PRELIMINARI
Circa la natura, e qualità delle Lettere dell’ Abbiccì Toscano, e Provenzale; e circa l’ amistà, e convenienza tra di loro.
A. Prima lettera dell’ alfabeto, perchè più agevolmente s’ esprime, e però udiamo ne’ fanciulli mandar prima fuori naturalmente questa, che niuna altra, come quella, che non ricerca fatica. Appo i Latini dicono, che aveva più di dieci suoni diversi; appo i Toscani se ne sente difficilmente più d’ uno, se però la diversità dell’ accoppiatura delle parole non facesse alcuna volta profferirla con molta forza, come A lui, alcuna con meno come A’ miei, alcuna volta quasi due AA. Ah ribaldo.
Questa prima lettera non ha parimente nel nostro Provenzal Idioma, che un solo suono, il quale però, stando ella di per se, allorchè è o segnacaso o proposizione, o interjezione, si fa sentir alquanto più forte, come A lui; A mi; o come le due a. a., che si vedono nel fine di ciascheduna strofe del seguente Poema di Giuffredo Rudello Principe di Blaja, che ho voluto quì in fronte trascrivere dal Codice Vaticano segnato num. 3205., e tradurre in Toscano, per esser egli il primo, e più antico Poeta Provenzale, di cui s’ abbia notizia.
IOFRE RODEL.
Non sap cantar qil son no di
Nil vers trobar qils motz no fa
Ni sap de rima com si va
Cõ plus lausires mais valra. a. a.
Sieu am zo qeu non veirai ia
Qar nulla res tan mal nõ fa
Cõ zo gez anc dels hueilhs non vi
Ni no sai si ia so fara. a. a.
Mei dezir fan lai lur cami
Mei suspir son sei altresi
Delamor no sai com penra. a. a.
Gard si nõ mueva ni camgi
Qar si lauzon en caerzi
Lo coms de tolsa lentendra. a. a.
GIUFFREDO RUDELLO.
Non sa cantar chi ‘ l suono non intona,
Nè il Verso trovar, chi non fa i motti,
Nè di rima non sa che cosa sia,
Se di essa non intende la ragione;
Però mio Canto comincio così,
Che più lo sentirete, più varrà. a. a.
Già nessuno di me si maravigli
Se io amo ciò, ch’ io non vedrò già,
Perchè niuna cosa mi fa sì male,
Come ciò, ch’ io non vidi mai cogli occhi;
Non mi mentì giammai in tempo alcuno,
E non so se già ciò farà. a. a.
Non m’ addormentai mai così soave,
Che mio spirto non si trovasse là
Miei desir fanno là il lor viaggio;
Miei sospir sono suoi; altresì,
Non so come mio amor accoglierà. a. a.
Se io non m’ ingannai, buono è il suono,
E tutto quanto vi è, bene ci stà;
E quegli, che da me l’ imparerà,
Guardi di non muovere, nè cambiare;
Poichè se’ l sentono in Caorsa
Il Conte di Tolosa l’ intendera. a. a.
B.
Lettera assai simile al P, e all’ V consonante, dicendosi molte voci
coll’ una, e coll’ altra scambievolmente: come Serbare, e Servare:
Nerbo, e Nervo: Boce, e Voce: Pubblico, e Piuvico. Delle consonanti
riceve dopo di se nella medesima sillaba la L, e la R, e vi perde
alquanto di suono, come Obbligo, Pubblico, Braccio, Ombra, benchè
colla L, di rado si truovi appresso i Toscani, nè mai in principio
di parola, come pronunzia a loro più strana, salvo alcune voci
Latine, come Blando, Blandimento, ec. Consente avanti di se, in mezzo
di parola, ma in diversa sillaba la L, M, R, S, come Albume, Lembo,
Erba, Usbergo, quantunque si truovi di rado colla S, in mezzo della
parola, e per lo più ne’ verbi composti colla proposizione Dis, come
Disbrigare. Usasi più frequentemente in principio di parola, come
Sbandito, Sbattere. E deesi sempre la S, avanti al B, pronunziar col
suon più sottile, o rimesso, come nella voce Accusa, di che si dice
nella lettera S. Puossi raddoppiar nel mezzo della parola, quando
egli occorre, come Nebbia, Trebbio.
Pure
in Provenzale diciamo noi scambievolmente parecchie voci ora col B, e
ora coll’ V consonante, come serbar, e servar; nirbi, e nirvi;
probar, e provar; proba, e prova; probanza, e provanza, ec. Negli
antichi MSS. si trovano molti vocaboli indifferentemente scritti ora
col B, ed ora col P; e ciò non solamente in fine di parola, come
prop, e prob (vicino L propè) lob, e lop (lupo) gab, e gap (gabbo) e
in mezzo, verbigrazia sebelir, e sepelir (sepellire) Tratt. Simb.
Apost. 5. E fonc crucifficatz, e mortz, e sebellitz sotz Pons Pilat:
e acapar, per acabar (finire) Guid. Cauliacc. 71. Acapat es lo segon
Tractat a Deu gracias: ed altre molte, come tromba e trompa; arribar,
e arripar (arrivare) ec. Ma eziandio sul principio, come planquet per
blanquet (biacca, e bianchetto) Mon. Montau. nel Poema contra la
vanità delle femmine del suo tempo, che per comparir belle
adoperavano il liscio, dipingendosi ‘l viso. C. V. 4. 123. 2.
Se
meton tant sobre l’ menton,
Di
bianchetto, e di rossetto
Si mettono tanto sovra ‘l mento,
E
nella faccia, che &c.
Boble, e Poble (Popolo) adoperato l’
uno, e l’ altro per più vaghezza, da Fr. Jac. Casul. 18. Digau als
vostres pobles, que mes ama Marchilli senyorejar los bobles rics, que
si lo dit Marchilli se feva ric. E praguer, e braguer (brachiere)
usati parimente tutti e due da Guid. Cauliacc. nella sua Opera di
Cirugia, là dove parla dell’ Ernia, a c. 68., e 69. Similmente gli
antichi Toscani dissero brivilegio, brivilegiare, ec. per privilegio,
privilegiare &c.
Delle
consonanti riceve anche nel nostro Linguaggio dopo di se la L, e la
R, perdendo pure alquanto di suono; e ciò non solo in mezzo della
parola, come semblanza, coblejar (far cobbole) ombra, ombrejar; ma
eziandio nel principio, come blau (turchino) blanc, bras, braga ec.
Ed appresso gli Scrittori Toscani del buon secolo, la trovo
avanti la L, in principio di parola, non solamente nelle
sopraccennate voci Latine Blando, Blandimento, ec. ma in alcune
prette Provenzali, come Blasmare, Blasmo, Blondo, ec.
Consente
pure avanti di se, ma sempre in mezzo di parola, e in diversa sillaba
la L, M, R, S, come albre, fembra, erba, osberg. Sul principio però
non ha mai avanti di se niuna delle consonanti, nè meno la S,
dicendo noi, esbalmar (ciondolare) esbarriar (sparpagliare)
esblanqueít (bianchiccio) esboscassar (abbozzare) esboscassament
(abbozzamento), e così estar, esquivar, e esquifar; espès, esperar,
esperit, e simili con l’ aggiunta della E chiusa, o stretta, per più
dolcezza. Ed indi anche gl’ Italiani ad imitazione nostra, e per lo
stesso motivo vi aggiungono spesse fiate la I, lettera sorella
carnale dell’ E stretto, dicendo istare, ischifare, impresso, ec.
siccome osservò diligentemente il Bembo al primo delle sue Prose,
colle seguenti parole: “Senzachè uso de’ Provenzali peravventura
sia stato lo aggiugnere (aggiungere) la I nel principio di moltissime
voci, comechè essi la E vi ponessero in quella vece, lettera più
acconcia alla lor Lingua in tal uficio, che alla Toscana; si come
sono Istare, Ischifare, Ispesso, Istesso, e delle altre, che dalla S,
a cui alcun’ altra consonante stia dietro, cominciano, come fanno
queste. Il che tuttavia non si fa sempre; ma fassi per lo più,
quando la voce, che dinanzi a queste cotali voci stà, in consonante
finisce; per ischifare in quella guisa l’ asprezza, che ne uscirebbe,
se ciò non si facesse; si come fuggì Dante, che disse,
Non
isperate mai veder lo Cielo,
e il Petrarca, che disse,
Per
iscoprirlo immaginando in parte.
E comechè il dire In Hispagna,
paja dal Latino esser detto, egli non è così; perciocchè quando
questa voce alcuna vocale dinanzi da se ha, Spagna, le più volte, e
non Hispagna si dice &c.”
Sopra
questa medesima lettera è degno di notare il luogo del Barberino
Docum. Amor. fogl. 162.
L’
erbette son tre lettere, che stanno
In
quel, ch’ è poco danno,
Se
gli vien l’ emme per esser la quarta;
Come chi bocca per se forza
squarta:
ove è appellata Be, contuttochè i Fiorentini, e la
maggior parte degli altri popoli della Toscana dicono Bi, Ci, Di, Gi,
Pi, Ti, e non Be, Ce, De, Ge, Pe, Te; e sebbene questa seconda
maniera, cioè Be, Ce, ec. è alla Latina, nientedimeno il Barberino,
il quale molto si compiacque della Lingua Provenzale, come nota l’
Ubaldini nella introduzione alla sua Tavola, o Vocabolario, ad
imitazione di questa nostra Provenzale, e non di quella del Lazio, è
da credere, che disse Be; il che accenna il medesimo Ubaldini, colla
seguente osservazione: “L’ Er be te son
tre
lettere: cioè R. B. T. Di quì sentesi qual pronunzia usasse il
nostro Autore, dicendosi oggi da’ Fiorentini Abbiccì; dove il nostro
direbbe Abbeccè: tale facevano i Latini Abecedarius presso Girolamo,
Agostino, ed altri; de’ Provenzali, Cadenet MS. del Signor Carlo di
Tommasso Strozzi.”
Aprendes
plus nous deman
A. M. T. car aitan
Volon dire com am te.
Lo
stesso, dopo dell’ Ubaldini, fu accennato, ed osservato da Carlo Dati
appresso le Origini Italiane del Menagio alla lettera A, e
ultimamente dall’ eruditissimo Girolamo Gigli nel suo Apparato all’
Opere di S. Caterina, alla lettera E, citando, e trascrivendo
amendue, i suddetti versi del Cadenet.
