II SENSO
ALLEGORICO
[Lez.
V]
«Nel mezzo del cammin
di nostra vita», ecc. Poi che, per la grazia di Dio, è quello, che
secondo il senso litterale si può, dimostrato, è da tornarsi al
principio di questo canto, e quello che sotto la rozza corteccia
delle parole è nascoso, cioè il senso allegorico, aprire e
dichiarare. Intorno alla qual cosa credo udirete cose per le quali vi
si potrebbe forse meritamente dire le parole che l’autore medesimo
dice nel secondo canto del Paradiso,
cioè: «Que’ gloriosi che passâro a Colco, Non s’ammiraron, come
voi farete, Quando vider Giason fatto bifolco». Percioché allora
per effetto potrete vedere quanto d’arte e quanto di sentimento sia
stato e sia nello stilo poetico, oltre alla stima che molti fanno. E
peroché gustando con lo ‘ntelletto il mellifluo e celestial sapore,
nascoso sotto il velo del favoloso discrivere, forse vi dorrete il
nostro poeta e gli altri avere tanta soavitá riposta, in guisa che
senza difficultá aver non si puote; e direte: – Perché non diedono
i poeti la loro dottrina libera e aperta ed espedita, come molti
altri fanno la loro, sí che, chi volesse, ne potesse prendere frutto
piú tosto? – In risponsione della qual cosa si possono due ragioni
dimostrare: e la prima può esser questa.
Costume generale è, di
tutte le cose meritamente da aver care, il discreto uomo non tenerle
in piazza, ma sotto il piú forte serrame c’ha nella sua casa, e con
grandissima diligenza guardarle, e ad alquanti suoi amici, ma a pochi
e rade volte, mostrarle; e questo fa, accioché il troppo farne copia
non faccia quelle divenire piú vili. Il che per atto possiam tutto
il dí vedere avvenire; e, se in ogni altra cosa nascosa ci fosse
questa veritá, guardiamo al sole, del quale alcuna cosa sí bella,
non che piú, veggiamo, né alcuna sí chiara muoversi, non tirato né
sospinto, se non dal divino ordine impostogli; pieno di tanta luce,
che ogni altro lucido corpo illumina, ogni terrena cosa vivifica,
accresce e nutrica e al suo fine conduce: il quale, per troppo
mostrarsi, è non solamente poco prezzato, ma son di quegli che di
vederlo ischifano. Per la qual cosa, accioché questo non seguiti,
non so qual altra cosa noi possiamo con piú certa ragion dire che
sia piú cara, piú da gradire e meglio da riporre e da guardare, che
sono gli alti effetti della natura e i secreti misteri e i sublimi
della divinitá. Questi, se negl’intelletti universalmente del vulgo
divenissero, in poco tempo ne seguirebbe che sarebbon pregiati meno
che non è il sole, o che i ragionamenti meccanici e le favole delle
femminelle. E per questo lo Spirito santo, d’ogni cosa dottissimo,
gli alti segreti della divina mente nascose, come noi possiam vedere,
nelle figure del Vecchio
Testamento,
nelle Visioni
di certi profeti, e ancora nell’Apocalissi
di Giovanni evangelista, sotto parole tanto nella prima faccia
differenti dal vero e meno conformi nell’apparenza a’ sensi nascosi,
che per poco piú esser non potrebbono. Le vestigie del quale, con
quelle forze che possono gli umani ingegni seguir la divinitá, con
ogni arte s’ingegnarono di seguitare i poeti, quelle cose che essi
estimavano piú degne sotto favoloso parlare nascondendo, accioché
dove carissime sono, non divenissero vili ad ogni uomo, aperte
lasciandole. Il che assai bene pare ne dimostri Macrobio, nel primo
libro De
somnio
Scipionis,
cosí dicendo: «De
diis autem, ut dixi, caeteris et de anima, non frustra se, nec ut
oblectent, ad fabulosa convertunt, sed quia sciunt inimicam esse
naturae apertam nudamque expositionem sui: quae, sicut vulgaribus
hominum sensibus intellectum sui vario rerum tegmine operimentoque
subtraxit, ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari.
Sic ipsa mysteria figurarum
cuniculis operiuntur, ne vel hoc adeptis nudam rerum talium natura se
praebeat, sed summatibus tantum viris, sapientia interprete, veri
arcani consciis. Contenti sint reliqui ad venerationem, figuris
defendentibus a vilitate secretum»,
ecc.
La seconda ragione può
essere questa. Suole quello, che con difficultá s’acquista, piacer
piú e guardarsi meglio che quello che senza alcuna fatica o poca si
truova; e questo le grandi ereditá rimase a’ nostri giovani
cittadini hanno mostrato. Non essendo adunque alcun dubbio esser
molta malagevolezza il trarre la nascosa veritá di sotto al fabuloso
parlare, dee seguire essere incomparabile diletto, a colui che, per
suo studio, vede averla saputa trovare; laonde non solamente ogni
affanno avutone se ne dimentica, ma ne rimane una dolcezza
nell’animo, la quale quasi con legame indissolubile ferma, nella
memoria di colui che ritrovata l’ha, la veritá: dove quella che
senza alcuna difficultá s’acquista, come leggiermente venne, cosí
leggiermente si parte. Di che séguita che dell’avere faticato
s’acquista, dove del non avere studiato l’uomo si ritruova di scienza
vòto.
[La terza ragione mi
pare dovere esser questa. E’ non pare che alcun dubbio sia li cieli,
i pianeti e le stelle esser ministri della divina potenza, e, secondo
la virtú loro attribuita, i corpi inferiori generare, mediante
quelle cagioni che dalla natura sono ordinate, e quegli nutrire e nel
lor fine menargli. E, percioché essi corpi superiori sono in
continuo moto e in diversi modi si congiungono e si separano l’uno
dall’altro, par di necessitá che gli effetti da lor prodotti in
diversi tempi e in materie diverse, debbano esser diversi e a diverse
cose disposti; e quinci par che séguiti la diversitá degli aspetti
degli uomini, de’ quali non pare che alcuno alcun altro somigli; e
similmente degli ofici, li quali veggiam manifestamente essere,
eziandio naturalmente, diversi negli uomini. Dalla qual cosa mosso,
dice il nostro autore nel Paradiso:
Un
ci nasce Solone, ed altro Serse,
altri
Melchisedech, ed altri quello
che,
volando per l’aere, il figlio perse.
E questo si dee
cognoscere muovere dal divino intelletto, il quale cognosce una
universitá, come è quella dell’umana generazione, non poter
consistere in sé, se non avesse diversitá d’ufici. E perciò,
accioché dell’altre cose lasciamo al presente stare, alcun ci nasce
atto a filosofia, alcuno ad astrologia, alcuno a poesia e alcuni
altri ad altre scienze. Colui, che nasce atto a poesia, séguita,
quanto può e sa, d’esercitarsi nel poetico oficio; e, quantunque da
Dio sia alle nostre anime, le quali esso immediate
crea, data la ragione e il libero arbitrio, per lo quale, non ostante
la forza de’ cieli, ciascun può far quello che piú gli aggrada,
pare che il piú seguitin gli uomini quello a che essi sono atti
nati. Laonde quegli che al poetico oficio è nato, eziandio volendo,
non pare che possa fare altro che quello che a tale oficio
s’appartiene; e, percioché a quello oficio s’appartiene quello che
di sopra detto,
se egli in quello laudevolmente s’esercita, non è per avventura da
maravigliarsene]. E perciò non si rammarichi alcuno, se dai poeti è
sotto favole nascosa la veritá, ma piú tosto si dolga della sua
negligenza, per la quale e’ perde o ha perduto quello che il farebbe
lieto, faticandosi d’avere ritrovata la cara gemma nella spazzatura
nascosa. E questo basti avere a questa parte risposto.
Fu adunque il nostro
poeta, sí come gli altri poeti sono, nasconditore, come si vede, di
cosí cara gioia, come è la cattolica veritá, sotto la volgare
corteccia del suo poema. [Per la qual cosa si può meritamente dire
questo libro essere poliseno, cioè di piú sensi. De’ quali è il
primo senso quello il quale egli ha nelle cose significate per la
lettera, sí come voi potete aver di sopra, nella esposizion
litterale, udito; e chiamasi questo senso «litterale», e cosí è.
Il secondo senso è allegorico o vero morale, il quale, accioché voi
comprendiate meglio, esemplificando vel dichiarerò in questi versi:
«In
exitu Israël de Aegypto, domus Iacob de populo barbaro: facta est
Iudea sanctificatio
eius,
Israël potestas eius».
Da’ quali, se noi guarderemo a quello che la lettera suona solamente,
vedremo
esserci significato l’uscimento de’ figliuoli di Israel d’Egitto al
tempo di Moisé; e se noi guarderemo alla
alligoria, vedremo esserci mostrata la nostra redenzione fatta per
Cristo; e se noi guarderemo al senso morale, vedremo esserci mostrata
la conversione dell’anima nostra dal pianto e dalla miseria del
peccato allo stato della grazia; e se noi guarderemo al senso
anagogico, vedremo esserci dimostrato l’uscimento dell’anima santa
dalla corruzione della presente servitudine alla libertá della
gloria eternale. E cosí come questi sensi mistici sono generalmente
per vari nomi appellati, tutti nondimeno si possono appellare
«allegorici», conciosiacosaché essi sieno diversi dal senso
litterale o vero istoriale: e questo è, percioché «allegoria» è
detta da un vocabolo greco, detto «aileon»,
il quale in latino suona «alieno», ovvero diverso; e perciò dissi
questo libro esser poliseno, percioché tutti questi sensi, da chi
tritamente volesse guardare, gli si potrebbono in assai parti dare].
E per questo, agutamente pensando, forse potremmo del presente libro
dir quello che san Gregorio dice, nel proemio de’ suoi Morali,
della Santa Scrittura, cosí scrivendo: «Sacra
Scriptura
locutionis
suae morem transcendit, quia in uno eodemque sermone dum narrat
textum prodit mysterium, et sic mysterio sapientes exercet, sic
superficie simplices refovet. Habet in publico unde parvulos nutriat,
servat in secreto unde mentes sublimium in admiratione suspendat.
