Cerbero infernal cane essere stato tratto d’inferno da
Ercule e da Teseo per la spelunca di Trenaro, dicendo cosí:

Postquam
est ad oras Traenari ventum, et nitor

percussit
oculos lucis,
ecc.

Pomponio Mela, nel
primo libro della sua
Cosmografia,
dice questo luogo essere appo i popoli, li quali abitano vicini
all’entrata nel mare maggiore, scrivendo in questa forma: «
In
eo

primum
Mariatidinei urbem habitant, ab Argivo, ut ferunt, Hercule datam,
Heraclea vocitatur. Id famae fidem adiecit: iuxta specus est
Acherusia, ad manes, ut aiunt, pervius; atque inde extractum Cerberum
existimant
»,
ecc. Altri dicono di Mongibello, e di Vulcano e di simili, quello
affermando

con
favole non assai convenienti alle femminelle.]

[La forma di questo
inferno, parlando di lui come di cosa materiale, discrive l’autore
essere a guisa d’un corno il quale diritto fosse, e di questo
fermarsi la punta in sul centro della terra, e la bocca di sopra
venire vicina alla superficie della terra; in quello, aggirandosi
l’uomo intorno al voto del corno a guisa che l’uomo fa in queste
scale ravvolte, che vulgarmente si chiamano «chiocciole»,
discendersi; benché in alcuna parte appaia questo luogo, se non
quanto allo spazio della via onde si scende, essere in parte
cavernoso e in parte solido: cavernoso, in quanto vi distingue
luoghi, li quali appella «cerchi», e ne’ quali i miseri son puniti:
e alcuna volta vi discriva scogli e alcuni valichi e fiumi, li quali
non potrebbono per lo vacuo, per quello ordine che egli discrive,
discendere.]

[Serve lo ‘nferno alla
divina giustizia, ricevendo l’anime de’ peccatori, le quali l’ira di
Dio hanno meritata, e in sé gli tormenta e affligge, secondo che
hanno piú o meno peccato, essendo loro eterna prigione.]

[Ultimamente si
domandava se altri nomi avea che «inferno»; il quale averne piú
appo i poeti manifestamente appare. Virgilio, sí come nel sesto
dell’
Eneida
si legge, il chiama Averno, dove dice:

Tros
Anchisiades, facilis descensus Averni.

E
nominasi questo luogo Averno,
ab
«a», quod est «sine», «vernus», quod est «laetitia»
:

cioè
luogo «senza letizia». E in altra parte nel preallegato libro il
chiama Tartaro: quivi:

…….tum
Tartarus ipse

bis
patet in praeceps
,
ecc.

E questo nome è detto
da «tortura», cioè da tormentamento, il quale i miseri in questo
ricevono; ed è, secondo Virgilio, questo la piú profonda parte
dello ‘nferno. Chiamalo ancora Dite nel preallegato libro, dove dice:

Perque
domos Ditis vacuas, et inania regna.

Ed è cosí chiamato
dal suo re, il quale da’ poeti è chiamato Dite, cioè ricco e
abbondante; percioché in questo luogo grandissima moltitudine
d’anime discendono sempre. Nominalo similmente Orco nel libro spesse
volte allegato, dove scrive:

Vestibulum
ante ipsum, primisque in faucibus Orci.

Ed è chiamato Orco,
cioè oscuro, percioché è oscurissimo, come nel processo apparirá.
Oltre a questo l’appella Erebo nel giá detto libro, dicendo:

Venimus,
et magnos Erebi transnavimus amnes.

E però è chiamato
Erebo, secondo che dice Uguccione, perché egli s’accosta molto co’
suoi supplici a coloro, li quali miseramente riceve e in sé tiene.
Ed è ancora chiamato questo luogo Baratro, come appresso dice
l’autore nel canto ventiduesimo di questa parte, dove dice: «Cotal
di quel baratro era la scesa». E chiamasi Baratro dalla forma di un
vaso di giunchi, il quale è ritondo, nella parte superiore ampio e
nella inferiore angusto. Chiamalo ancora Abisso, sí come
nell’Apocalisse si legge ove dice: «
Bestia
quae ascendet de abysso, faciet adversus illos bellum
»;
e in altra parte: «
Data
est illi clavis putei abyssi, et aperuit puteum abyssi
».
Il qual nome significa «profonditá». Hanne ancora il detto luogo
alcuni, ma basti al presente aver narrati questi.]

[Vedute le predette
cose, avanti che all’ordine della lettura si vegna, pare doversi
rimuovere un dubbio, il quale spesse volte giá è stato, e
massimamente da litterati uomini, mosso, il quale è questo. Dicono
adunque questi cotali: – Secondo che ciascun ragiona, Dante fu
litteratissimo uomo, e se egli fu litterato, come si dispuose egli a
comporre tanta opera e cosí laudevole, come questa è, in volgare? –
A’ quali mi pare si possa cosí rispondere: Certa cosa è che Dante
fu eruditissimo uomo, e massimamente in poesia, e disideroso di fama,
come generalmente siam tutti. Cominciò il presente libro in versi
latini, cosí:

Ultima
regna canam fluido contermina mundo,

spiritibus
quae lata patent, quae praemia solvunt

pro
meritis cuicumque suis,
ecc.

E giá era alquanto
proceduto avanti, quando gli parve da mutare stilo: e il consiglio,
che il mosse, fu manifestamente conoscere i liberali studi e’
filosofici essere del tutto abbandonati da’ prencipi e da’ signori e
dagli altri eccellenti uomini, li quali solevano onorare e rendere
famosi i poeti e le loro opere: e però, veggendo quasi abbandonato
Vergilio e gli altri, o essere nelle mani d’uomini plebei e di bassa
condizione, estimò cosí al suo lavorío dovere addivenire, e per
conseguente non seguirnegli quello per che alla fatica si sommettea.
Di che gli parve dovere il suo poema fare conforme, almeno nella
corteccia di fuori, agl’ingegni de’ presenti signori, de’ quali se
alcuno n’è che alcuno libro voglia vedere, e esso sia in latino,
tantosto il fanno trasformare in volgare: donde prese argomento che,
se volgare fosse il suo poema, egli piacerebbe, dove in latino
sarebbe schifato. E perciò, lasciati i versi latini, in rittimi
volgari scrisse, come veggiamo. Questo soluto, ne resta venire ecc.,
ut
supra
.]