Gli
stessi versi Provenzali furono anche citati, e portati da Francesco
Redi, del testo della libreria di S. Lorenzo di Firenze, nelle sue
Annot. Bac. in Toscan. fogl. 117., benchè ad altro effetto, cioè
per comprovare, che gli antichi Rimatori solevano talvolta scherzar
colle lettere, accennando con esse, nelle cobbole, o stanze il loro
nome, o altra cosa, che più loro fosse andata a grado. Ecco le sue
parole nel citato fogl. 117. “Elia Cadenetto volle anche esso
scherzar colle lettere, onde come si legge nel Testo a penna della
Libreria di S. Lorenzo.”
Tres
letras del a. b. c.
Aprendez plus non deman:
A.
M. T. car aitan
Volon dire com am te.
Ma
già che egli se ne prevalse per questo fine, poteva soggiungervi, e
dar fuori gli altri versi che seguono, o vero tutta la strofe, la
quale nel Testo Vaticano Cod. 3204. car. 99. si legge così.
Tres
letras de labece
Aprendes
plus nous deman
A. M. T. car aitan
Volon dire com am te
Car
ab aitan de clersia
Auriam pro eu e vos
Mas per so ben i
volria
O. e C. mantas sazos
Que si eus disia digatz
Domna
farias majuda
Eu cre que vos seriatz
De dir Oc
apersebuda.
cioè:
Tre lettre dell’ Abbeccè
Apprendete, più
non vi dimando,
A, Emme, Te, perchè altrettanto
Voglion dir
come amo te:
E con altrettanta dottrina
Saremmo assai dotti io,
e voi;
Ma per ciò ben ci vorrei
O, e C, mante fiate
aggiugnere;
Che se io vi dicessi, dite
Donna, fareste mio
ajuto?
Io credo, che voi sareste
Apparecchiata per dir di sì.
Questo scherzo poetico del Cadenet, per dirlo di passaggio, mi fa
sovvenire de i ternari d’ un Sonetto di Cecco Angelieri Sanese,
contemporaneo di Dante, che incomincia:
Sel cor de Bichina fosse
diamante, appresso la Raccolta de’ Poeti antichi di Monsignor Leone
Allacci, fogl. 204., ne’ quali ternari osservo, che esso Angelieri
furò dal nostro Cadenet simil concetto, ed invenzione, discorrendo
egli così intorno alla sua innamorata Bichina.
Ma s ella un poco
mi stesse audita
Et eo avesse lardire de parlare
Direy come so
sua spene incarnita.
E po gli dirci com eo son sua vita,
Et
altre cose cheo non vo contare,
Parme esser certo chella direbbe
ita.
Ove le voci vita, e ita alludono alle lettere Greche B, e *,
che così s’ appellano, e quì la ita vale sì, usata parimente alla
Latina, da Dant. Inf. 21.
De ‘l nò, per li denar, vi si fa
ita,
cioè per denari si fa del nò sì.
Non lascierò di
notare, che nel Cod. Vatic. 3205. car. 95. si trova la suddetta
stanza scritta diversamente, cioè:
Tres letras de l A. B.
C.
Aprenez plus non deman
A. M. T. qar aitan
Volon dire qom
am te
E ab aitan de clergia
Auria pro entre nos
Pero anc
mais i volria
O. e C. mantas sazos
Qar sieu dizia digatz
Bona
donna fas majuda
Adoncs sai qe seriatz
De dir Oc
aperceubuda.
Ma in quanto alle lezioni, o vero alla diversità
della scrittura delle lettere, cioè Abecè; e A. b. c. nulla v’ è
che dire appo noi, essendo amendue ugualmente buone, dicendosi
constantemente in Provenzale Be, Ce, ec. Laonde non ci è stato d’
uopo di mettere in dubbio, e di questioneggiare, come anno fatto i
Gramatici Italiani, se i nomi del b, c, d, g, p, t, s’ abbiano a
pronunziare be, ce, de, ge, pe, te, come c’ insegnano i Latini
gramatici, o pur bi, ci, di, gi, pi, ti, come costumano gl’ idioti,
siccome propone il Salviati ne’ suoi Avvertimenti volum. I. lib. 3.
cap. I. particel. 2. E per ciò le lezioni d’ alcune copie del Bocc.
Gior. 6. nov. 5. Credo ec. che voi sapeste l’ A, B, C, e gior. 8.
nov. 9. Voi non apparaste miga l’ A. B. C., pare, che non sieno
riputate dal Buommattei al tratt. 3. cap. 5. così ottime, come
quelle de i Testi de’ Deputati del 1573., e del suddetto Salviati,
che anno nominatamente l’ a bi ci. Ma a così fatta questione di nome
ha imposto silenzio il dottissimo Abate Anton Maria Salvini Lettore
di lettere Greche nello Studio di Firenze, il quale nelle sue
eruditissime Note sopra il detto Buommattei, al citato luogo, a car.
31. decide, e risolve, che Bi, Ci, Di, non è profferimento, o suono
di quelle tali consonanti; perciocchè potrebbero dirsi anche Ba, Ca,
Da; Bo, Co, Do; ma è il nome di quelle tali lettere, che dove in
Firenze si nominano Bi, Ci, Di; in Arezzo, per esempio, che pure è
in Toscana, si nominano alla latina Be, Ce, De; siccome
nota il Sig. Francesco Redi nel Vocabolario suo Aretino manoscritto
&c.
C.
C.
Lettera, la quale ha molta simiglianza col G. Adoprasi da’ Toscani
per due sorte di suoni; perchè posta innanzi all’ A, O, U, ha il
suono più muto, o rotondo: come Capo, Conca, Cura; e avanti la E, ed
I, si manda fuor più sonante, o aspirata: come Cera, Cibo. Onde per
farle fare il primo suono, le pognamo la H dopo, come Cheto,
Trabocchi. Questo CH, posto davanti all’ I, ottiene due sorte di
suoni, l’ uno più rotondo: come Fianchi, Stecchi, Fiocchi; l’ altro
schiacciato, come Occhi, Orecchi, Chiave; quantunque appo i Poeti,
cotali suoni non impediscan la rima. E per conoscere questa diversità
di suono, sarebbe necessario assegnare a ciascheduno il suo proprio
carattere. Non si pone il C avanti ad altre Consonanti, che alla L, e
R, nella stessa sillaba, e perde alquanto del suo suono; ma alla L,
più rado; come Conclusione, Clero: Crine, Increspato. Ammette avanti
di se nel mezzo della parola, ma in diversa sillaba la L, N, R, S:
come Calca, Ancora, Arco, Tosco; ma la S. gli va avanti, ancor nel
principio; come Scudo, Schermo; e sempre si pronunzia la S innanzi al
C, nel primo modo più comune, come nella voce Casa, di che vedi
nella lettera S. Metessi il C avanti al Q, quando il Q si doverebbe
raddoppiare, come Acqua, Acquisto; conciossiacosachè il Q non sia
altro, che C. Nel mezzo di parola si raddoppia, quando bisogna: come
Stecco, Bocca, Tocca.
Posto
innanzi all’ A, O, U, ha similmente nel Provenzale il suono ritondo,
verbigrazia cap, conca, cura; ma avanti la E, ed I ha lo stesso suono
della S gagliarda, come cera (Lat. Cera), cercar, cisterna, cigala;
le quali voci pronunziamo come se fossero scritte per S, sera,
sercar, sisterna, ec. Onde per fargli fare il primo suono gli poniamo
la u vocale dopo, nel qual caso però adoperiamo la Q in sua vece,
conciossiacosachè il Q, come accenna il Vocabolario, e si vederà a
suo luogo, non sia altro, che ‘l C muto, o rotondo; come nelle voci
quetxo, quet, e quiet, che significano cheto; e que, qui ec. le quali
profferiamo, come se fossero scritte, qet, qe, qi, che anche così
senza la u si truovano sovente negli antichi testi manoscritti. Per
fare poi nella nostra Lingua il suono delle sillabe Toscane Cià, Ce,
Ci, Ciò, Ciù, vedi quel che si noterà nella Lettera X. Delle
consonanti ammette dopo di se nella stessa sillaba, solamente la L, e
la R, come conclusion, e conclusiò, crespat, encrespat. Consente poi
avanti di se la N, R, S, e ciò sempre in diversa sillaba, fuorchè
ne’ monosillabi, come encara (ancóra) arcáda, escusa, anc (anco)
hanc, arc, vesc: e parimente in questo nostro Idioma sempre si
pronunzia la S innanzi al C nel primo modo, cioè gagliardo, di che
vedi nella Lettera S.
I
nostri antichi il raddoppiavano talvolta come peccat, proccurar, ma
oggi diciamo, e scriviamo procurar ec. L’ usiamo però raddoppiato
avanti l’ I, dove bisogna, come decocciò (Lat. decoctio, concoctio)
e avanti l’ A, come acceptar; avvegnachè in cotali voci il secondo c
si pronunzi, come se fosse s, e per questo si scrive talora da alcuni
decocsiò, acseptar. Per ragion della molta simiglianza, che ha col
G, si trovano alquante voci scritte ne’ Codici Provenzali della
Vaticana coll’ uno, e coll’ altro scambievolmente, come cavalcar, e
cavalgar; cavalcadura, e cavalgadura; borg, e borc (borgo), gonfanò,
e confanò (gonfalone) e simili.