Quasi quidem quippe est fluvius, ut ita dixerim, planus et allus, in
quo et agnus ambulet, et elephans natet»,
ecc.;
percioché,
recitando della presente opera la corteccia litterale, con quella
insieme narriamo il misterio delle cose divine e umane, sotto quella
artificiosamente nascose, e in questa maniera intorno al senso
allegorico si possono i savi esercitare, e intorno alla dolcezza
testuale nudrire i semplici, cioè quelli li quali ancora tanto non
sentono, che essi possano al senso allegorico trapassare: cosí
possiam vedere questo libro avere in publico donde nutrir possa
gl’ingegni di quegli che meno sentimento hanno, e donde egli sospenda
con ammirazione le menti de’ piú provetti. E ancora, quantunque alla
Sacra Scrittura del tutto agguagliar non si possa, se non in quanto
di quella favelli, come in assai parti fa, nondimeno, largamente
parlando, dir si può di questo, quello esserne che san Gregorio
afferma di quello: cioè questo libro essere un fiume piano e
profondo, nel quale l’agnello puote andare e il leofante notare, cioè
in esso si possono i rozzi dilettare e i gran valenti uomini
esercitare.
Ma, avendo giá l’una
delle due parti in questo primo canto mostrata, cioè come quegli,
che di minor sentimento sono, si possano intorno al senso litterale
non solamente dilettare, ma ancora e nudrire e le lor forze crescere
in maggiori; è da dimostrare la seconda, intorno alla quale si
possano gl’ingegni piú sublimi esercitare: la qual cosa si fará
aprendo quello che sotto la crosta della lettera sta nascoso. Intorno
alla qual cosa sono da considerare, quanto è alla prima parte del
presente canto, dieci cose: delle quali la prima será il veder
quello che il nostro autore voglia sentire per lo sonno, il quale
dice che ricordar nol lascia come nella selva oscura s’entrasse; la
seconda, come noi in questo sonno ci leghiamo; la terza, qual fosse
la diritta via la quale per questo sonno dice d’avere smarrita; la
quarta, qual cosa potesse essere quella che il movesse a ravvedersi
che esso avesse la diritta via smarrita; la quinta, perché piú nel
mezzo del cammino di nostra vita che in altra etá; la sesta, quello
che egli intenda per quella selva tanto oscura e malagevole, quanto
dimostra esser quella nella quale dice si ritrovò; la settima,
perché piú nel principio del dí che ad altra ora scriva d’essersi
ravveduto; la ottava, quello che vuole s’intenda per li raggi del
sole apparitigli e per lo monte nella sommitá del quale gli
apparvero; la nona, quello che esso senta per la considerazione
avuta, poi che alquanto la paura gli cessò; la decima, quello che
noi dobbiam sentire per le tre bestie le quali lo impedivano a salire
al monte. E, queste vedute, procederemo alla seconda parte del
presente canto.
La prima cosa, la qual
dissi si voleva investigare, accioché il senso allegorico, nascoso
sotto la lettera della prima parte di questo canto, si manifesti, è
quello che il nostro autore voglia sentire per lo sonno, il qual dice
che ricordar nol lascia come egli entrasse nell’oscura selva. Ad
evidenzia della quale è da sapere che ‘l sonno, che alla presente
materia appartiene, è di due maniere: l’una è sonno corporale,
l’altra è sonno mentale. Il sonno corporale si può in due maniere
distinguere. Delle quali l’una è naturale, e puossi dire esser
quella la quale naturalmente in noi si richiede in nudrimento e
conservazione della nostra sanitá: il quale, occupandoci, lega e
quasi oziose rende tutte le nostre forze (ovvero potenze) sensitive e
le intellettive, percioché, perseverante esso, né sentiamo né intendiamo
alcuna cosa; di che a’ morti simili divegnamo. Ma, poi che la natura
ha preso per la sua indigenza quello che l’è opportuno a
restaurazione delle virtú faticate nella vigilia e in conforto della
vegetativa virtú, eziandio senza essere da alcuno escitati, da
questo per noi medesimi ci sciogliamo. E di questo alcuna cosa piú
distesamente diremo nel principio del quarto canto del presente
libro. L’altra maniera del corporal sonno è quella, dalla quale
vinta ogni corporal potenza, si separa l’anima dal corpo, e senza
alcuna cosa sentire o potere o sapere, immobili giacciamo, e
giaceremo infino al dí novissimo, senza poterci levare. E di questo
intende il salmista, quando dice: «Cum
dederit dilectis suis somnum».
Il sonno mentale,
allegoricamente parlando, è quello quando l’anima, sottoposta la
ragione a’ carnali appetiti, vinta dalle concupiscenze temporali,
s’addormenta in esse, e oziosa e negligente diventa, e del tutto
dalle nostre colpe legata diviene, quanto è in potere alcuna cosa a
nostra salute operare. E questo è quel sonno, dal quale ne richiama
san Paolo, dicendo: «Hora
est iam nos de
somno
surgere».
E questo sonno può essere temporale e può esser perpetuo. Temporale
è quando ne’
peccati
e nelle colpe nostre inviluppati dormiamo; e il salmista dice:
«Surgite
postquam sederitis,
qui
manducatis panem doloris»;
e in altra parte san Paolo, dicendo: «Surge,
qui dormis, et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus».
E talvolta avviene per sola benignitá di Dio che noi ci
risvegliamo,
e, riconosciuti i nostri errori e le nostre colpe, per la penitenzia
levandoci, ci riconciliamo a Dio, il quale non vuole la morte dei
peccatori; e, a lui riconciliati, ripognamo, mediante la sua grazia,
la ragione, sí come donna e maestra della nostra vita, nella suprema
sedia dell’anima, ogni scellerata operazione per lo suo imperio
scalpitando e discacciando da noi. Perpetuo è quel sonno mentale, il
quale, mentre che ostinatamente ne’ nostri peccati perseveriamo, ne
sopraggiugne l’ora ultima della presente vita, e in esso
addormentati, nell’altra passiamo, lá dove, non meritata la
misericordia di Dio, in sempiterno coi miseri in tal guisa passati,
dimoriamo. Li quali si dicon «dormire nel sonno della miseria», in
quanto hanno perduto il poter vedere, conoscere e gustare il bene
dello ‘ntelletto, nel qual consiste la gloria de’ beati. È adunque
questo sonno mentale quello del quale il nostro autor vuole che qui
allegoricamente s’intenda; nel qual, ciascuno che si diletta piú di
seguir l’appetito che la ragione, è veramente legato, e ismarrisce,
anzi perde la via della veritá, alla quale in eterno non può
ritornare.
La seconda cosa che era
da vedere dissi che era come noi in questo sonno mentale ci leghiamo.
E, percioché i lacciuoli sono infiniti, li quali la carne, il mondo
e ‘l dimonio tendono alla nostra sensualitá, pienamente dire non se
ne potrebbe per lingua d’uomo; ma ad un de’ modi, il quale quasi
universale, riducendoci, dico che, dalla nostra puerizia, noi il piú
dirizziamo i piedi, cioè le nostre affezioni, in questi lacci, e,
quasi non accorgendocene (percioché piú i sensi che la ragione
abbiamo allora per guida), sí c’inveschiamo, che poi o non ci
sciogliamo da quegli, o non senza grande difficultá, volendo, ce ne
sviluppiamo. A questa etá i nostri tre predetti nemici con ogni
sollecitudine stendono le reti loro. E la ragione è questa: l’etá,
come detto è, è tenera e nuova e vaga, e la sensualitá è in essa
fortissima, percioché la ragione non v’è ancora assai perfetta; e,
secondo che pare che la esperienza ne dimostri, dalla gola, alla
quale quella etá è inchinevole, par che prenda inizio la nostra
ruina. E la ragione pare assai manifesta: sono generalmente i
fanciulli vaghi del cibo, sospignendogli a ciò la natura che il suo
aumento disidera; e gustando, come spesso avviene, le saporite e
dilicate vivande e i vini esquisiti, a pian passo procedendo ed
ausando il gusto a quello che non gli bisognerebbe, cominciano,
quantunque piccoli e fanciulli sieno, ad aver men cari quegli cibi,
che, quantunque rozzi, soleano satisfare alla fame e alla sete loro,
e i piú preziosi desiderano e domandano, e dal disiderio ad
ottenergli si sforzano; e con questo nella etá piú piena
procedendo, quasí come da naturale ordine tirati, nel vizio della
lussuria discorrono. Questa, la quale non solamente i giovani, ma i
vecchi fa se medesimi sovente dimenticare, loro con tante e tali
lusinghe diletica, che, potendo all’appetito la vigorosa etá
dell’adolescenza sodisfare, con ogni pensiero e con ardentissima
affezione quello vituperevole diletto seguendo, tutti si mettono. E
quinci, per compiacere, negli ornamenti del corpo discorrono, non
altrimenti assai sovente ornandosi, che se vender si volessono al
mercato de’ poco savi. Le quali cose, percioché senza denari
esercitar pienamente non si
possono, gli sospingono nel disiderio d’aver denari, e, per quegli
ogni coscienza posposta, senza alcuna difficultá ad ogni disonesto
guadagno si dispongono, e quinci giucatori, ladri, barattieri,
simoniaci, ruffiani e disleali divengono. E giá ad etá piú piena
d’anni venuti, veggendo gli onori, la pompa, la potenza e la
grandigia de’ re, de’ signori, de’ gran cittadini, di quegli
s’accendono, e quinci invidiosi, superbi, crudeli e ambiziosi
divengono. Le quali cose, e altre molte, cosí successivamente, e
talora con altro ordine cresciute, e multiplicate e abituate in noi,
nel sonno della oblivione dei comandamenti di Dio ci legano e tengon
sí stretti, che, quasi convertite in natura, per romore che fatto ci
sia in capo, destare non ci lasciano. Le quali cose accioché a’
lacedemoni avvenir non potessero, per legge comandò Licurgo che i
lor figliuoli, ecc. (vedi Giustino, nel terzo libro, poco dopo il
principio). [Né è mia intenzione il modo da addormentare i miseri
nel sonno de’ peccati lasciare.] Percioché molti aguati hanno gli
avversari nostri, con li quali, se creduti sono, ogni matura e
robusta etá adoppiano: ma perciò mi piacque far singular menzione
di questa, perché, in questo modo presi, ci abituiamo ne’ peccati; e
por giú l’abito preso è difficilissimo; e, se pur si rimuove l’uomo
talvolta dal peccare, con molta meno difficultá v’è rivocato colui
che abituato vi fu, che colui che non vi fu abituato, e alcuna volta
da essa memoria delle colpe giá commesse v’è ritirato.
La terza cosa, la qual
dissi era da cercare, è di veder qual sia la via la quale l’autore
dice d’avere per questo sonno smarrita. Egli è il vero che le vie
son molte, ma tra tutte non è che una che a porto di salute ne meni,
e quella è esso Iddio, il quale di sé dice nell’Evangelio: «Ego
sum via,
veritas
et vita»;
e questa via tante volte si smarrisce (dico «smarrisce», perché
poi chi vuole la può
ritrovare,
mentre nella presente vita stiamo), quante le nostre iniquitá dai
piaceri di Dio ne trasviano, mostrandoci nelle cose labili e caduche
esser somma e vera beatitudine. E questa via, per la quale i nostri
avversari ci ritorcono, danna il salmista, dicendo: «Beatus
vir qui non abiit in
consilio
impiorum, et in via peccatorum non stetit»,
ecc.; ed in altra parte dice pregando: «Viam
iniquitatis amove a me, et in lege tua miserere mei».