Egli
è vero però per non lasciar cosa, che da considerar sia, che
abbiamo ancora un’ altro C, che è più sonante, e forte della S
gagliarda, il quale contrassegniamo con questo carattere ç, chiamato
da noi con molto acconcio nome C trancada, cioè a dire, C infranto,
del quale ce ne serviamo, quando ci occorre, per far perdere il suono
del C duro; imperciocchè siccome queste sillabe Ca, Co, Cu, anno il
suono duro, all’ incontro quest’ altre ça, ço, çu l’ anno
infranto, cioè un poco più sonoro, e gagliardo delle sillabe Sa,
So, Su, verbigrazia alabança (lode) convençut (convinto) ço (ciò)
avvegnachè chè per lo più confondiamo questi caratteri, scrivendo
començar, e comensar; assots, e açots, ec. Questo nostro ç
infranto, per dirlo di passaggio passò da Catalogna nell’ Aragona,
ed indi poi in Castiglia, dove è appellato C con zedilla, ovvero
zedilla, cioè piccola zeta, per ragione di quella codetta fatta a
guisa d’ una piccola zeta; e perchè nella Lingua Castigliana la Z, e
il C chiaro, o sonante anno un medesimo suono, scrivendosi da’
Castigliani indifferentemente zelar, e celar, e simili, perciò s’
adopera nella stessa Lingua in cambio del Z, come çapata, e zapata;
açogue, e azogue ec. che che ne dichino Massimo Trojano, e Argisto
Giuffredi nelle loro osservazioni della suddetta Lingua Castigliana
stampate in Firenze nel 1601. Onde Francesco Sobrino ne’ prolegomeni
del suo Dicionario nuevo de las lenguas Española, y Francesa,
impresso in Brossella nel 1705. Les Espagnols écrivent l’ V au lieu
du B. Ils écrivent ainssi le ç au lieu du Z, e le Z au lieu du ç.
Nell’
Abbiccì, che per tutta l’ Italia adoperano i fanciulli quando
incominciano d’ apparar a leggere, detto in Roma la Santa Croce, per
ragion della effigie della Santiss. † posta in fronte di esso; e in
Firenze, la Croce Santa, anteponendo il sostantivo all’ addiettivo;
vi si vede pure questo carattere ç coll’ altre solite abbreviature
sul fine, così:
ç R* b.’, e il chiamano Con. Ma gli Stampatori
sbagliano usandolo così ç alla dritta; imperciocchè quando
rappresenta il segno, o l’ abbreviatura della sillaba con, si scrive
sempre voltato in questo modo ɔ, come si vede ne’ MSS., e ancora ne’
libri di stampa antica: e questo ɔ è chiamato da noi girar de con,
cioè a dire, che posto così ɔ girato, vale per la sillaba con. Tra
i diversi caratteri, che il Trissino voleva aggiugnere al Toscano
Alfabeto, uno si era questo nostro ç da lui appellato çeta, di che
vedi appresso, alla Z.
D.
D.
Lettera, che ha gran parentela colla T, e perciò molte voci latine,
nel farsi nostrali, hanno mutato il T in D, come più dolce di suono:
Latro, Ladro: Potestas, Podestà: Litus, Lido. Acconsente dopo di se
solamente la R, oltre alle vocali, tanto in principio, quanto in
mezzo della dizione, e nella stessa sillaba, con perdere alquanto di
suono: come Drago, Salamandra. Riceve avanti di se, nel mezzo della
parola, ma in diversa sillaba, la L, N, R, S: come Geldra, Bando,
Verde, Disdicevole. Ma la S, avanti la D, si trova di rado in mezzo
di parola, e quasi sempre ne’ verbi composti dalla particella Dis:
come Disdire. Nel principio si trova più spesso: come Sdegno,
Sdentato; e deesi sempre profferire la S, avanti, nel secondo suono,
e più rimesso, come nella voce Accusa, come si dice nella lettera S.
Raddoppiasi nel mezzo, quando egli occorre: come Freddo, Addurre.
Così
pure in alcune voci Latine nel farsi nostrali, è stato mutato il T,
in D, per ragione dell’ accennata parentela, come latro in ladre:
latrare in ladrar: latrator in ladrador, lladraire. Dopo di se
acconsente parimente nel nostro Provenzale la R, oltre alle vocali,
perdendo alquanto di suono, come dragon, e dragò; salamandra: Avanti
di se riceve similmente le suddette L, N, R, S, come falda, bandejar,
verdura, desdir. Non la raddoppiamo però se non in qualche voce
Latina, come addiciò, addicional.
I
nostri vecchi la scambiarono spesso col Z, trovandosi ne’ Testi
antichi scritto indifferentemente veder, e vezer (vedere) medicar, e
mezicar (medicare) tardar, e tarzar (tardare) ed altre somiglianti,
come osservò diligentemente il Crescimbeni nelle sue eruditissime
Annotazioni sopra le Vite de’ Poeti Provenzali, particolarmente
intorno quella di Guglielmo Adimaro, così: I Provenzali oltre all’
antiporre la N a i nomi propri d’ Uomini &c. spesso scambiavano
la D nella Z. E in quella di Bertrando di Pedaro con queste parole:
E’ costui chiamato dal Nostradama Bertrand de Pezars, o de Pezenat; e
perchè i Provenzali, come altrove abbiamo detto il D facevano Z,
come veder, vezer; medecar, mezecar, e simili; però noi la voce
Pezar, l’ abbiamo tradotta Pedaro, siccome Pezenat, Pedenato:
quantunque alle volte altre simili parole le abbiamo trasportate
colla Z, che si legge nel Testo. E dopo di lui il Gigli Apparat.
Oper. S. Cater. alla particella Et in questa guisa:
La Lingua
Provenzale, Madre della nostra, cambiava spesso il Z col D. E di quì
osservo, che i Toscani per imitare i Provenzali loro Maestri, anno
detto, e adoperato scambievolmente, ardente, e arzente; frondire, e
fronzire; fronduto, e fronzuto; gradire, e grazire; guadare, e
guazare; verdura, e verzura; verdume, e verzume; rinverdire, e
rinverzire; ed altre, come si osserva nel Vocabolario, quantunque in
esso gli Accademici della Crusca non facciano menzione di simile
cambiamento.
E.
E.
Lettera vocale, e ha molta convenienza coll’ I, prendendosi
frequentemente l’ una per l’ altra: Desiderio, Disiderio: Peggiore,
Piggiore. Appo i Toscani ha due suoni, l’ uno più aperto: come
Mensa, Remo; l’ altro più chiuso, e più frequentato da noi: come
Refe, Cena; onde per tor via gli errori richiederebbon vari
caratteri, quantunque cotal suono, appo i Poeti non faccia noja alla
rima.
Similmente nel nostro Idioma, per ragione dell’ accennata
convenienza, e amistà, che ella ha coll’ I, anno usato
scambievolmente i nostri antichi: ociosetatz, e ociositatz; enfern, e
infern, come si legge, tra gli altri MSS. in quello del Tratt. Pecc.
Mort., e sovent, e sovint (sovente) adoperato l’ uno, e l’ altro da
Gio. Mart. 68., e così lealeza, e lialeza; leal, e lial &c. Ha
ancora amistà, e convenienza coll’ A, sì in Provenzale, che in
Toscano, come osservò l’ eruditissimo Francesco Redi nelle sue
Annot. Ditir. a car. 64. colle seguenti parole:
“I nostri più
antichi Scrittori Toscani, in cambio di elemento, dissero sovente
alimento, cangiando la lettera e della prima sillaba in a, come è
chiaro, per gl’ infrascritti esempli &c. Dante da Majano nel
primo de’ suoi Sonetti stampati disse Alena in vece di Elena.
Alena
greca co lo gran plagiere
Guittone
d’ Arezzo nelle Lettere manuscritte usò il verbo Aleggere in vece di
Eleggere &c. Usollo ancora Gio. Villani, e tutt’ e due i
Malespini, ne’ quali si truova Sanatore, Sanato, assempro, assemplo,
con altre simili voci &c. La più bassa plebe di Firenze conserva
alcune poche reliquie di tali arcaismi nelle parole abreo, arrore,
dalfino, sagreto &c. Negli antichi Provenzali si truova spesso
tale amistà, e parentela tra la lettera A, e la E. Nella Vita di
Guidusel del Testo della Libreria di S. Lorenzo si legge Raina per
Reina. Neza de Guillem de Monpeslier, cosina germana de la Raina d’
Aragon. Giuffredi di Tolosa nella Serventese, ch’ ei fece per amore
d’ Alisa Damigella di Valogne, disse molte volte piatat in vece di
pietat.
A
Madompna sens piatat
Nuec, e dia eu clam mercè.
Tralascio
infiniti altri esempli e de’ Toscani, e de’ Provenzali”.
E
così ancora in Provenzale ha gli stessi due suoni, che in Toscano;
l’ uno più aperto, o largo, come aver, saber: e l’ altro più
chiuso, o stretto, e da noi parimente più frequentato, come vermell
(vermiglio) temps, ensems (insieme) conforme insegna, e dimostra il
Rimario Provenzale MS. della suddetta Libreria di S. Lorenzo.
F.
F.
Lettera, la quale, nel pronunziarsi, è assai simile all’ V
consonante, per essere amendue molto aspirate. Riceve dopo di se, nel
mezzo della parola, *e nella stessa sillaba, le consonanti L, e R, e
vi perde alquanto di suono, come Afflitto, Fresco; ma riceve la L
molto più di rado, come suono alquanto malagevole alla nostra
pronunzia. Ammette avanti di se la L, N, R, S, in mezzo della parola,
e in diversa sillaba, come Alfiere, Enfiato, Forfora, Disfatto, ma la
S se le pone avanti molto più frequentemente nel principio, conforme
Sferza, Sforzo, e pronunziasi la S, avanti alla F, nel primo modo, e
più comune, come nella voce Casa, conforme a quello, che si dirà
nella lettera S. Nel mezzo delle dizioni si può raddoppiare, dove fa
mestiere, come Effetto, Buffone.
Il suono della F è quasi lo
stesso di quello dell’ V consonante, per formarsi tutt’ e due con una
medesima percussione di strumenti, cioè battendo il labbro ne’
denti, come osserva il Buommattei Tratt. 3. Cap. 8. Laonde ne’ MSS.
antichi si truovano questi due caratteri adoperati talora l’ uno per
l’ altro, come venestra per fenestra nella seguente strofa d’ un
Poema di Pietro di Corbiacco in lode di nostra Donna Cod. Vat. 3204.
a car. 137.
Dompna Verges pura, e fina
Anz
que fos l’ enfantamenz,
Et apres tot eissamenz,
De Vos trais
sa carn humana
Jesu Crist nostre Salvaire,
Si com ses
fractura faire
Vai, e ven rais que soleilla
Per la venestra
verina.