Chiamasi ancora la vita presente «via»; e di
questa
dice il salmista: «Beati
immaculati in via»;
e in altra parte: «De
torrente in via bibit».
Ma, come detto è,
accioché di molt’altre lasciamo istare il ragionare, la prima è
quella per la quale, se la gloria eterna vogliamo, ci conviene
andare: e da questa si smarrisce ciascuno il quale nel sonno de’
peccati si lega. E, percioché, come di sopra è mostrato,
lusinghevolmente sottentrano i vizi, e cominciano in etá nella quale
pienamente conosciuti non sono, dice l’autore non ricordarsí come
questa via diritta abbandonasse. E credibile è. Chi sará colui che
pienamente della origine delle sue colpe si possa ricordare?
Conciosiacosaché esse vengano con diletto della sensualitá, e, quel
passato, quasi state non fossero, leggiermente in dimenticanza si
mettono.
La quarta cosa, la qual
propuosi da essere da investigare, fu qual cosa potesse esser quella
che l’autor movesse a ravvedersi che esso avesse la diritta via
smarrita. E questa, senza alcun dubbio, si dee credere che fosse la
grazia di Dio, il quale ci ama assai piú che non ci amiamo noi
medesimi, e sempre è alla nostra salute sollecito; il che assai bene
ne mostra Giovenale, dicendo:
Nam
pro iocundis aptissima quaeque dabunt dii:
carior
est homo illis, quam sibi,
ecc.
Ma, accioché noi
cognosciamo qual fosse la grazia di Dio, dalla quale l’autore tócco
si movesse a destarsi del sonno mortale, nel quale la mente sua era
legata, e a ravvedersi in qual pericolo fosse l’anima sua è da
sapere, sí come il «maestro delle sentenze» afferma, esser quattro
grazie quelle che la divina bontá ci presta alla nostra salute:
delle quali la prima è chiamata grazia «operante», della quale
dice san Paolo: «Per la grazia di Dio io sono quello che io sono»;
la seconda grazia si chiama grazia «cooperante», e di questa dice
san Paolo medesimo: «La grazia di Dio non fu in me vacua»; la terza
grazia si chiama «perseverante», della qual dice il salmista: «Et
misericordia
eius subsequatur me omnibus diebus vitae meae»;
la quarta grazia si chiama
«salvante»,
della quale si legge nell’Evangelio: «De
plenitudine eius omnes accepimus gratiam per gratiam».
Fa adunque la prima grazia, del malvagio uomo, buono, sí come nel
Libro della sapienza si
scrive: «Verte
ipsum, et non erit»;
e san Paolo dice: «Fuistis
aliquando tenebrae, nunc autem lux
in
Domino».
La seconda, cioè la cooperante, fa del buono, migliore; e di ciò
dice il salmo: «Ibunt
de virtute in virtutem».
La terza, cioè la perseverante, ne trasporta della via nella patria,
della quale
dice
l’Evangelio: «Qui
perseveraverit usque in finem, hic salvus erit»;
nell’Apocalissi
si legge: «Quicumque
vicerit, dabo ei edere de ligno vitae, quod est in paradiso Dei mei»;
e in altra parte nell’Apocalissi
medesimo: «Quicumque
vicerit, faciam illum columnam in templo Dei mei».
La quarta, cioè la salvante, secondo i meriti guiderdona i
faticanti; di che l’Evangelio dice: «Quid
hic
statis
quotidie ociosi? ite et vos in vineam meam, et quod iustum fuerit
dabo vobis»;
e san Paolo:
«ut
recipiat unusquisque secundum ea quae fecit».
Di queste quattro grazie, delle quali ho alquanto parlato, percioché
piú volte nel processo di questo libro se n’ará a ragionare, piú
diffusamente se ne vorrebbe esser detto; nondimeno questo basti al
presente. E dico che la prima grazia senza alcun merito di colui che
la riceve si dona; di che dice san Paolo: «Non
secundum opera quae fecimus
nos,
sed secundum suam misericordiam salvos nos fecit».
Le qualitá delle quali grazie considerate,
assai
manifestamente appare la prima delle quattro essere stata quella che
al nostro autore (e similemente a ciascun altro che in simile caso si
truova), fu conceduta da Dio, per la quale esso il suo misero stato
conobbe.
Ma potrebbe alcun
domandare: in che maniera tocca Domeneddio i peccatori con questa sua
grazia? Le maniere son molte, percioché a tanto artefice, quanto
Iddio è, non mancò mai modo a quello che egli volesse adoperare.
Dice il salmista: «Dixit
et facta sunt: mandavit et creata sunt».
Esso primieramente alcuna volta con visioni tocca le menti di coloro
che di questa grazia hanno bisogno, sí come noi leggiamo di
Costantino imperadore, il quale, dormendo, vide san Pietro e san
Paolo, e il loro ammaestramento udí, e poi si destò dal corporal
sonno e dal mentale, quello seguí, e gli errori del paganesimo tutti
da sé cacciò. Tocca alcuna volta con aperta visione, come fece san
Paolo quando andava a Damasco; e fu di sí fatta forza questo
toccamento, che esso divenne subitamente, di lupo, agnello e vaso di
elezione pieno di Spirito santo. Tocca ancora co’ suoi messaggeri, sí
come fece David, il quale per l’omicidio d’Uria e per l’adulterio
commesso in Bersabé, essendosi dal suo piacer partito, mandatogli
Nathan profeta, il fece riconoscere; il quale, piangendo, e in quel
salmo allora da lui composto, cioè «Miserere
mei, Deus»,
la sua misericordia addomandando, impetrò del commesso perdonanza; e
similemente Ezechia re, nunziatagli per comandamento di Dio da Isaia
profeta la sua morte, pianse e pregò, e impetrò quindici anni di
vita. Tocca ancora con tribulazioni intorno alle cose mondane; perché
gli uomini, sentendosi affliggere nella perdita de’ figliuoli e delle
possessioni, delle mercatanzie, degli stati e di simili cose, quasi
desti dal mortal sonno si ritornano verso Iddio, e ingegnansi
d’uscire della via delle tenebre e tornare alla luce. E quantunque
saper non possiamo qual si fosse, di queste o forse d’alcuna altra,
la maniera con la quale la grazia di Dio toccò l’autore addormentato
dal sonno mentale, credesi nondimeno per molti che da tribulazioni
fosse tócco; giá aveggendosi in questo tempo, nel quale la presente
opera incominciò, di quello che poi quasi a mano a mano gli avvenne,
cioè di dover perdere lo stato suo, e di dovere andar in esilio, e
di dovere nelle proprie cose ricever danno. Per la qual cosa, da
questa grazia operante tócco, cominciò a pensare, e pensando a
conoscere le cose presenti non avere alcuna stabilitá, esser piene
d’invidia e di pericoli, e nulla altra cosa in sé aver fermezza se
non il servire e amare Iddio. Dal quale pensiero fu cominciata a
rompere la nuvola della ignoranza, la quale infino a quella ora
l’avea occupato, e cominciò a conoscere la miseria dello stato de’
peccati, e ad avvedersi in quanti e quali fosse inviluppato, e in
quanto pericolo esso fosse lungamente dimorato d’andare ad eterna
perdizione.
La quinta cosa, che
dissi era da vedere, è perché piú nel mezzo della nostra vita che
in altra etá questo avvenisse. Intorno alla qual cosa è da sapere
questo vocabol «mezzo» potersi prendere in due modi. L’un modo è
quello che nella esposizione litterale dicemmo, cioè puntale; il
quale mezzo dirittamente quel
punto che igualmente è distante a due estremitá. Verbigrazia: egli
è una verga lunga due braccia, cioè dall’una estremitá della
verga all’altra sono due braccia; per che il mezzo puntale di questa verga
sara lá dove, dall’una estremitá cominciandosi e andando verso
l’altra la lunghezza d’un braccio, lá dove egli finirá, sia
puntalmente il mezzo di questa verga. E possiamo ancor dire il mezzo
puntale esser quel punto il quale la sesta fa, quando alcun cerchio
discriviamo; percioché questo in ogni parte del cerchio è
igualmente distante dalla circunferenza. La seconda maniera del mezzo
s’intende assai sovente ciò che si contiene intra due estremi, o
infra la circunferenza del cerchio; sí come Niccolaio di Tamech
sopra il Tito Livio dice che Arno è un fiume posto nel mezzo tra
Fiesole e Arezzo; e in alcun luogo dice la Scrittura, Ierusalem
essere nel mezzo del mondo: per lo qual mezzo molti intendono il
mezzo puntale, e ciò, come i geometri sanno, non è vero. E perciò
in questa parte è da prendere la parola dell’autore, quanto alla
persona sua, per lo mezzo puntale; percioché, come di sopra
mostrammo, egli era di etá di trentacinque anni, ch’è il mezzo
puntale della vita nostra, quando, tócco dalla grazia di Dio, si
ravvide dove l’aveva la ignoranza menato. Ma, percioché a ciascuno
uomo, in che etá egli si sia, può avvenire, anzi avviene tutto il
dí, che, abbandonata la via della veritá, s’entra ne’ vizi, e
similemente, per la grazia di Dio, il ravvedersi; si può per gli
altri, i quali in altra etá che l’autore si ravveggono, intender
questo mezzo quello spazio che è posto in fra il dí della nostra
nativitá e il dí della morte. E puossi quel mezzo il quale per
l’autore s’intende, che è intorno all’etá de’ trentacinque anni,
moralmente prendere, secondo che in quella etá ogni corporale virtú
è a sua perfezion venuta; e cosí, in qualunque tempo l’uomo si
ravvede del suo mal vivere e al ben vivere si converte, si può dire
ogni potenzia animale esser venuta in perfetta virtú; e cosí nella
buona disposizione, aiutato dalla grazia cooperante, perseverando, va
di questa virtú in altra maggiore, e di quell’altra in un’altra,
tanto che egli perviene dove ciascun discreto disidera al suo fine di
venire.