Donna Vergine pura, e fina
Anzi che fosse il
concepimento,
Ed appresso pur similmente,
Da Voi trasse sua
Carne umana
Gesù Cristo nostro Salvatore,
Sì come senza far
frattura
Va, e viene il raggio, che illumina,
Per la finestra
invetriata.
E
escalvar per escalfar in questo passo di Amerigo di Pingulano del
medesimo Cod. Vat. a car. 40.
Altressì
m’ pren, com fai lo jogador,
Q’
al comensar joga maestrament
A
petit joc, puois s’ escalva perdèn,
Que
l’ fai montar tan, qu’ es en la follor.
Così
m’ avvien com fa lo giucatore,
Che giuoca al cominciar
maestrevolmente,
Piccol
giuoco; e in perdendo poi si scalda,
Che’
l fa montar sì, che è una follia.
E così navrar per nafrar,
onde Tosc. naverare, Franz. navrer; ed altre simili.
Nel
nostro Linguaggio riceve ugualmente dopo di se, e nella stessa
sillaba le consonanti L, e R, come flassada (coperta da letto)
flaúta, e flauta (flauto) fresc, frescura. Avanti di se consente
pure la L, N, R, S, in mezzo della dizione, e in diversa sillaba,
come Alferis (Alfiere) alforja (bisaccia) inflar (gonfiare) forfar
(forfare) desfar, e desfer (disfare) E si raddoppia dove occorre,
come affermar, afficionat, effecte.
G.
G.
Lettera compagna del C, la quale, anch’ ella, ha due suoni diversi,
perchè posta avanti all’ A, O, U, ha il suono più rotondo. come
Gallo, Gota, Gusto; e avanti all’ E, ed I, ha il suono più sottile,
o aspirato: come Gente, Giro; onde per necessità di proprio
carattere, per servircene nel primo suono colla E, e coll’ I,
pogniamo dopo la H: come Gherone, Ghiro. Questo Gh, quando ne seguita
l’ I, ha anch’ egli due suoni, l’ uno più rotondo, e grosso: come
Ghirlanda, Vegghi dal verbo Vedere; l’ altro più sottile, e
schiacciato, il quale, per lo più, avviene, quando all’ I segue un’
altra vocale, come Ghianda, Ghiera, Vegghia:
e a cotali suoni,
per isfuggire errore, sarebbe di bisogno proprio carattere a
ciascheduno. Delle consonanti riceve dopo di se, nella stessa sillaba
la L, N, R; come Negletto, Gloria, Egli, Regno, Sogno, Disegnare,
Ingrato, Gretola; bene è vero, che dopo la L, dove non seguita l’ I,
per esser suono, per sua durezza sfuggito da questa lingua, si truova
di rado. Quando alla L, col G avanti seguita l’ I, in tal caso ha due
suoni, l’ uno più rotondo, e grosso: come Negligente, il quale non è
molto ricevuto da noi; l’ altro più sottile, e schiacciato: come
Giglio, Foglio, e questo è nostro proprio. Aggiunto, come s’ è
detto, il G alla L, e N, gran parte ne perde del suo suono, come
Aglio, Ragna. Consente avanti di se la L, N, R, S, nel mezzo della
parola, e in diversa sillaba: come Volgo, Vanga, Verga, Disgregare,
benchè la S si truovi in mezzo di rado, e per lo più in
composizione, colla preposizione Dis. Ma nel principio di parola, più
frequentemente: come Sgarare; e si pronunzia sempre la S avanti al G,
nel secondo modo, cioè nel suono più rimesso, come nella voce
Accusa. Raddoppiasi questa lettera nelle nostre voci molto spesso:
come Poggio, Oggi, ec.
Pure
nel nostro Linguaggio ha ella due suoni diversi, poichè posta avanti
alle vocali A, O, U, ha il suono muto, o rotondo, o come altri dice,
aspro, come gall, gota, gust; e avanti all’ E, ed I, l’ ha chiaro, e
dolce, come gent, giro: onde per necessità di proprio carattere, per
servircene nel primo suono colla E, e coll’ I, pogniamo dopo, la U
vocale, come nelle voci guerra, guirlanda, le quali si pronunziano,
cioè la prima, come se fosse scritta in Toscano gherra, e l’ altra
del modo, che la scrivono, e la pronunziano gli stessi Toscani, cioè
ghirlanda; imperciocchè le nostre sillabe gue, gui, corrispondono
per l’ appunto, nel valore, e suono delle Toscane ghe, ghi. Posta in
fine di parola dopo delle vocali E, I, U, o del T, ha doppio suono,
cioè parte aspro, e parte soave, come goig, e gaug (gioja, e anche
gaggia) desig, e desitg (desio) ensaig, e ensatg (assaggio) le quali
parole si pronunziano, come se fossero scritte gotx, desitx, ensatx.
Delle
consonanti riceve dopo di se nella stessa sillaba, quelle medesime,
che in Toscano, cioè la L, N, R, come negligent, gloria, gnau (voce
della gatta) gnerro (nome di fazione) ingrat. E aggiunta alla N, gran
parte le fa perdere del suo suono, di che vedi nella lettera N. Il
nostro gl però, sempre ritiene il medesimo suono, che nelle suddette
voci gloria, negligent: Bene è vero, che abbiamo pure il suono
schiacciato del Toscano gl, ma questo suono il facciamo colle due ll,
per esempio, all (aglio, lat. allium) che si pronunzia come in
Toscano il segnacaso articolato agl’, di che vedi nella lettera L.
Ammette
avanti di se nel mezzo della parola, e in diversa sillaba la L, N, R,
S, T, come vulgo, angel, verga, esglay (spavento) desgregar, coratge
(coraggio) e talora anche in una medesima sillaba, particolarmente la
R, e il T, come borg (borgo) ensatg; il che però addiviene di rado,
e per lo più in qualche monosillabo solamente. Non si raddoppia mai
se non in qualche voce, dove stia posta in vece del C, come in
giugglar per giucglar (giullaro) usando noi, in cambio del doppio G,
il tg; di maniera che, dello stesso modo pronunziamo la suddetta
parola coratge come se in Toscano fosse scritta coragge; adoperando i
Toscani, nello scrivere, quel primo g in vece del t, per ragione, che
nella favella loro non si comportano accanto due mute diverse, come
osservò il Buommattei Tratt. 4. cap. 4., 6., e 10.
L’ j lungo ha
lo stesso suono presso noi, che il G chiaro, e soave, come diremo
alla lettera I; onde per più vaghezza della scrittura, e della
stampa, usiamo scambievolmente coratge, e coratje; gatge, e gatje, e
simili.
H.
H.
Non ha appo i Toscani suono veruno particolare, ma se ne servono per
difetto di caratteri, ponendola dopo il C, e G, quando accoppiati
colle lettere E, ed I, vogliono esprimere lo stesso suono, quale si
pronunzierebbe coll’ A, O, U: come Chino, Cheto: Gherone, Ghiro.
Ha
servito questo carattere per tor vi a qualche equivoco, come per
distinguere Hanno verbo, da Anno nome, ed Ho, Hai, Ha verbi, da Ai
articolo, affisso al segno del terzo caso, ed A preposizione, ed O
particella separativa, o avverbiale. Così abbiamo usato anche noi in
questo Vocabolario; non condannando perciò anche gli usi diversi.
Nè
anche in Provenzale ha egli suono veruno, servendo solamente, o per
tor via qualche equivoco, come per distinguere Ha verbo, da A
preposizione; o per far mutare di suono la L, come Marselha
(Marsiglia, Città della Provenza) malh (maglio) alh (aglio) e
simili, ove la h altro non denota, se non, che la l si debbe
profferire come il Gl schiacciato de’ Toscani, conforme si dirà
appresso nella lettera L; o pure per far perdere il suono naturale
dell’ N, come senhor, vergonha, di che vedi alla N: la quale
ortografia usa ancora il Portoghese, che scrive baralhar
(bisticciare) apparelhar, trabalhar, talhar, orelha, ovelha (pecora)
abelha (ape, pecchia) apparelho, parelha, olh, ec. e così
acompanhar, banhar, envergonhar, ec. voci tutte proprie del nostro
Provenzale, dal quale, molte eziandio quello Idioma ne tolse, come
sono, fra l’ altre, oltre alle suddette, abonançar, aturar, cuberta,
força, lebre, enveja, envejar (pronunz. envégia, envegiar) mestre,
nu (L. nudus) pardal (L. passer) pedrada (sassata) pedragal
(petricato L. saxetum) Trovador (Poeta) trovar (poetare) viga (trave)
vinagre (vinagro, aceto) volataria (volatío, uccellame) voltar,
volta, e cento più. Del restante parmi, che questo carattere si
doverà cacciare dalle altre voci, per inutile, e del tutto
superfluo, siccome respettivamente anno fatto gl’ Italiani, e i
Franzesi; e scrivere rustic, amic, umil, om ec., e non più rustich
ec.
In
Provenzale il chiamiamo Ach, o Ac, onde poi è stato detto dagl’
Italiani, Acca, come accenna Pascasio Grosippo, o vogliamo dire
Gasparo Scioppio nella sua Gramatica Filosofica a c. 194. della
edizione di Amsterdamo del 1664. così: Ex istis primum dicimus nomen
H literae, fuisse HA, ut à Germanis pronuntiatur; non ACCA Italorum,
neque ACHE Hispanorum; quod illi perinde pronuntiant, ac si Hetruscè
acie, Germanicè aische, Gallicè hache scriptum foret. Nimirum ex
ha, primum factum fuerat ah; quod alii pronuntiarunt ut ach, sicut ex
michi fecerunt mihi. Inde porrò natum est Italicum accha, vel acca.
Undè postea Hispani, & Galli plus etiam literae appellationem
corruperunt.
I.
I.
Lettera vocale, amica dell’ E, prendendosi spesso l’ una per l’
altra, scambievolmente, come Disio, e Desio: Offerire, e Offerere;
Stia, e Stea. S. I. Quando è posta in alcuna voce di qualsivoglia
maniera si sia avanti un’ altra vocale, si prendono quasi sempre
quelle due vocali appo i Toscani, per dittongo, e si pronunziano in
una sillaba sola; come Piano, Fiele, Pioggia, Fiume, la qual
proprietà ottiene ancora l’ U vocale. Pronunziasi nondimeno, alle
volte, per due sillabe, ma avviene più di rado: come Sviato, Fiata,
Chiunque. S. I. Nel nostro idioma, vaghissimo della dolcezza, si
aggiugne frequentemente per isfuggir l’ asprezza della pronunzia, a
tutte le voci comincianti da S, colla consonante appresso, e allora
massimamente, quando la parola antecedente termina in consonante:
come Per ischerzo, Con ispirito.
Lo
stesso scambiamento si truova in Provenzale, come gitar, e getar;
mantinent, e mantenent; lial, e leal. Anzi per la stretta amistà,
che ha coll’ E, vuole accompagnarla in più voci, ponendosele
accanto, benchè non sia d’ uopo, trovandosi ugualmente scritto Pere,
e Peire; destrer, e destrier; cavaler, e cavalier; dret, e dreit;
estret, e estreit; manera, e maniera, e maneira; frontera, frontiera,
e fronteira ec. nelle quali voci, ed altre somiglianti, tutte e due
queste vocali si pronunziano con un solo spingimento di fiato,
facendo dittongo. E quindi è, che i Toscani ad imitazione di nostri
antichi l’ anno aggiunta in più voci, usandosi scambievolmente
panzerone, e panzierone; panzeruola, e panzieruola; parete, e
pariete; prego, e priego; alteramente, e altieramente; altero, e
altiero; beltà, e bieltà; breve, e brieve; brevemente, e
brievemente; brevità, e brievità; concordevolmente, e
concordievolmente; corriere, e corrére; tregua, e triegua ec. Ne’
MSS. del buon secolo de’ medesimi Toscani si truova progienia,
giente, giennaio, ciercare, cienato, diciea, pacie, piacica, ed altre
simili, in vece di progenia, gente, gennajo, cercare, cenato, dicea,
pace, piacea. I, posto avanti l’ A non fa mai dittongo nella Lingua
Provenzale; così solía, avía, diría, sono sempre presso noi
Catalani di tre sillabe.
I
nostri Vecchi l’ adoperarono non solo in vece del G chiaro, facendo
allora la figura di consonante, come coratie, gatie, liie (ligio,
vassallo)
che
così ancora a imitazione de’ nostri l’ usarono i Toscani, come in
ariento per argento, arientato per argentato; ma eziandio del muto, o
rotondo, come in oian, iai, espiia, enianar, preiar, e somiglianti,
in vece di ogan (uguanno) gai (gajo) espiga, enganar, pregar: il che
su accennato dal dottissimo Crescimbeni nella Annot. IX. della Vita
di Rambaldo d’ Oranges. Oggi noi Catalani con più chiara, e distinta
ortografia l’ usiamo solamente nel primo modo, cioè in cambio del G.
chiaro; e per questo uso abbiamo introdotto l’ j lungo, per
contrassegno, che allora è consonante, come coratje, gatje. E così
ancora anno fatto dopo di noi i Toscani, scrivendo Gennajo, gajo ec.
benchè sia presso loro di suono tenue (salvo, quando è posto nel
fine di dizione, come esempj, varj ec. dove vale per due ii,
pronunziandosi
però
esempi, vari ec.) cioè, come il nostro suono dell’ y greco posto tra
due
vocali; in guisa che, dello stesso modo pronunziano Gennajo, come se
da noi fosse scritto Gennayo; il quale y greco, chiamato alla Greca
ipsilon, e Toscanamente Fio, fu usato dagli Scrittori Toscani del
buon secolo in vece dell’ i, come si vede, fra gli altri MSS., nel
Villani dell’ Abate Anton Maria Salvini. Intorno all’ aggiugnere la I
alle voci comincianti da S, colla consonante appresso, vedi quel che
abbiamo notato al B. Questa lettera fu dagli antichi Toscani
adoperata alla Provenzale, in vece delle particelle Ivi, Quivi, Ci,
Vi. L. ibi, illic. Franc. Barb. 265.
Et una scritta i metti
Con
tuoi pietosi detti.
e
car. 302.
Guarda
dal Calzolaro,
Ch’
è ricco, e troppo avaro:
E
da lo Spetiale,
e
345.
Che
in otto giorni a la donna diranno,
Che
merito vorranno,
Non
sanno quel che merito è a dire;
Che
inanzi i va servire.
Guido
Guinicelli.
Poi
che n’ ha tratto fuore
Per
la sua forza il Sol ciò che gli è vile,
Cecco
Angiulieri.
Chi
d’ Amor sente, di mal far no i cale. e altrove, nella Raccolta de’
Poeti Antichi di Monsig. Leone Allacci f. 201.
Che s’ io volesse
y scender non potrei.
Il che fu osservato dall’ Ubaldini Tav.
Docum. Amor. Barber. così:
“I,
per Ivi, riguarda il luogo; alla Provenzale; Sordello:
Ben deu
esser bagordada
Cortz
de gran baron:
E
i deu hom faire gran don,
E qe i sia gens honrada.
E
dopo di lui dal sopraccitato Crescimbeni nella sua Storia della
Chiesa di S. Giovanni avanti Porta Latina, lib. I. cap. 3. dove
spiega alcune voci oscure sparse per entro una certa leggenda del
Santo, scritta da un’ Anonimo Sanese nel secolo XIV., in questa
guisa: “Ine, cioè ivi, dissero i Sanesi antichi; e stimiamo, che
sia un’ accorciamento di line, cioè lì, coll’ accrescimento della
ne menzionata di sopra alla voce ane: trovando noi i per ivi ben due
volte in Francesco da Barberino Doc.
d’ Amore pag. 265., e 345.
Et una scritta i metti: Che inanzi i va servire. E questa maniera è
Provenzale: Sordello:”
E
qe i sia gens honrada.
E
finalmente dal Gigli, nel suo Apparato Op. S. Cat. a c. 107. in
questo modo:
“Alcuno
si dava a credere, che la voce ine venisse dal latino in eo loco: Ma
in verità è una voce sorella del line per lì, quine per quì,
quane per quà, e simili, di cui è pieno Dante; e la Santa alla
lett. 225. n. 6. pose none per nò, alla 270. n. 2. ane per ha: non
essendo altro quella terminazione in e, o, ne, che un posamento, che
vuol fare la nostra Pronunzia in quella vocale, e non tagliarsi la
lingua nelle monosillabe accentuate lì, quì, nò &c. E se altri
replicasse, che l’ avverbio ivi non avea bisogno di questo posamento,
sappiasi, che di que’ più antichi tempi dicevasi i. Vedilo in
Francesco da Barberino Docum. 9. fogl. 265.”
Et una scritta i
metti
Con tuoi pietosi detti.
“Ed
i Toscani lo presero senz’ altro da’ Provenzali, come può vedersi
fra le Poesie di que’ Poeti raccolte dal Crescimbeni alle Rime di
Blancassetto fogl. 239.
Bem’
plaz lo gai temps de paschor,
Lor
cant.
Ben
di pastura il gajo tempo piacemi,
Che
fa foglie, e fior venire;
E
piacemi quand’ odo la baldoria
Degli
augei, che fann’ ivi risonare
Loro
canto.
“Ed
un’ altro esempio vi se ne legge a fogl. 144. nelle Rime di Guglielmo
degli Almaricchi, o Amerighi. Agli esempli Provenzali suddetti
aggiungo di passaggio i seguenti. Ans. Faid. Canz. C. V. 4. 24. t. 2.
Domna
l’ afanz el’ cossir m’ es tan bo,
Com plus i pens e mais i voill
pensar.
Donna, il pensier, e affanno sì mi piace,
Che più
ci penso più ci vò pensare.
E appresso:
I
tenc los oills, e l’ coratge.
Si
che tutto giorno, per usaggio,
Ci
tengo gli (a) ogli, e ‘l coraggio.
Mon.
Montau. C. V. 4. 123. I.
Nom’
plaing tan fort, ni d’ Albigès,
Com
d’ altres faz;
En
Catalongna ai totz mos bes,
De
i Carcassonesi, e Tolosani,
E
Albigesi, sì forte non mi lagno
Come
degli altri faccio:
In
Catalogna ho tutto il mio bene,
Ed
ivi sono amato.
(a)
Ogli per occhi dissero alla Provenzale gli antichi Rimatori Toscani,
e fra gli altri Cino da Pistoja, Guido Cavalcanti, e Jacopo da
Lentino, come si vederà nel terzo Volume.
L.
L.
Lettera, la quale ammette, dopo di se, ne’ mezzi delle parole, e in
diversa
sillaba tutte le consonanti, dalla N, R, in poi: come Alba, Falcone,
Falda, Volgo, Salma, Alpe, Polso, Salto, Selva, Calza. E in tutti
questi luoghi, i Toscani, nel pronunziarla le fanno, per più
dolcezza, perdere alquanto di suono. Avanti di se, nel mezzo delle
dizioni riceve il B, C, F, G, P, R, S, T: come Obbligo, Concludere,
Conflitto, Ciglio, Esemplo, Parlamento, Slungare, Atleta; il che
sempre fa nella stessa sillaba, salvo, che colla R, colla quale s’
accoppia in sillaba diversa: come Orlato; ma di rado si trova, appo
la nostra lingua, dopo la B, C, F, T, come suono, assai, per sua
durezza, fuggito. Dopo la G, poco è in uso, se però non seguita l’
I: come Giglio, il quale gli fa fare suono più schiacciato, e
sottile, come si dice nella lettera G. Di rado si truova dopo la S, e
anche in principio di parola: come Slegare; ovvero ne’ verbi
composti, colla preposizione Dis, o Mis: come Disleale, Misleale.
Accoppiata, col T avanti, non è suono di questa lingua, ma solo si
usa per le voci forestiere, non divenute ancor nostre affatto: come
Atlante, Atleta. Con tutte queste lettere avanti, perde alquanto di
suono, salvo, che colla R, e colla S, le quali gliele lasciano
mantenere intero. Pronunziasi la S, avanti alla E, nel secondo modo,
cioè con suono sottile, o rimesso, quale è nella voce Musa, come si
dice nella lettera S. Raddoppiasi, dove è necessario ne’ mezzi della
parola: come Anello, Coltello.
Pur
similmente nel nostro Linguaggio ammette dopo di se le medesime
consonanti, che in Toscano, come alba, falcon, e falcò; falda,
vulgo, salmejar (recitar i Salmi) felpa, polsar, saltar, selva,
calza, e calça.