La sesta cosa, la qual
dissi che era da investigare, era quello ch’egli intendesse per
quella selva oscura e malagevole nella quale dice si ritrovò. È
adunque questa selva, per quello che io posso comprendere, lo
‘nferno, il quale è casa e prigione del diavolo, nella quale ciascun
peccatore cade ed entra, sí tosto come cade in peccato mortale. E
che ella sia lo ‘nferno, la discrizion di quella il dimostra assai
chiaro, in quanto dice che ella era «oscura», cioè piena
d’ignoranza (il che assai chiaro ne mostra Isaia quando dice:
«Erravimus
a via veritatis, et sol iustitiae non illuxit nobis»),
considerata la qualitá di coloro che in essa dimorano: peroché, se
in loro fosse alcuna luce di sapienza, non è alcun dubbio che non
cercasson tantosto d’uscirne. E chi è piú ignorante che colui il
quale, potendo schifare il fare contro a’ comandamenti del suo
Creatore (ché può ciascun che vuole), si lascia tirare alle
lusinghe della carne e del mondo e alle fallacie del dimonio? o che
pure, veggendosi per la nostra fragilitá tirato, non si sforza,
avendo la via, d’uscirne, ma, aggiugnendo l’una colpa sopra l’altra,
piú se medesimo inviluppa, e fa col continuo peccare piú tenebroso
il suo intelletto e piú forti le catene del suo avversario? Dice,
oltre a ciò, questa selva essere «selvaggia», sí come del tutto
strana da ogni abitazione umana: percioché nella prigion del
diavolo, nella quale noi medesimi peccando ci mettiamo, non è alcuna
umanitá, né pietá, né clemenzia, anzi è piena di crudelitá, di
bestialitá e di iniquitá. Né osta il dire: egli v’abitano gli
uomini peccatori; percioché questo non è vero; ché, come l’uomo ha
commesso il peccato, egli diventa quella bestia, li cui costumi son
simili a quel peccato. Verbigrazia: colui che nel vizio della
lussuria si lascia cadere, percioché la lussuria per la sua
bruttezza è simigliata al porco, esso diventa porco, quantunque
effigie umana gli rimanga; e il rapace diventa lupo, perché il lupo
è rapacissimo animale: e cosí quello luogo è salvatico, sí come
privato d’ogni umana stanza. È, oltre a questo, «aspra» per le
spine, per li triboli e per gli stecchi, cioè per le punture de’
peccati, li quali, continuamente dai morsi della coscienza infestati,
dolorosamente pungono il peccatore. Ed è «forte», in quanto
tenacissimi sono i legami del diavolo, e massimamente negli ostinati,
li quali, poi che nel profondo delle colpe caduti sono, della divina
misericordia disperandosi, disprezzano Iddio e turano gli orecchi
alli ammonimenti de’ giusti uomini e alla evangelica dottrina. E, per
queste qualitá, a colui il qual è tócco dalla divina grazia, ella
pare (e cosí è), piena di tanta amaritudine, che poco piú è la
morte eternale, nella quale alcuna dolcezza non s’aspetta giammai.
Nondimeno dice l’autore
alcun bene aver trovato in essa. Per lo qual bene niun’altra cosa
credo che sia da intendere, altro che la misericordia di Dio, la
quale non ha luogo che ne’ giusti s’adoperi; e cosí ne’ peccatori è
tanto necessaria, che, se essa non fosse, alcun nostro merito né
lagrima mai potrebbe sodisfare alla divinitá, del peccato commesso.
Ella adunque è quella, che, nella oscuritá della nostra ignoranza e
delle nostre colpe, colle braccia aperte si trova presta a non
guardare a’ difetti commessi, ma solamente alla buona affezione di
chi a lei rivolger si vuole per doverla ricevere; questa è quella,
la cui benignitá riguardata, a sé dalla disperazion ci ritira.
Della quale, sí come di bene trovato lá ove ella è opportuna,
l’autore dice di voler trattare, sí come fa nel libro secondo della
presente Commedia,
nel quale pienamente si posson comprendere e la sua santissima
liberalitá e pietosi effetti verso i peccatori, quantunque essi
abbiano incontro ad essa operato.
La settima cosa dissi
era da vedere perché piú nel principio del dí scriva l’autore
d’essersi ravveduto che ad altra ora. Puossi intorno a questa parte
dire, quanto gli uomini involti ne’ peccati dimorano, tanto dimorare
nelle tenebre della notte, cioè della ignoranzia; la quale, come la
notte toglie il poter conoscere o vedere le cose, quantunque nel
cospetto ci sieno, cosí toglie il cognoscere il vero dal falso e le
cose utili dalle dannose. E perciò, qualora avviene che la grazia di
Dio operante tocca il peccatore ed è da lui ricevuta, cosí comincia
a tornar la luce della conoscenza di Dio e di se medesimo e del suo
stato; e ognora che la luce apparisce, è di necessitá che le
tenebre della notte cessino; ed in quella ora che le tenebre cessano,
sí come manifestamente appare, è principio del dí, e massimamente
a colui il quale abbandona la notte della ignoranza, sollecitato e
sospinto dalla divina grazia. E di questo dice Osea profeta in
persona di Cristo: «In
tribulatione sua mane consurgent ad
me».
Ed il peccatore d’altra parte, come agli occhi dell’intelletto gli
apparisce la divina luce, giá le
sue
malvage operazioni cominciando a cognoscere, può dire quelle parole
del salmista: «Mane
adstabo
tibi et videbo: quoniam non Deus volens iniquitatem tu es».
Dunque congruamente finge
l’autore
di mattina essere stato questo ravvedimento, per lo quale si conobbe
essere nella oscura selva dei peccati e della ignoranza.
L’ottava cosa dissi era
da vedere quello che l’autor vuol intendere per lo sole che sopra il
monte vide e per lo monte. Per li monti intende la Scrittura di Dio
spesse fiate gli apostoli; e questo, percioché, come i monti son
quegli che prima ricevono i raggi del sole materiale surgente, cosí
gli apostoli furono i primi che ricevettero i raggi, cioè la
dottrina del vero sole, cioè di Gesú Cristo, il quale è veramente
sole di giustizia e luce, la quale illumina ciascuno che viene in
questo mondo. E che esso sia vero sole, per molte ragioni si
dimostrerebbe, le quali al presente per brevitá ometto. E, secondo
che io estimo, nell’autore, sentita la grazia di Dio, venne quel
desiderio, il quale si dee credere che vegna in ciascuno il quale
quella grazia in sé riceve: cioè di conoscere pienamente le colpe
sue, e qual via dovesse tenere per poter venire a salute; ed
occorsegli nella mente alcuna dottrina non potergli in questo suo
disiderio satisfare, come l’apostolica; rammemorandosi delle parole
del salmista, dove, parlando di loro, dice: «Non
sunt loquelae, neque sermones, quorum non
audiantur
voces eorum. In omnem terram exivit sonus eorum, et in fines orbis
terrae verba eorum».
E
però, fuggendo la confusione delle tenebre del peccato, si può dire
dicesse, come talvolta disse il salmista: «Levavi
oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi»;
volendo in questo dire che egli levasse gli occhi della mente alle
Scritture e alla dottrina apostolica, dalla quale sperava dovere
avere aiuto al suo bisogno. Ed accioché questa speranza gli si
fermasse nel cuore, dice che vide la sommitá di questo monte coperta
de’ raggi del pianeta, cioè del sole, a dimostrare che essa dottrina
apostolica sia illuminata del lume dello Spirito santo, il quale
veramente mena altrui diritto per ogni calle; cioè, da che che colpa
l’uom si parte, egli è da lui menato in porto di salute. E che la
dottrina degli apostoli sia santa e veramente piena de’ doni dello
Spirito santo, appare per le parole d’Isaia, dove dice: «Requiescet
super eum spiritus timoris Domini, spiritus sapientiae et
intellectus, spiritus
consilii
et fortitudinis, spiritus scientiae et pietatis, et replebit cum
spiritus timoris Domini».
Per che
l’autore,
e qualunque altro, veggendosi cosí fatto rifugio apparecchiato
davanti, dove prender lo voglia, puote meritamente sperare, e,
sperando, minuire la paura della morte eterna, nella quale il fanno dimorare le
catene del diavolo, mentre in esse dimora legato. E, oltre a ciò,
veggendo sopra questo monte il sole scacciatore delle tenebre eterne,
e il quale è toglitore de’ peccati, sí come noi di lui leggiamo:
«Ecce
agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi»;
puote ancora maggiormente sperar salute, sospinto dalle parole
d’Isaia, il quale dice: «Vobis,
qui timetis Deum, orietur sol iustitiae».
E perciò meritamente l’autore, conosciuto, lá dove era, esser valle
di miseria, sí si sforza di partir di quella e di voler salire al
monte, cioè alla dottrina della veritá, e a Colui il quale puote
liberare ciascuno, che con affetto vuole, delle mani dello ‘nferno.
[Lez.
VI]
La nona cosa, la qual
dissi considerar si volea, era quello che l’autor sentisse per la
considerazione avuta, poi che alquanto la paura gli cessò; e appare
per le sue parole essere stata del pericolo, nel quale si vedeva
essere stato la passata notte: per la quale dobbiamo intendere il
primiero atto dell’animo di colui che la passata miseria della sua
vita comincia a cognoscere. Il quale veramente non è altro che
paura, e spezialmente avendo egli spazio e alcuna luce di sentimento,
per la qual possa discernere quante e quali possano essere state
quelle cose che in quelle miserie l’avrebbono, ciascuna per se
medesima, potuto far morire di perpetua morte: e massimamente
cognoscendo la ingratitudine sua verso Iddio, dal quale infiniti
benefici ha ricevuti, cognoscendo la sua giustizia, la quale, passato
il tempo della misericordia, è irrevocabile, né si può, come
quella de’ mortali giudici, con prieghi né con lagrime piegare, né
corromper con doni o con eccezioni prolungare. Dalla quale
considerazione si levan presti coloro, li quali invano non ricevono
la divina grazia, e per la diserta piaggia a salire al monte muovono
i passi loro. E dice «diserta», percioché ancora è sterile e
senza alcun virtuoso frutto l’anima di colui che pure ora ora
comincia a partirsi della via del peccato.
La decima cosa, la
quale da essere cercata dissi, è quello che noi dobbiamo sentire per
le tre bestie, le quali l’autor mostra che impedivano il suo cammino.
[Ed intorno a questo è da considerare queste bestie altrimenti
doversi intendere avendo riguardo solamente all’autore, e altrimenti
avendo riguardo generalmente a ciascun peccatore, che vuole alla via
della veritá ritornare, percioché non ogni uomo igualmente è da
una medesima passione impedito: e perciò avviso l’autor ponesse
quello che a lui sentiva s’appartenesse e di che piú si conosceva
passionato. E però primieramente quello dirò ch’io sentirò per
queste tre bestie appartenere all’autore; poi, se niuna cosa v’avrò
da mutare per riducerle al senso spettante all’universitá dei
peccatori, come saprò, il farò e dimostrerò].
Dice adunque che,
essendo nella predetta meditazione, diliberato di lasciare la valle
oscura e di salire al monte luminoso e chiaro, cioè alla dottrina
apostolica ed evangelica, essere state tre bestie quelle che il suo
salire impedivano: una leonza, o lonza che si dica, e un leone e una
lupa. Le quali, quantunque a molti e diversi vizi adattare si
potessono, nondimeno qui, secondo la sentenzia di tutti, par che si
debbano intendere per questi: cioè per la lonza il vizio della
lussuria, e per lo leone il vizio della superbia, e per la lupa il
vizio dell’avarizia. E, percioché io non intendo di partirmi dal
parere generale di tutti gli altri, verrò a dimostrare come questi
animali a’ detti vizi si possono appropriare; e poi, se all’autore
parrá di dovergli attribuire, rimangasi nello arbitrio di ciascuno.
Sono adunque nella
lonza, tra l’altre molte, quattro singolari proprietá: ella
primieramente è leggierissima del corpo, tanto, o piú, quanto alcun
altro quadrupede sia; appresso, la sua pelle è leccata, piana e di
molte macchie dipinta; oltre a questo, ella è maravigliosamente vaga
del sangue del becco; ultimamente, ella è di sua natura crudelissimo
animale.
Le quali quattro
proprietá, secondo il mio giudicio, sono mirabilmente conformi al
vizio della carne: percioché la sua leggerezza è a dimostrare la
levitá degli animi di quelle persone o che con l’appetito o che
attualmente con esso vizio s’inviscano; imperoché essi alcuna volta
ardon tutti, da fervente disiderio della cosa amata accesi, e
alcun’altra son piú freddi che la neve, cessando punto la speranza
della cosa amata; e quasi in un momento ridono e cantano, e
lamentansi e piangono, e cosí
insuperbiscono subito, e subitamente diventano umili; ora turbati
garrono e gridano, e di presente mitigati lusingano. Le quali levitá
ottimamente discrive Plauto in una sua commedia chiamata Cistellaria,
dove un giovane, piú che uopo non gli era, invescato in questa
pania, dice cosí:
Credo ego amorem
primum apud homines carnificinam commentum, hanc ego de me
coniecturam domi facio, ne foras quaeram, qui omnes homines supero,
atque antideo cruciabilitatibus animi. Iactor, crucior, agitor,
stimulor, vexor vi amoris totus, miser. Exanimor, feror, differor,
distrahor, diripior: ita nullam mentem animi habeo: ubi sum, ibi non
sum: ubi non sum, ibi est animus: ita mihi omnia ingenia sunt. Quod
lubet, non lubet iam id continuo. Ita me amor lassum animi ludificat,
fugat, agit, appetit, raptat, retinet, iactat, largitur: quod dat,
non dat: deludit: modo quod suasit, dissuadet: quod dissuasit, itidem
ostentat. Maritimis moribus mecum expelitur: ita meum frangit amantem
animum neque, nisi quia miser ne eo pessum, mihi ulla abest perdito
pernities, ecc.
Oltre a ciò, questo
disonesto appetito è velocissimo in permutarsi, e salta tosto d’una
cosa in un’altra: un muover d’occhi, un atto vezzoso, un riso, una
guatatura soave, una paroletta accesa, una lusinga, d’uno amore in un
altro, come vento foglia, gli trasporta; e ora avendo a schifo questa
che piacque, e ora desiderando quella che ancora non era piaciuta,
dimostrano il lieve movimento della lor mente. La infelice Didone,
secondo Virgilio, per un forestiero affabile, mai piú non veduto,
subitamente dimenticò il lungamente e molto amato Sicheo; assai bene
verificando quello che l’autore, nel Purgatorio,
delle femmine dice:
Per
lei, assai di lieve si comprende
quanto
in femmina fuoco d’amor dura,
se
l’occhio o ‘l tatto spesso nol raccende.
Giasone dell’amor
d’Isifile in brieve tempo saltò in quel di Medea, e, lei
abbandonata, poi si rivolse a Creusa. Le quali inconvenienze e
disordinati appetiti, assai bene convenirsi la leggerezza di questa
bestia co’ miseri libidinosi dimostrano.
Appresso, la pelle sua
leccata e di macchie dipinta, non meno che la predetta, si confá co’
costumi de’ lascivi; percioché quegli, gli quali da tal passione son
faticati, quanto possono, o per pigliare o per tenere, si studiano di
piacere; per la qual cosa s’adornano di vestimenti vari, pettinansi,
lavansi e dipingonsi, specchiansi, tondonsi, vanno e tornano,
cantano, suonano, spendono, gittano, e, dove di parer piú begli e
piú accettevoli si sforzano, vituperevolmente di disoneste ed enormi
brutture si macchiano. Con queste armi e’ prese e fu preso Paris da
Elena; con queste armi mise Dalila nelle mani de’ suoi nemici
Sansone; con queste armi prese e irretí Cleopatra Cesare.
E, oltre a questo,
questa bestia è maravigliosamente vaga del sangue del becco. Intorno
alla qual cosa si dee intendere in questo dimostrarsi l’appetito
corrotto di coloro li quali in questa bruttura si mescolano:
percioché, sí come il becco è lussuriosissimo animale, cosí, per
l’usare questo vizio, piú lussurioso si diviene. Per la qual cosa
alcuni miseramente, credendosi in cotal guisa sviluppare, non
accorgendosene, s’inviluppano; percioché non questo, come gli altri
vizi, per continuo combattimento si vince, ma per fuggire: il che
ottimamente dimostrarono i poeti nella scrizione della battaglia
d’Ercule e d’Anteo. E, oltre a ciò, il becco è fiatoso animale e
olido, del quale questa bestia si diletta: in che si dimostra la
vaghezza dei libidinosi intorno al fiatoso e abbominevole atto
venereo, il quale è intanto al naso e agli occhi noioso e allo
‘ntelletto umano, che se non fosse che la natura ha in quello posto
maraviglioso diletto, accioché l’umana specie per non generare non
venga meno, io sono d’opinione che ciascuno come fastidiosissima cosa
il fuggirebbe. E la dilettazione, la quale questa bestia ha del
sangue del becco, assai chiaro dimostra l’appetito che ciascuna delle
parti di quegli, che a questa turpitudine si congiungono, hanno del
fine di quello disonesto atto; nel
quale il sangue de’ miseri dannosamente tante volte, quante per altro
che per generare si versa, non meno biasimevolmente, che se in una
fetida sentina si gittasse, si perde. Senza che, per questo i nervi
indeboliscono, il veder ne raccorcia, i membri ne diventan tremuli, e
la nodosa podagra, con gravissima noia di chi l’ha, tiene tutto il
corpo quasi immobile e contratto; e cosí non solamente se n’offende
Iddio, ma ancora se ne guastano i miseri la persona. Per questo
convenne a Gaio Antonio, poste giú l’armi, militare con l’animo
dietro a Catellina; e, come che piú non me ne ridica or la memoria,
non è da dubitare che i passati secoli non ne sieno stati cosí
copiosí come veggiamo l’odierno.
Ultimamente dissi
questo animale essere crudele, per la qual crudeltá è da intendere
la crudeltá di questo peccato, il quale quegli, che piú con lui si
dimesticano e congiungono, le piú delle volte conduce a crudelissime
spezie di morte. Quanti robusti giovani, quante vaghe donne, mentre
senz’alcun freno questo disonesto diletto hanno seguito, hanno giá
la lor morte, dopo faticosa infermitá, avacciata? Quanti ancora, non
potendo sofferire né por modo al loro fervente disiderio di
pervenire a quello, hanno se medesimi disonestamente disfatti? Il non
potere aspettare Demofonte, suo amico, condusse Fillide ad
impiccarsi. La miseria di questo vizio diede ad Artabano medo
vittoria sopra Sardanapalo. E qual porco crederem noi che uccidesse
Adone altro che il soperchio coito con Venere, reina di Cipri, sua
moglie?
Bene adunque si può
questa bestia dire essere la concupiscenza carnale, la quale,
lusinghevole insino alla morte, con tutte quelle mortali dolcezze
ch’ella porge, facendosi incontro alla sensualitá umana, qualora
l’animo, riconosciuta la tristizia di quella, da essa partir si vuole
e alle divine cose tornarsi, con non piccola forza s’ingegna di
ritenerlo, non partendoglisi dinanzi dal volto; quasi voglia dire:
rammemorando tutte quelle persone che giá sono state amate, tutti
quegli atti, tutte le parole che giá sono state piaciute; le
lagrime, la promessa fede, i rotti sacramenti con pietoso aspetto
ricordandogli; con false dimostrazioni suadendogli che questa
castitá, questo proponimento riserbi agli anni vecchi, e non voglia
ora perdere quello che mai non dee potere recuperare. Con li quali
conforti, e altri molti a questi simiglianti, nel quarto dell’Eneida
mostra Virgilio essersi Didone ingegnata di ritenere Enea e dalla
gloriosa impresa rivolgerlo, come giá assai dal buon principio hanno
rivolti al doloroso fine d’eterna perdizione.
Questa adunque si parò
davanti al nostro autore, per doverlo fare nelle abbandonate tenebre
ritornare; il quale dall’ora del tempo e dalla dolce stagione prese
speranza di vincere questo vizio oppostosi alla sua salute. Per la
quale ora del principio del dí credo sia da prendere l’ora o ‘l
tempo nel quale Cristo prese carne umana; il quale prender di carne,
fu senza alcun dubbio il principio della nostra salute il principio
della riconciliazione del nostro signore Iddio con la nostra umanitá,
il principio del tempo accettevole, il quale per tante migliaia
d’anni fu aspettato. E questo, percioché in quel proprio dí fu,
cioè di venticinque di marzo, nel quale, sí come apparirá
appresso, il nostro autore dice sé essere risentito dal sonno
mortale. E cosí vuole adunque l’autore darne a vedere che, di ciò
ricordandosi, prendesse buona speranza della misericordia di Colui,
senza la quale non si puote avere d’alcun vizio vittoria. La stagione
del tempo similmente gli die’ buona speranza, conoscendo che in
quella stagione era cominciato il tempo della grazia, e aperta la via
alla nostra salute, lungamente stata serrata, ed il nemico della
umana generazione abbattuto: per che sperar si dovea di poter
similmente abbattere i suoi ministri.
La seconda bestia, la
qual si fece incontro al nostro autore, fu un leone, il quale dissi
essere inteso per la superbia, alla quale, come egli si confaccia, ne
mostreranno alcune delle sue proprietá, a quelle del vizio poi
equiparate. È il lione non solamente audace ma temerario; e appresso
è rapace e soprastante; ed è ancora altisono nel ruggir suo,
intanto che egli spaventa le bestie circunvicine che l’odono: e, come
che assai piú ce n’abbia, queste tre bastino a mostrare per lui
ottimamente potersi intendere il vizio della superbia.