E talora in una medesima sillaba, il che però
solamente addiviene in alcuni monosillabi, come salm, pols, salt. E
così ancora avanti di se nel mezzo della parola, e per lo più nella
stessa sillaba, riceve il B, C, F, G, P, R, S, T; come oblidar,
concloure, conflicte, singlot, exemple, parlament, desleal, ratlla.
Si raddoppia dove fa mestiere: come palla (paglia) medalla (medaglia)
ull, e oill (occhio), e sempre, che è doppio perde il suo propio
suono, e si profferisce, come il Gl schiacciato de’ Toscani, fuorchè
in alcune voci prette Latine, come illustre, illustrar; onde le
nostre sillabe lla, lle, lli, llo, llu; o pure, lha, lhe, lhi, lho,
lhu, che è tutt’ uno, come abbiamo accennato nell’ H, rendono lo
stesso suono, che le Italiane glia, glie, gli ec. la quale ortografia
usarono eziandio gli antichi Toscani, come osservò l’ Ubaldini nella
Tavola al Barberino alla voce Involle, con queste parole: “Era
nulla di meno cosa ordinaria, che la l prima, quando sono queste
lettere raddoppiate si pronunziasse per g in molte voci, il che si
conosce da’ MSS. antichi, e da’ libri anticamente stampati; e ce ne
danno indizio la lingua Franzese, e la Spagnuola, che sin oggi così
scrivono, e pronunziano.”
E l’ Autore delle Osservazioni sopra
alcune voci delle lettere del Beato Don Giovanni dalle Celle Monaco
Vallombrosano, stampate in Firenze nel 1720., a c. 75., così: “I
nostri antichi scrissero molte volte con due LL, in cambio di Gl,
così nel Volgarizzamento di Livio, che fu scritto nel 1326., in un
Dante della Medicea Laurenziana, nel Salustio Catilinario, ed in
altri Testi a penna, si trova scritto mallia, per maglia; battallia,
per battaglia; velliardo, per vegliardo, ed altre simili in gran
numero.”
I nostri non la raddoppiavano mai in principio di
parola, e scriveano lob, o lop, letra, ec. oggi facciamo tutto ‘l
contrario, e diciamo llop, lletra, ec. e così ancora nel fine di
molte parole, come anell, cortell, che gli antichi dissero, e
scrissero anel, cortel.
Ha
parentela coll’ R, usandosi in molte voci l’ una, e l’ altra
indifferentemente, come rossignol, e rossignor; coltel, e cortel;
valvasor, e varvasor; Blancaflor, e Brancaflor (Biancafiore) Porfili,
e Porfiri (Porfirio) albre, e arbre; malgarita, e margarita, siccome
si vedono scritte ne’ Codici Vaticani delle Rime Provenzali, ed in
altri:
E così pure in Toscano, benchè il Vocabolario non ne
faccia menzione, come albore, e arbore; albitrare, e arbitrare;
albitrio, e arbitrio; albuscello, e arbuscello; scilocco, e scirocco;
colcare, e corcare; e fra gli scrittori più antichi, esemplo, e
esempro; oblianza, e obrianza, ed altre, come osservò appieno il
Salviati ne’ suoi Avvertimenti, volum. I. lib. 3. cap. 3. partic. 19.
M.
M. Lettera, sorella della N, prendendosi in cambio di essa, seguitandone B, o P, per miglior pronunzia: come Empio. Consente similmente in mezzo di parola innanzi di se, e in diversa sillaba la L, R, S: come Alma, Orma, Risma, quantunque la S si trovi di rado in mezzo della parola, e farà per lo più ne’ verbi composti colla preposizione Dis: come Dismettere; ma nel principio è più frequente: come smania, smarrito. Profferiscesi la S, innanzi alla M, nel secondo modo, cioè con sottil suono, e rimesso, come nella voce Rosa, conforme a quello, che si dice nella lettera S. Raddoppiasi nel mezzo della parola, quando egli
occorre: come Femmina, Mamma, ec.
Pur similmente nel nostro Provenzale si prende in cambio della N, seguitandone B, o P, come embellir (imbellire) emborsar (imborsare) embaxada (imbasciata) empobrir (impoverire) empeguntar (impegolare). Consente parimente in mezzo della dizione, avanti di se, e in diversa sillaba, la L, R, S; come almoyna (limosina) almugaver (mugavero) formiga, formatge, esmorsar (far colezione, e la colezione stessa) Si raddoppia, dove è necessario, come semmana (settimana) emmalaltir (ammalare).
N.
N. Lettera di suono simile alla M, la quale si raddoppia, come l’ altre consonanti, dove è mestiere: come Panno, Cenno. Posta dopo la G perde una gran parte del suo suono, e quasi un’ altra lettera ne diventa, e ciò addivien sempre nel mezzo della parola, e nella sillaba stessa: come Agnello. Può forse talora avvenir ciò, in principio di parola, ma molto di rado, e forse una volta, o due solamente: come Gnaffe, Gnau. Riceve dopo di se delle consonanti il C, D, F, G, S, T, U, Z, nel mezzo della parola, ma in diversa sillaba, e mantiene lo ‘ntero suono, come Banco, Banda, Enfiato, Vangelo, Mensa, Vento, Convito, Stanza. Ammette avanti di se in mezzo della parola, e in diversa sillaba la R, S: come Arnie, Disnebbiare, quantunque la S non si trovi mai in mezzo di parola, se non ne verbi composti colla preposizione Dis, ma nel principio più spesso: come Snodare. E sempre si pronunzia la S, come avanti la N, nel suono più sottile, quale nella voce Accusa, come si dice nella lettera S. Nel nostro Idioma parimente si raddoppia, quando bisogna, come conna, cioè cotenna; ennegrir (annerire) ennoblir (nobilitare). E posta dopo la G fa lo stesso effetto, che in Toscano, come Agnel, Agnello; il che similmente addivien sempre nel mezzo del vocabolo, e nella medesima sillaba, fuorchè in Gnau, voce della Gatta, e in Gnerro, nome di fazione, che propriamente vale porcell (porcello) il qual nome, per dir ciò di passaggio, molto strepitoso fu in Catalogna negli andati secoli, per ragione delle due fazioni appellate dels Gnerros, e Cadells, cioè de’ Porcelli, e de’ Cagnuoli: onde Vincenzio Garzia, nel suo Disinganno del Mondo Stanz. 66.
Quant lo Evangeli cantavan
La espasa desembaynavan:
Y ab asso significavan,
Que tenian aparell
Tota sen va vuy en dia
En ser Gnerro, ò ser Cadell.
cioè:
Quando il Vangelo si cantava
In Chiesa, anticamente,
I Nobili incontinente,
Sfoderavano la spada:
E così significavano,
Che erano apparecchiati
A morir battagliando per esso:
Ma già quella gagliardia
In esser Porcello, o esser Cagnuolo.
E forse alludendo alle medesime fazioni, disse Fazio degli Uberti nel suo Dittamondo.
Ben vò che ponga a quel, ch’ or dico, cura;
Solo per un Cagnuol, ch’ è una beffe,
Si mosse guerra, e sdegno, ch’ ancor dura.
Ma ritornando al nostro proposito, egli è ben vero, che noi Catalani, per farle perdere il suono naturale, ci prevalemo del Fio, in cambio del G, mettendolo dopo, di modo che, in vece di scrivere, verbigrazia Espagna, Catalugna ec. scriviamo Espanya, Catalunya, eccettuatene le suddette voci Gnau, e Gnerro: onde appresso noi le sillabe nya, nye, nyi, nyo, nyu, rendono lo stesso suono, che gna, gne, gni, gno, gnu. Ne’ Codici Provenzali della Vaticana, ed in altri libri antichi ho osservato, che anche la H faceva lo stesso sopraccennato offizio del G, scrivendo nha, nhe, nhi, ec. in cambio di gna, gne, gni, come per esempio vergonha, entresenha, senher, companhia, senhor, e simili, per vergogna, entresegna, segner, compagnia, segnor. E così usa ancora il Portughese, che scrive banhar, envergonhar ec., come abbiamo toccato di sopra all’ H. La lingua Castigliana adopera per questo fine, il segno, o titolo sopra la n così, ña, ñe, ñi ec. come España, Cataluña, Señor, Nuñez.
Dopo di se riceve in Provenzale, nel mezzo della parola, e in diversa sillaba tutte le consonanti, che in Toscano, come banca, banda, inflat (gonfiato, enfiato) evangeli, mensonha, e mensogna, e mensonya; convent, convit, estanza; e anche talora in una stessa sillaba, il che però solo addiviene nelle monosillabe, come banc, vent, guant ec. Ammette in oltre la R in diversa sillaba, come nelle voci onrar, onrat, onranza; ma il P lo rifiuta sempre sì in Provenzale, che in Toscano, non ostante di ritrovarsi in un Leggendario di alcune Vite di Santi, MSS. della Libreria Chigi, Inperatore, tenpo, tenpestoso; e in un Codice intitolato Libro d’ Amore, ch’ è in podere del Dottore Niccolò Bargiacchi da Fiorenza, Chanpagna per Campagna, o Ciampagna: Onde il Gigli nel suo Apparato all’ Opere di Santa Caterina da Siena, fogl.138., dimostrava credere, che tale ortografia di scrivere tenpo, tenpestoso, e simili, fosse venuta dal Provenzale.
Avanti di se ammette la R, in mezzo della parola, sì in una medesima sillaba, che in diversa, come carn, arna (tarlo) arnès (arnese). Ammette pure avanti di se la S, ma solamente in diversa sillaba, come desnuar (snodare) e non mai in principio di parola per fuggire l’ asprezza, che ne renderebbe, come è stato detto alla lettera B: onde appresso i Poeti Provenzali non si truova scritto snel per isnel, cioè sello, e isnello; ma sempre coll’ i, componendo sillaba coll’ s, compitando così: is-nel.