Dissi adunque il lione
essere non solamente audace ma temerario; percioché, senza misurare
le forze sue, non è alcuno animale sí forte (che ne sono assai piú
forti di lui), il quale egli non presuma d’assalire; di
che egli talvolta con gran suo danno è ributtato indietro. Ed
Aristotile nel terzo dell’Etica,
lá dove parla della fortezza, dice che l’esser temerario è vizio,
in quanto il temerario presume, oltre alle sue forze, quello che a
lui non s’appartiene. E questo vizio è il presumere alcuno di
combattere con due o con tre o con piú; conciosiacosaché ciascuno
debba credere uno poter quanto un altro, e con quell’uno mettersi a
combattere è ardire e segno di fortezza; dove l’andar contro a piú,
potendogli schifare, è temeritá. In questo l’uomo superbo è
simigliante al leone, percioché il disiderio del superbo è tanto di
parer quello che egli non è, che cosa non è alcuna sí grave, che
egli non presuma di fare, quantunque a lui non si convenga, sol che
egli creda per quello essere reputato magnanimo. E questa cechitá ha
giá messo in distruzione molti regni, molte province e molte genti;
questa fu cagione al primo agnolo d’esser cacciato di paradiso con
tutti i suoi seguaci; questa fu cagione a Capaneo d’esser fulminato e
gittato dalle mura di Tebe in terra; questa fu cagione a Golia
d’essere ucciso da David, come la Scrittura ne dice.
Dissi ancora che il
lione era rapace e soprastante: la qual cosa è quanto piú può
propria del superbo, al quale, quantunque ricco sia, non soffera
l’animo d’esser contento al suo, ma continuamente prieme e oppressa i
minori, ruba l’avere, occupa le possessioni, batte e ferisce i
resistenti, e in ciascun suo atto è violento e pieno d’ogni
nequizia, e in ogni cosa vuol soprastare agli altri, estimando per
questo lo stato suo divenir maggiore, esser piú temuto e di piú
eccellente animo reputato. La qual cosa condusse Giugurta, re di
Numidia, ad essere del sasso Tarpeio gittato nel Tevero; e Iezzabel
ad essere della torre sospinta, e da’ cavalli e da’ carri e dagli
uomini scalpitata, e divenir loto e sterco della vigna di Nabaoth: e
Antioco re d’Asia e di Siria essere oltre al monte Tauro da’ romani
rilegato.
Similemente dissi che
il leone era altisono nel ruggir suo e ch’egli spaventa le bestie
circunstanti; il che Amos profeta dice: «Leo
rugiet, quis non timebit?».
Al qual romore il vizio della superbia è evidentissimamente
simigliante, in quanto l’uomo superbo sempre usa parole altiere,
spaventevoli e oltraggiose in ogni suo fatto; sempre parla di sé e
de’ suoi gran fatti, e dilettasi e vuole che altri ne parli; quello
estimando d’essere che i paurosi ragionano per piacergli. Per la qual
bestialitá, Nabucdonosor, di se medesimo per divina operazione
ingannato, lasciato il solio reale, n’andò a pascer l’erbe ne’
boschi; Simon mago cadde d’aria e fiaccossi la coscia; Roboam, re de’
giudei, de’ dodici tribi d’Israel ne perdé nove.
Le quali cose sanamente
considerate, assai aperto dimostrano noi dover potere per lo leone,
al nostro autore apparito, intendere il vizio della superbia, la
quale all’uomo, che da lei e dall’altre nequizie si vuol partire e
tornare nel cammino delle virtú, si para dinanzi agli occhi della
mente, non lusingandolo, ma spaventandolo, col mostrargli che, dove
egli la sua maggioranza, il suo altiero stato abbandoni, egli diverrá
un menomo plebeio; né sará mai ad alcuna gran cosa chiamato, e
intra’ suoi di niuna reputazione avuto, sará dispettato, e da
coloro, li quali esso ha giá premuti, offeso e scalpitato, rubato e
spogliato; e, se egli ancora del suo stato scende, non vi potrá,
quando vorrá, risalire. [Para ancora la gloria della preminenza, la
potenza del levare in alto e d’abbassare secondo il suo volere, la
pompa degli onori, e simili cose assai.] Le quali cose senza alcun
dubbio hanno molto a muovere le tenere menti e a renderle timide di
cadere, e per conseguente a farle ritirare indietro dalla laudevole
impresa. Ma a queste due, dice l’autore essere ancora ad impedire il
suo cammino sopravvenuta una lupa, e quella, piú che l’altre due,
averlo spaventato e ripintolo indietro.
La terza bestia, che
davanti all’autore si parò, fu una lupa, fiero animale e orribile,
il quale, come davanti dissi, è inteso per l’avarizia, con la quale
come costei si convenga, come nell’altre due abbiam fatto, alcune
delle sue proprietá prese, e con quelle del vizio conformatole, il
mostreranno. Manifesta cosa è la lupa essere animale famelico e
bramoso sempre; appresso, quando quel tempo viene, nel quale ella è
atta a dovere concépere, avendo molti lupi dietro continuamente, a
quello il quale piú misero di tutti le pare, gli altri schifati, si
concede; e, oltre a ciò, il lupo è animale sospettissimo, continuo
si guarda d’intorno, e quasi in parte alcuna non si rende sicuro,
credo dalla coscienza sua medesima accusato.
Dico adunque la lupa
essere famelico e bramoso animale, e quel medesimo essere l’uomo
avaro; percioché, quantunque l’uomo avaro abbia quello che gli
bisogna, onestamente e in qualunque guisa ragunato, forse con molta
sollecitudine e gran suo pericolo, non sta a quel contento; ma, da
maggior cupiditá acceso e da nuova sete stimolato, in ciascun suo
esercizio piú che mai si mostra affamato; e, per sodisfare a questa
insaziabile fame, niun pericolo è, niuna disonestá, niuna falsitá
o altra nequizia, nella qual’e’ non si mettesse. Per la qual cosa
Virgilio, nel terzo dell’Eneida,
fieramente la sgrida, dicendo:
…
Quid non mortalia pectora cogis,
auri
sacra fames?
Secondariamente il
vizio dell’avarizia si mette in uomini cattivi e pusillanimi; il che
appare, in quanto in alcun valente uomo o magnanimo non si vede
giammai; e che essi sieno cosí, le loro operazioni il dimostrano.
Metterassi l’avaro in una piccola casetta, e in quella, in continua
dieta per non spendere, dimorando senza muoversi, dieci e venti anni
presterá ad usura, vestirá male e calzerá peggio, rifiuterá gli
onori per non onorare, e, dove egli dovrebbe de’ suoi acquisti esser
signore, esso diventa de’ suoi tesori vilissimo servo; e, quanto
maggiore strettezza fa del suo, tanto tien gli occhi piú diritti
all’altrui. Sempre è pieno di rammarichii, sempre dice sé esser
povero, e mostrasi; e, brievemente, facendosi dei beni della fortuna
tristissima parte, quanto l’animo suo sia piccolo e misero
manifestamente dimostra. Nelle quali cose si può comprendere
l’avarizia accompagnarsi con la piú misera condizione d’uomini che
si trovi, come la lupa col piú tristo de’ lupi si congiugne.
Appresso questo, dissi
il lupo essere sospettoso animale: la qual cosa esser l’avaro, i suoi
costumi il dimostrano. Esso con alcun suo amico non comunica la
quantitá de’ suoi beni, sospicando non la gran quantitá palesata
gli generi agguati o invidia. E, oltre a ciò, niuna fede presta
all’altrui parole; sempre suspica che viziatamente gli sia parlato
per sottrargli alcuna cosa; in niuna parte estima essere assai
sicuro, e di ciascuno, che guarda la porta della sua casa, teme non
per doverlo rubare la riguardi. Alcun sonno non puote avere intero,
né riposata alcuna notte; ogni piccol movimento di qualunque menomo
animale suspica non andamento sia di ladroni; e, non fidandosi delle
casse ferrate, i suoi danari fida alle cave e fosse sotterranee. Chi
potrebbe assai pienamente narrare i sospetti de’ miseri avari, li
quali tutti in sé convertono i lacciuoli, li quali giá hanno tesi
ad altrui?
E perciò, dovendo
bastare quello che detto n’è, credo assai convenientemente
l’avarizia o l’avaro convenirsi alla lupa, la quale piena di spavento
si para davanti a colui, il quale i disonesti guadagni e l’altre men
che buone opere vuole lasciare, per dovere in miglior via ritornare.
E nel cuore gli mette cotali pensieri: – Che fai tu, misero? ove vuo’
tu andare? da qual parte comincerai tu a rendere i furti, le ruberie
e le baratterie e i denari in mille modi male acquistati? vuo’ tu
lasciare quello che tu hai, per quello che tu non sai se tu l’avrai?
vuo’ tu avere tanta fatica, tanto tempo perduto, quanto tu hai messo
in ragunare? vuo’ tu venire alla mercé degli uomini? come faranno i
figliuoli tuoi? vuogli tu vedere morir di fame? come fará la tua
bella donna, e tu, misero, come farai? Tu diventerai favola del
vulgo, tu sarai schernito, e non sará chi ti voglia vedere né
udire. Tu puoi ancora indugiare; ogni volta, eziandio morendo, puo’
tu lasciare il tuo a coloro da’ quali tu l’hai avuto. Egli sará il
meglio che tu attenda a guadagnare. –
E con questa e con
simili dimostrazioni, che il misero fa per sudducimento e opera del
dimonio, il quale alla nostra salute sempre s’oppone quanto può,
spesse volte siamo frastornati; e, avuta poco a prezzo la grazia di
Dio, nella nostra miseria ricaggiamo, e per conseguente in eterna
perdizione ruiniamo. Né a guardarcene mai c’induce l’etá piena
d’anni; percioché, quantunque gli altri vizi invecchino con gli
uomini, solo l’avarizia inringiovenisce. E di ciò furono verissimi
testimoni Tantalo, Mida e Crasso, li quali, morendo, prima lei
abbandonarono che essa da loro, vivendo, fosse abbandonata.
[Poterono adunque
questi vizi essere all’autore in singularitá cagione di resistenza e
di paura. Ma che direm noi, in generalitá, che questi tre animali
significhino in altri assai, che, dal vizio partendosi, vogliono alla
virtú ritornare? Nulla altra cosa m’occorre, alla quale queste tre
bestie si possano meglio adattare, che sia quello il che è a tutti
comune, che alli tre nostri principali nemici, cioè la carne, il
mondo, il diavolo; e per la carne intender la lonza, per lo mondo il
leone, e ‘l diavolo per la lupa. Questi tre continuamente vegghiano e
stanno intenti alla nostra dannazione. La carne ne lusinga con la
dolcezza de’ diletti temporali, sotto a’ quali è nascoso il veleno
infernale, il qual noi, come il pesce con l’ésca piglia l’amo, cosí
quasi sempre co’ diletti prendiamo, e, di ciò velenati, miseramente
moiamo. Per la qual cosa il nostro Salvador n’ammaestra e sollecita
di stare attenti a non lasciarci ingannare, quando dice: «Vigilate,
et orate: spiritus quidem promptus, caro
autem
infirma».