Gli antichi nostri frodavano sovente questo carattere, o il suo segno, o titolo, col quale si suol supplire per esso, e scrivevano verbigrazia ses per sens, o ses (e con virgulilla, sens) (senza) us per us (u con virgulilla, uns) (uno) bes per bes (e con virgulilla, bens) (beni) come si vede ne’ Codici Provenzali, e respettivamente ancora ne’ Codici Toscani, come nella voce cocordia per concordia, osservata da’ Deputati del 73. nelle loro dottissime Annotazioni, sopra la correzione del Decamerone, a car. 94. Fosse ciò poi, o per vezzo proprio de’ copiatori, o per dimenticanza di far quel segno, o per uso, o abuso, che si abbia a dire di quei tempi, sarebbe ora un voler indovinare. Egli è però ben vero, per non lasciar cosa, che da considerar sia, che si vede questa lettera frodata, o lasciata tal volta a bello studio, per esempio cascus per cascuns nel seguente passo d’ un Documento di Arn. Marav. Cod. Vat. 3204. 35. 1.
Razos es, e mesura
Mentr’ om el segle dura,
Qe aprenda cascus
Ragion è, e misura
Mentr’ uom nel mondo vive,
Che ciascuno appari
così pesa per pensa in quest’ altro, di Piet. Card. nel citato Cod. a car. 149. terg. colonn. 1.
E que vos en par
Et en pauca despesa,
Et en petit donar,
Di ricco uomo, quando pensa
In fare gran torto,
E in piccolo donare,
E di togliere non cessa.
Ed in oltre, che molti nomi si adoperano bene, ora coll’ N, e ora senza, come lasciò avvertito Ramondo Vitale nella sua Arte della Poesia Provenzale, Testo a penna della Libreria Laurenziana, colle seguenti parole: Per aver mais d’ entendemen vos vuoil dir, qe paraulas i a don hom pot far doas rimas, com leal, talen, vilan, canson, fin, qe pot hom ben dir si vol, liau, talau, vilà, cansò, fi; aisi trobam qe o an menat li trobador; mas los primiers, so es leal, talen &c. son li plus dreg, cioè: Per aver più di cognizione, vi voglio dire, che vi sono delle parole, delle quali si possono far due rime, come leal (liale) talen (talento) vilan (villano) cansò (canzone) fin (fine) che uom può ben dire, se vuole, liau, talan, vilà, cansò, fi: così troviamo, che anno fatto i Poeti; ma i primi, cioè leal, talent (talen, sin t) &c. sono più dritti, o più acconci. Il che non fu osservato dal Crescimbeni nel raccorre, ch’ ei fece i Codici delle Rime de’ medesimi Trovatori; posciacchè altrimenti non avrebbe detto all’ Annotazione II. della Vita di Ramondo Giordano, che il Tassoni Consid. Petr. cart. 19. lo chiama Raimondo Jorda (leggi Jordà) forse perchè nel testo, ch’ ei vide, mancava la tilde, o segno della N, sopra l’ ultima sillaba, cioè Jordá. Onde il dottissimo Anton Maria Salvini ne’ suoi Discorsi Accademici part. 2. fogl. 419.: “Da tene adunque, in Provenzale ten, e senza l’ ultima n, la quale in moltissime loro voci lasciavano, te si è fatto, te, che non togli, propriamente, ma tieni significa.” E quindi è, che ancora i Toscani usano moltissimi nomi, ora colla N, e ora senza, come angonia, e agonia; conscienza, e coscienza; instanza, e istanza ec. come si vede nel Vocabolario.
All’ incontro poi i medesimi antichi la mettevano, dove non faceva mestiere, e scriveano sengnor, per segnor; congnat, per cognat; vingna, per vigna, e simiglianti il che si vide ancora presso i Toscani, e fra gli altri in Buonaccorso Pitti nella sua Cronica. La scambiavano poi in alcune voci, coll’ Erre, come morgía per mongía (monacato, monachía) morge per monge (monaco) canorgia per canongia (canonicato) mersonga per mensonga (menzogna). Anche i Toscani, come disorrare, per disonrare; orranza per onranza; orrato per onrato.
O.
O. Lettera vocale, che ha gran parentela coll’ U, usandosi in molte voci medesime, l’ una, come l’ altra, dicendosi Sorge, e Surge, Coltivare, e Cultivare, Agricoltura, e Agricultura; Fosse, e Fusse. Ha appo di noi due diversi suoni, siccome l’ E: l’ uno più aperto, come Botta, l’ altro
più chiuso, e più frequentato in questo linguaggio, siccome Botte: onde, per fuggir la mala pronunzia, sarebbon necessari due distinti caratteri, quantunque detta diversità di suono, appo i Poeti non impedisca la Rima. Petr. Canzon. 8. E l’ accorte parole, Rade nel Mondo, o sole. Dove nella penultima sillaba di Parole, l’ O si pronunzia aperto, e in quella di Sole chiuso.
La medesima affinità, che ha in Toscano coll’ U vocale, ha nel nostro Provenzale; usandosi indifferentemente coltivar, e cultivar; agricoltor, agricultor; orinar, e urinar; obrir, e ubrir; sofrir, e sufrir, ed altre simili, che si potranno osservare ne’ passi degli antichi Scrittori Provenzali dell’ età d’ oro. E così ancora appo di noi ha gli stessi due suoni, che ha in Toscano, cioè l’ uno più aperto, o largo, come botas (stivali) e l’ altro più chiuso, o stretto, verbigrazia bota, cioè botte, il quale è viepiù frequente eziandio nel nostro linguaggio, siccome diffusamente insegna il Rimario Provenzale MS. della preziosa Libreria di S. Lorenzo.
P.
P. Lettera, assai simile al B, e all’ V consonante, colla quale molte voci si pronunziano scambievolmente: come Coperta, Coverta: Soprano, Sovrano. Consente dopo di se, delle consonanti, nella medesima sillaba, la L, e R, e ne perde alquanto di suono: come Placare, Applicazione, Prato, Ginepro; quantunque colla L più di rado si truovi. Nel mezzo della parola, ma in diversa sillaba, ammette avanti di se la L, M, R, S: come Alpe, Tempo, Corpo, Aspido; benchè la S gli si ponga avanti ancora nel principio di dizione: come Spada, Spinta. La S avanti al P, si profferisce nel modo più comune, cioè col suono più intenso, quale è nella voce Casa, di che vedi nella lettera S.
Per ragione della somiglianza, che il P, nel pronunziarsi, ha col B, si trovano ne’ Codici antichi scritte molte voci indifferentemente coll’ una, e coll’ altra di queste lettere, sì in Provenzale, che in Toscano, di che vedi nel B.
Delle consonanti ammette pure nel Provenzale, dopo di se, e in una medesima sillaba la L, e R, perdendo alquanto di suono, come placar, aplicaciò, prat, prec ec.
Nel mezzo della parola, ma in diversa sillaba consente eziandio avanti di se le suddette lettere L, M, R, S, come culpar, colpejar (colpeggiare) temporal, tempestat, despit (dispetto) corporal, senza comprendervi però alcune monosillabe, come asp (aspo) colp (colpo) corp (corvo) temps (tempo).
La S non se gli pone mai avanti nel principio di dizione, dicendo noi con più dolcezza, espasa, especieria, ec. e così estar, esquivar, ec. e non star, ec. come osservò il Cardinal Bembo nelle sue Prose, e si è dimostrato nella suddetta lettera B.
Q.
Q. Lettera, appo i Toscani non serve, se non per C, quando è posta con una vocale appresso, davanti all’ U, perchè lo stesso è dir Quocere, che Cuocere: Quojo, che Cuojo; ma però non è inutile affatto, potendo servire, per qualche contrassegno, siccome la H. Onde seguitando l’ uso già introdotto, posiamo usarla in luogo del C, quando, colla vocale appresso, anteposta all’ U, il tutto si debbe profferir per dittongo, cioè in una sillaba sola: come Acqua, Questo, Quattro. All’ incontro adoperare il C, quando all’ U seguendone altra vocale, s’ ha da pronunziar per due sillabe: come Cui pronome di due sillabe, a differenza di Quì avverbio d’ una sillaba sola: Taccuino di quattro sillabe, e non Tacquino di tre: Essendo la stessa, che C, ottiene anche le stesse proprietà, salvo, che dovendosi raddoppiare, il C gli si pone avanti, in sua vece: come Acqua, Acquisto.
Sì in Provenzale, che in Toscano, ha il suono del C muto, o rotondo; onde ne’ Codici MSS. delle Rime Provenzali si osservano scambievolmente scritte parecchie voci ora col C, e ora col Q, per esempio com, e qom; car, e qar; cor, e qor. Serve però talora, eziandio nel nostro Linguaggio, per qualche contrassegno, siccome l’ H; verbigrazia nella voce quina, che vale cinquina, dove si debbe adoperare sempre il Q, e non il C, a differenza di cuina, o cuyna, cioè cucina; imperciocchè in quina, la quale si pronunzia, come se fosse scritta in Italiano china, non si sente il suono dell’ u, essendo quel qu lo stesso, che in Toscano il ch; ma sì in cuina, la quale benchè sia pure di due sillabe, come quina, la prima di esse sillabe si profferisce per l’ appunto, come il pronome cui, che appo noi è monosillabo. Veggasi quel che abbiamo rinvergato nella lettera C.
R.
R. Lettera di suono aspro, e nelle voci, dove è raddoppiata, e frequentata, denota sempremai rigidezza. Consente dopo di se tutte le consonanti nel mezzo della parola, in diversa sillaba: come Garbo, Barca, Perdono, Forfora, Organo, Orlo, Arme, Ornare, Serpe, Tarquinio, Verso, Corte, Nervo, Sferza; e in tutti questi luoghi ritiene il suo intero suono. Ammette avanti di se nel principio, e nel mezzo della parola, e nella stessa sillaba, la B, C, D, F, G, P, T, V, e fa perder loro alquanto di suono: come Braccio, Ambra, Crusca, Increspato, Drago, Androne, Fragola, Refriggerio, Grato, Agro, Prato, Rappresaglia, Trave, Intrecciato, Cavretto, Sovrano; ma l’ V è quasi sempre in mezzo della parola. Nel principio della parola riceve ancora la S, come Sradicare, e la S si pronunzia nel suono più rimesso, quale nella voce Accusa, di che alla lettera S. Raddoppiasi nel mezzo della parola frequentemente, come Carro, ec.