E san Paolo similemente ne rende avveduti e cauti, quando dice:
«Spiritus
concupiscit adversus carnem, et caro adversus spiritum»;
vogliendone per questo ammaestrare che
noi
siamo e avveduti e forti a resistere alle tentazioni carnali. Il
simigliante fa il mondo: questi ne para dinanzi gli splendor suoi,
gl’imperi, i regni, le province, gli stati e la pompa secolare, gli
onori e la peritura gloria; nascondendo sotto la sua falsa luce i
tradimenti, le violenze, gl’inganni, le guerre, l’uccisioni,
l’invidie e i furori e i cadimenti e altre cose assai, senza le quali
né pigliare né tenere si possono queste preeminenze, questi
fulgori, queste grandezze temporali: le quali tutte, e ciascuna, n’ha
a privare di pace e di riposo e della eterna beatitudine.
Susseguentemente il dimonio, rapacissimo ed insaziabile divoratore,
pieno d’ingegno e d’avvedimento nel male adoperare, ne minaccia e
spaventa di ruine, di tempeste, di tribulazioni, se della sua via
usciremo; attorniandoci sempre con agguati, non forse da quelle
volessimo deviare. E in tanta ansietá con le sue dimostrazioni assai
volte ci reca, che, toltoci lo sperare della divina misericordia, a
volontaria morte c’induce: e cosí impedisce tanto chi vuole alla via
della veritá ritornare, che egli nelle tenebre eterne il conduce. E
queste sono le paure, questi sono gl’impedimenti e le noie che
preparate e date da’ nostri nemici ne sono, e il nostro ben volere
adoperare impedito e frastornato, come nella corteccia della lettera
l’autore ne dimostra.]
«Mentre ch’io ruinava
in basso loco». Nella precedente parte di questo canto è stato
dimostrato, per opera della divina grazia il peccatore aver
conosciuto il suo stato, e disiderar d’uscir di quello, e tornare
alla via della veritá, da lui per lo mentale sonno smarrita; e,
oltre a ciò, quali sieno le cose le quali il suo tornare alla
diritta via impediscono: in questa parte dimostra il divino aiuto al
suo scampo mandatogli, accioché, schifato lo ‘mpedimento delli detti
vizi, esso possa quel cammin prendere e seguire che opportuno è alla
sua salute. E come questo mandato gli fosse, piú distintamente si
mostrerá nel canto seguente. E, percioché, come noi per esperienza
veggiamo, coloro i quali delle infermitá si lievano, esser deboli e
male atanti della persona; cosí creder dobbiamo esser l’anima, la
quale dalla infermitá del peccato levandosi, s’ingegna di tornare
alla sua sanitá. E, come il nostro corpo infermo, senza l’aiuto
d’alcun bastone sostener non si puote, né muoversi ad alcuno atto
utile; cosí l’anima nostra, dal peccato vinta e stanca, senza alcuno
aiuto della divina clemenza non può cosa alcuna aoperare in sua
salute. E perciò intende qui l’autore di mostrarci come Iddio, il
quale ha sempre gli occhi della sua pietá diritti a’ nostri bisogni,
ne mandi la sua seconda grazia, cioè la cooperante, con l’aiuto e
colla dimostrazione della quale noi prendiam forza e noi medesimi
ordiniamo; e, riconosciute con piú avvedimento le nostre colpe, nel
timor di Dio torniamo, e della terza grazia, perseverando, ci facciam
degni, e quindi della quarta.
Le quali cose in questa
parte l’autore sotto il velame de’ suoi versi intende, sentendo per
Virgilio questa seconda grazia cooperante; e lui prende come
sofficiente, sí per discrezione, e sí per iscienza, e sí ancora
per laudevoli costumi atto a tanto uficio; e, oltre a ciò, percioché
Virgilio, quantunque con altro senso, in parte trattò quella
medesima materia, la quale egli intende di trattare; e ancora,
percioché il trattato dee essere poetico, era piú conveniente un
poeta che alcuno altro sublime uomo; e però prese lui, piú tosto
che alcun altro, percioché egli tra’ latini ottiene il principato.
E costui, dice, gli
apparve «nel gran diserto», cioè in quella parte dove l’anima sua,
timida di non essere dalle lusinghe e dagli spaventamenti de’ suoi
viziosi pensieri ritirata nel profondo delle miserie, del quale del
tutto era disposto d’uscire, si ritrovava senza consiglio alcuno e
senza conforto.
Ed è in questa parte
da intendere in questa forma: che Virgilio, lá dove bisogno será,
nella presente opera s’intenda per la ragione a noi conceduta da Dio,
e per la quale noi siamo chiamati «animali razionali»; percioché
la ragione è quella parte dell’uomo, nella quale si dee credere
questa seconda grazia ricevere e abitare, conciosiacosaché essa ne
sia da Dio data non solamente a cooperare con l’altre nostre potenze
animali e intellettive, ma a dirizzare e a guidare ogni nostra
operazione in bene. La qual cosa ella fa, mossa e ammaestrata dalla
divina grazia, quante volte è da noi lasciata esser donna e
imperadrice de’ nostri sensi; ma, quando la sensualitá, per le
nostre colpe, la caccia del luogo suo e signoreggia ella, la ragion
tace e diventa mutola, non comanda, non dispon piú secondo il suo
consiglio le nostre operazioni. E, percioché sotto i piedi della
sensualitá era nell’autore lungo tempo giaciuta, si può dire che
nel primo muover delle sue parole paresse «fioca».
Questa adunque, come il
disiderio della virtú torna, abbattuta la sensualitá, risurge e
torna nella sua sedia e manifestasi alla destituta anima, constituta
«nel diserto», cioè nel luogo d’ogni virtú, d’ogni buona
operazione, vacuo, pronta e apparecchiata ad ogni sua opportunitá:
[e, avanti ad ogni altra cosa, fa in se medesima maravigliar l’anima
riconosciuta; per che, lasciando di salire a Cristo, il quale è
principio e cagione d’intera beatitudine, si lascia dallo
spaventamento dei vizi sospignere allo ‘nferno. Della qual cosa segue
che la ragione, mostrandole apertamente che cosa sia l’avarizia, e
qual sia il fine suo, cioè che dalla liberalitá, la quale è morale
e laudevole virtú, ella fia scacciata, superata e vinta, e in
inferno rimessa lá onde il diavolo, per invidia della gloriosa vita
promessa all’umana generazione, la trasse e menolla nel mondo,
accioché per la sua opera, l’anime, create ad essere beate, fossero
laggiú traboccate, onde ella era stata menata]. E di questo séguita
che, poiché, per lo impedimento dei vizi, quella via piú propinqua
di salire a Dio gli era tolta, che a lui conveniva, e a ciascun
convenirsi che vuole uscir della via del peccato e a Dio ritornarsi,
seguire la ragione, dimostratrice della veritá, a vedere que’ luoghi
che nel testo si leggono.
Intorno alla qual cosa
è da sapere non essere senza misterio, volendo uscire dello stato
della miseria e ritornar nella grazia, tenere il cammino che la
ragion dimostra all’autore convenirsi tenere. E la ragione può esser
questa: opportuno è a ciascuno, il quale vuol fare quello che detto
è, primieramente conoscere le colpe sue; alle quali, conosciute, e
veduto come dalla giustizia di Dio siano quelle colpe punite, non è
dubbio seguire nell’anima ben disposta il timor di Dio, il quale è
principio della sapienza, come il salmista ne dice. Questo timore di
Dio incontanente fa seguire nelle nostre menti contrizione e
pentimento delle cose non ben fatte; dalla quale, secondo che la
censura ecclesiastica ne dimostra, si viene [alla confessione, e da
quella] alla satisfazione, dopo la quale si sale alla gloria, come
possiamo ordinatamente comprendere, nel cammino che il nostro autore
tiene, seguire. E tutte queste cose, insino al salire alla gloria, ne
può la nostra ragion dimostrare; percioché tutti sono atti civili e
morali e reduttibili agli spirituali.
[Nasce adunque da
questo il consiglio, il quale la ragione, che tien qui luogo della
grazia cooperante, gli dá, cioè che egli per lo ‘nferno, cioè per
gli atti degli uomini terreni (li quali, a rispetto de’ corpi
celestiali, ci possiam reputare di essere in inferno); e, tra quegli,
considerati quegli che la nostra ragione, le leggi positive e la
divina dannino: conoscerá quello da che astener si dee ciascuno che
secondo virtú vuol vivere, e quello che, seguendol, merita pena, e
qual pena secondo le leggi temporali e secondo l’eterne; conoscerá
la giustizia di Dio, e meritamente avrá timore dell’ira sua. E da
questo luogo, giá delle cose men che ben fatte pentendosi, venga a
vedere coloro che son contenti nel fuoco, cioè nell’afflizione della
penitenzia; accioché quindi, dietro alla guida della teologia, le
cui ragioni e dimostrazioni la nostra ragion non può comprendere,
salga purgato delle offese all’eterna beatitudine.] Ed in questo mi
pare consista la sentenza dell’allegoria di questo primo canto.
Restaci nondimeno a
vedere una parte, alla quale pare che dirizzi l’animo ciascuno che il
presente libro legge, e quella disidera di sapere; cioè quello che
l’autore abbia voluto sentire per quello veltro, la cui nazione dice
dovere esser «tra feltro e feltro». E, per quello che io abbia
potuto comprendere, sí per le parole dell’autore, sí per li
ragionamenti intorno a questo di ciascuno il quale ha alcun
sentimento, l’autore intende qui dovere essere alcuna costellazion
celeste, la quale dee negli uomini generalmente impriemere la vertú
della liberalitá, come giá è lungo tempo, e ancora persevera
quella del vizio dell’avarizia. Il che l’autore assai chiaro dimostra
nel Purgatorio,
dove dice:
O
ciel, nel cui girar par che si creda
le
condizion di quaggiú trasmutarsi,
quando
verrá, per cui questa disceda?
cioè
questa lupa, per la quale, come detto è, s’intende il vizio
dell’avarizia. [Or non so io, se questo dovere avvenire, l’autore ne’
moti futuri de’ superiori corpi si vide, o se per alcuna altra
coniettura ciò dovere avvenire s’è avvisato: è nondimeno assai
chiaro i costumi degli uomini mutarsi e d’una parte in altra
trasportarsi. Percioché, sí come ne mostrano le istorie de’ gentili
e ancora dell’altre, lo ‘mperio delle cose temporali cominciando
sotto Nino re, fu molte centinaia d’anni sotto gli assiri, sotto i
medi e sotto i persi; e lungamente avanti v’era stata la religione e
la scienza, le quali, come prima lá erano state, cosí primieramente
se ne partirono, e vennerne in Egitto, e d’Egitto in Grecia; e poi da
Alessandro re di Macedonia fu d’Asia lo ‘mperio trasportato in
Grecia, donde la scienza, la religione e l’armi poi partendosi ne
vennero appo i latini, e qui per lungo spazio furono; poi di qui
paiono andate inver’ ponente, essendo appo i tedeschi e appo i galli,
e par giá che il cielo ne minacci di portarle in Inghilterra: il che
per avventura potrá, se piacer fia di Dio, di questa costellazione
che l’autor dice, avvenire, ecc.] E, percioché queste impressioni
del cielo conviene che quaggiú s’inizino, e comincino ad apparere i
loro effetti o per alcuno uomo, o per piú; par l’autore qui sentire
che per uno si debbano gli alti effetti di questa impression
dimostrare: il quale metaforice
chiama «veltro», percioché i suoi effetti saranno del tutto cosí
contrari all’avarizia, come il veltro di sua natura è contrario al
lupo.
E costui mostra dovere
essere virtuosissimo uomo, e che la nazion sua debba essere tra
feltro e feltro. E questa è quella parte dalla quale muove tutto il
dubbio che nella presente discrizion si contiene. La qual parte io
manifestamente confesso ch’io non intendo: e perciò in questa sarò
piú recitatore de’ sentimenti altrui che esponitore de’ miei.
Vogliono adunque alcuni
intendere questo veltro doversi intendere Cristo, e la sua venuta
dovere esser nell’estremo giudicio, ed egli dovere allora esser
salute di quella umile Italia, della quale nella esposizion litterale
dicemmo, e questo vizio rimettere in inferno. Ma questa opinione a
niun partito mi piace; percioché Cristo, il quale è signore e
creatore de’ cieli e d’ogni altra cosa, non prende i suoi movimenti
dalle loro operazioni, anzi essi, sí come ogni altra creatura,
seguitano il suo piacere e fanno i suoi comandamenti; e, quando quel
tempo verrá, sará il cielo nuovo e la terra nuova, e non saranno
piú uomini, ne’ quali questo vizio o alcun altro abbia ad aver
luogo; e la venuta di Cristo non sará allora salute né d’Italia né
d’altra parte, percioché solo la giustizia avrá luogo, e alla
misericordia sará posto silenzio, e il diavolo co’ suoi seguaci
tutti saranno in perpetuo rilegati in inferno. E, oltre a ciò,
Cristo non dee mai piú nascere, dove l’autor dice che questo veltro
dee nascere. Né si può dire l’autore aver qui usato il futuro per
lo preterito, quasi e’ nacque tra feltro e feltro, cioè della
Vergine Maria, che era povera donna, e nacque in povero luogo: ma
questa ragione non procederebbe, percioché sono MCCCLXXIII anni che
egli nacque, e, nei tempi che nacque, era la potenza di questo vizio
nelle menti umane grandissima; né poi si vede, non che essere
scacciata, ma né mancata. Né si può dire che nascesse tra feltro e
feltro, cioè di vile nazione: egli fu figliuolo del Re del cielo e
della terra, e della Vergine, che era di reale progenie. E se dire
volessono: ella era povera; la povertá non è vizio, e perciò non
ha a imporre viltá nel suggetto; percioché noi leggiamo
di molti essere stati delle sustanze temporali poverissimi, e
ricchissimi di virtú e di santitá. Perché dich’io tante parole?
Questa ragione non procede in alcuno atto.
Altri dicono, e al
parer mio con piú sentimento, dover potere avvenire, secondo la
potenza conceduta alle stelle, che alcuno, poveramente e di parenti
di bassa e d’infima condizione nato (il che paiono voler quelle
parole «tra feltro e feltro», in quanto questa spezie di panno è,
oltre ad ogni altra, vilissima), potrebbe per virtú e laudevoli
operazioni in tanta preeminenza venire e in tanta eccellenza di
principato, che, dirizzandosi tutte le sue operazioni a magnificenza,
senza avere in alcuno atto animo o appetito ad alcuno acquisto di
reame o di tesoro, ed avendo in singulare abbominazione il vizio
dell’avarizia, e dando di sé ottimo esempio a tutti nelle cose
appartenenti alla magnificenzia, e la costellazione del cielo
essendogli a ciò favorevole; che egli potrebbe, o potrá, muovere
gli animi de’ sudditi a seguire, facendo il simigliante, le sue
vestigie, e per conseguente cacciar questo vizio universalmente del
mondo. Ed, essendo salute di quella umile Italia, la qual giá fu
capo del mondo, e dove questo vizio, piú che in alcuna altra parte,
pare aver potenza, sarebbe salute di tutto il rimanente del mondo; e
cosí, d’ogni parte discacciatala, la rimetterebbe in inferno, cioè
in dimenticanza e in abusione, o vogliam dire in quella parte dove
gli altri vizi son tutti, e donde ella< primieramente surse intra’
mortali. E, a roborare questa loro oppenione, inducono questi cotali
i tempi giá stati, cioè quegli ne’ quali regnò Saturno, li quali
per li poeti si truovano essere stati d’oro, cioè pieni di buona e
di pura semplicitá, e ne’ quali questi beni temporali dicon che eran
tutti comuni; e per conseguente, se questo fu, anche dover essere che
questi sotto il governo d’alcuno altro uomo sarebbono.
Alcuni altri,
accostandosi in ogni cosa alla predetta oppenione, danno del «tra
feltro e feltro» una esposizione assai pellegrina, dicendo sé
estimare la dimostrazione di questa mutazione, cioè del permutarsi i
costumi degli uomini, e gli appetiti da avarizia in liberalitá,
doversi cominciare in Tartaria, ovvero nello ‘mperio di mezzo, lá
dove estimano essere adunate le maggiori [ricchezze e] moltitudini di
tesori, che oggi in alcuna altra parte sopra la terra si sappiano. E
la ragione, con la quale la loro oppenione fortificano, è che dicono
essere antico costume degli imperadori dei tartari (le magnificenze
de’ quali e le ricchezze appo noi sono incredibili), morendo, essere
da alcuno de’ loro servidori portata sopra un’asta, per la contrada
dov’e’ muore, una pezza di feltro, e colui che la porta andar
gridando: – Ecco ciò che il cotale imperadore, che morto è, ne
porta di tutti i suoi tesori; e,
poi che questa grida è andata, in questo feltro inviluppano il
morto corpo di quello imperadore; e cosí senza alcun altro
ornamento il sepelliscono. E per questo dicon cosí: questo veltro,
cioè colui che prima dee dimostrare gli effetti di questa
costellazione, nascerá in Tartaria, tra feltro e feltro, cioè
regnante alcuno di questi imperadori, il quale regna tra ‘l feltro
adoperato nella morte del suo predecessore e quello che si dee in
lui nella sua morte adoperare. Questa oppinione sarebbero di quegli
che direbbono avere alcuna similitudine di vero; la quale non è mia
intenzione di volere fuori che in uno atto riprovare, e questo è,
in quanto dicono quegli imperadori aver grandissimi tesori, e però
quivi mostran che istimino, dall’abbondanza dei tesori riservati,
essendo sparti, doversi la gola dell’avarizia riempiere e gli
effetti magnifichi cominciare. Il che mi pare piú tosto da ridere
che da credere: percioché quanto tesoro fu mai sotto la luna, o
sará, non avrebbe forza di saziare la fame di un solo avaro, non
che d’infiniti, che sempre sopra la terra ne sono. Che dunque piú?
Tenga di questo ciascuno quello che piú credibile gli pare, ché io
per me credo, quando piacer di Dio sará, o con opera del cielo o
senza, si trasmuteranno in meglio i nostri costumi. E questo, quanto
sopra il primo canto, basti d’avere scritto [sempre a correzione di
coloro che piú sentono che io non faccio].
Possono per avventura
essere alcuni, li quali forse stimano, non solamente in questo libro,
ma eziandio in ogni altro [e ne’ divini], ne’ quali figuratamente si
parli, ogni parola aver sotto sé alcun sentimento diverso da quello
che la lettera suona; e però, non essendo nel precedente canto ad
ogni parola altro sentimento dato che il litterale, diranno,
nell’aprire l’allegoria, essere difettuosamente da me proceduto. Ma
in questa parte, salva sempre la reverenzia di chi ‘l dicesse, questi
cotali sono della loro oppenione ingannati; percioché in ciascuna
figurata scrittura si pongono parole che hanno a nascondere la cosa
figurata, e alcune che alcuna cosa figurata non ascondono, ma però vi si pongono,
perché quelle che figurano possan consistere: sí come per esemplo
si può dimostrare
in assai parti nella presente opera. Che ha a fare al senso
allegorico: «La sesta compagnia in duo si scema»? che n’ha a fare:
«Cosí discesi del cerchio primaio»? che molte altre a queste
simili? E, se queste se ne tolgono, come potrá seguire l’ordine
della dimostrazione che l’autore intende di fare? come acconciarsi
quelle che per significare altro si scrivono? Se ogni parola avesse
alcun altro senso che il litterale a nascondere, di soperchio avrebbe
san Girolamo detto nel proemio dell’Apocalissi,
e non in altra parte della Scrittura, tanti essere i misteri quante
son le parole; conciosiacosaché nell’Apocalissi
per eccellenzia quello si creda avvenire, che in alcun altro libro
della Sacra Scrittura non avviene. Tuttavia, accioché piú
pienamente si creda non ogni parola avere allegorico senso, leggasi
quello che ne scrive santo Agostino nel libro Dell’eterna
Ierusalem,
dicendo: «Non
omnia, quae gesta narrantur, aliquid etiam significare putanda sunt;
sed propter
illa,
quae aliquid significant, attexuntur; solo enim vomere terra
proscinditur; sed, ut hoc fieri possit, etiam caetera aratri membra
sunt necessaria. Et soli nervi in citharis atque huiusmodi vasis
musicis aptantur ad cantum; sed, ut aptari possint, insunt et caetera
in compagibus organorum, quae non percutiuntur a canentibus, sed ea,
quae percussa resonant, his connectuntur»,
ecc. E
perciò
estimo che molto piú onesto sia a credere ad Agostino che
stoltamente opinare quello che manifestamente si può riprovare; e
quinci prendere certezza, se alcuna cosa allegorizzando è omessa,
quella non per negligenza, ma per non conoscere che opportuna vi sia
l’allegoria, essere stata intralasciata.