Nel Provenzale consente eziandio dopo di se tutte le consonanti, il che addiviene sempre in diversa sillaba, fuorchè in alcuni pochi monosillabi, come garbell (crivello) barb (barbo) barca, perdonança, forfaitura (forfattura, furfanteria) orga, orla, arma, ornar, serpejar (serpeggiare) serp, arquejar (archeggiare) arquet (archetto) vers, versejar, cort, cortejar, nervi, guerxo, ec.
E così pure avanti di se ammette le medesime consonanti, che in Toscano, trattane la S, come brasa, bras, ambra, cresta, encrespat, dragò, e dragon, fragilitat, fresc, refrigeri, gratar, grat, agre, presa, prat, trav, treva, e tregua, ovrir: Ma l’ V è di rado, e solamente si troverà in qualche vocabolo, dove stia posto in vece del B, come nel suddetto ovrir, per obrir. Ha poi parentela colla L, sì in Toscano, che in Provenzale, benchè il Vocabolario non ne faccia menzione, di che vedi alla lettera L. Si raddoppia, dov’ è necessario, come carro, carretta, correr; e così raddoppiata si profferisce con più asprezza.
S.
S. Lettera di suon vemente, come la R. Posta in composizione co’ suoi primitivi, ha forza molte volte di privativo: come Calzare, Scalzare: Montare, Smontare. Alle volte d’ accrescitivo: come Porco, Sporco: Munto, Smunto. Alle volte di frequentativo: come Battere, Sbattere. Alle volte non opera nulla, valendo lo stesso Campare, Scampare: Bandito, Sbandito: Beffare, Sbeffare. Appo di noi ha due vari suoni: il primo più gagliardo, e a noi più familiare: come Casa, Asse, Spirito.
L’ altro più sottile, o rimesso, usato più di rado: come Sposa, Rosa, Accusa, Sdentato, Svenato. In questo secondo suono non si raddoppia giammai, nè anche si pone in principio della parola, se non quando, immediatamente ne segue una consonante: come Smeraldo, Sdentato, ec. Consente dopo di se, nel principio della parola, tutte le consonanti, salvo la Z. Nel mezzo della parola, e in diversa sillaba, riceve dopo di se le medesime consonanti, ma più malagevolmente, e per lo più in composizione, colla preposizione Dis, o Mis: come Disdetta, Misleale; ma col G, P, T, s’ accoppia frequentemente, senza difficoltà: come Tasca, Cespuglio, Presto. Quando è posta avanti al C, F, P, T, si dee pronunziare nel primo modo, cioè col suon più gagliardo: come Scala, Sforzo, Vespa, Studio, Cesto; ma avanti al B, D, G, L, M, N, R, V, si pronunzia col suono più sottile, o rimesso: come Sbarrare, Sdegno, Sguardo, Slegare, Smania, Snello, Sradicare, e Sventura. Avanti di se ammette la L, N, R, in mezzo della dizione, e in diversa sillaba: come Falso, Mensa, Orso. Raddoppiasi nel mezzo della parola, come l’ altre consonanti, dove lo ricerca il bisogno.
In Provenzale ha parimente due suoni, il primo più forte, e chiaro, simile al sigma greco, usato comunemente quando è posta tra una vocale, e una consonante, come consentiment, consiensia, aspi: e così pure quando è posta in principio di parola, come saber, segnor, o senyor. L’ altro più sottile, o rimesso, come il suono del zita de i Greci, il qual suono adoperiamo allorchè è situata fra due vocali, come casa, rosa. In questo secondo suono non si raddoppia giammai, imperciocchè essendo doppia, sempre si pronunzia gagliardamente in qualunque modo sia collocata, come possessiò, ove tutte le quattro ss sono di suono chiaro, e gagliardo.
Consente dopo di se tutte le consonanti, il che sempre addiviene in diversa sillaba, trattone qualche monosillabo come vesc (veschio, vischio) fresc (fresco). Avanti di se ammette, delle consonanti, eziandio la L, N, R, come falsedat, fals, constipaciò, ensems (insieme) ors (orso) arsenit (arsenico) arsò (arcione). Il nostro Linguaggio vaghissimo della dolcezza, non ammette niuna parola, che incominci per S colla consonante appresso; onde per isfuggire l’ asprezza della nunzia, diciamo, estudi, estar, espòs, e simili, come è stato detto alla lettera B. I più antichi Scrittori del buon tempo, sì Prosatori, che Poeti, l’ aggiugnevano nel caso retto del numero del meno della maggior parte de’ nomi masculini; e così diceano, e declinavano: lo Reis, o lo Reys, del Rei, al Rei; lo noms, del nom, al nom. Ed all’ incontro la toglivano via dal primo caso del numero del più della maggior parte de’ medesimi nomi maschili, nel qual primo caso degli stessi nomi, che non consentivano la s, adoperavano l’ articolo li in vece di los (e ill ancora, particolarmente i Rimatori, e per lo più precedendo vocale) e così declinavano li Rey, dels Reys, als Reys: li nom, del noms, als noms, come insegna l’ Autore della Gramatica Provenzale nella Real Libreria di MSS. di S. Lorenzo di Firenze, là dove egli dice: Li cas son seis: Nominatius, Genitius, Datius, Acusatius, Vocatius, Ablatius.
Lo Nominatius se conois per lo, si com: Lo Reis es venguts. Genitius per de, si cum: Aquest destrier es del Rei. Datius per a, si com: Mena lo destrier al Rei. Acusatius per lo, si cum: Eu vei lo Rey armat. E non se pot conosser, ni triar (scernere, distinguere) l’ acusatius del nominatiu, sinò que per çò, que l’ nominatius singulars quan es masculís vol S en la fi; e li altri cas nol’ volen. E l’ nominatius plurals nol’ vol; e tuit li autre cas volenlo en lo plural. Però lo vocatius deu semblar lo nominatiu en totas la dizios, que fenissen in ors, e en las altras ditions quev’s (queu’s) dirè aici: Deus, Reys, francs (franco, libero) pros (prode) bos, cavaliers, cançòs ec. Però de la regla on fo dit dessùs, que l’ nominatius cas no vol S en la fi quan es pluralis numeri, voil traire fors (eccettuare) tots los feminis, que non es dit mas solamen dels masculis, e del neutris (che non si è parlato, che de’ maschili, e de i neutri) que son semblan el plural per totz locs, si tot es contra gramatica (contuttochè sia contra la regola della Lingua Latina) E lai on fo dit del nominatiu singular que vol S per tot a la fi, voilh traire fors totz aquels que fenissen en aire, si cum Emparaire, amaire: E en eire, si cum Peire ec. E en ire, si cum traire (traditore) consentire (consenziente, consentitore) ec. Mas albires (osservatore, guardatore, stimatore) vol S, e consires (pensoso, travagliato, consiroso) e desires (desideroso, desiroso) E de la regla del nominatiu singular qe vol S a la fi voilh ancara traire fors alpestre, ec. e tots los ajectius neutris quan son pausat sens sustantiu, si cum: Mal m’ es, greu m’ es, fer m’ es, esqiu m’ es, estranh m’ es qu’ el aja dit mal de mi. E voilh en traire fors encara dels pronoms alcus, si cum: Eu, tu, el qui, aquel, ilh, cel, aicel, aquest, nostre, vostre, que no volon S en la fi, e son del nominatiu singular. Lo stesso dice, ed insegna Raimondo Vidale nella sua Arte della Poesia Provenzale, MS. della suddetta Libreria; e si vede, per darne quì qualche esempio de’ nostri Poeti, dagli appresso versi, o passi: Bertr. Born. 161. 2.
Ab altres Reis, qu’ ab tal esforz vendràn (la e con virgulilla).
E il Re Filippo in Mar poggia (monta sulla nave, s’ imbarca)
Con altri Re, che vengono in soccorso. E 163. t. 2.
Puois als Barons enoja, e lur pesa
D’ aquesta patz, qu’ han feta li dui Rei,
Farai Canson tal, que, quant er apresa
A cazaun sarà tart que guerrei.
Poi a’ Baroni annoja, e lor dispiace
Questa pace, ch’ anno fatta i due Re,
Farò Canzone tal, ch’ essendo intesa
Ambi vorranno tosto guerreggiare.
Piet. Carav. C. V. 4. 27. t. 1.
E de cortesa compagna.
Dolci, e franchi, e cari, e buoni
E di cortesa compagna.
Piet. Vid. C. V. 4. 29. t. 2.
Als (a) quatre Reis d’ Espagna està molt mal
Car no volon aver paz entre lor,
Car altramen ill son de gran valor,
Adreg, e franc, e cortès, e leial.
(a) Als quatre Reys d’ Espagna: cioè al Re di Castiglia, al Re di Aragona, al Re di Portogallo, e al Re di Navarra.
A i quattro Re di Spagna stà assai male
Che non vogliono aver pace fra loro,
Che altramente egli sono valorosi
Cortesi, e leali, e franchi, e accostumati.
Ans. Faid. C. V. 4. 24. 1.
Li cortès, e ill bon, e ill valen.
Perchè tutti vi sono ubbidienti
Li cortesi li buoni, e li valenti.
E 26. 2.
Lo jorn qu’ Amors me fes doptàn venir
Vers la bella, don us cortès semblans
Dels seus bels oills m’ intrèt ius el coratge,
Si qe anc puois nom’ puesc voltar aillors,
Adoncs saubì que l’ oill m’ eron messatge
D’ Amor; e al cor me venc fret, e calors,
Jois, e consirs, ardimens, e paors.
Il dì ch’ Amor mi fe venir dottando
Verso la bella, onde un cortese sguardo
De’ suoi begl’ occhi intrò dentro ‘l mio core,
Sì, ch’ anco poi voltar non posso altrove,
Adunque seppi, che gli occhi eran messaggi
D’ Amor; e al cor, freddo, e calor mi venne;
Pensiero, e (a) gioi; paura, ed ardimento.
(a) Gioi, che vale allegrezza, giubilo, e simili, dissero Provenzalmente gli antichi Rimatori Toscani, siccome fu osservato e dal Bembo nelle sue Prose, e dal Buommattei tratt. 7. cap. 18. a car. 115. ediz. Firenze 1714., ed ivi dal Salvini alla postill. marginal., e finalmente, per tacer degli altri, dal Crescimbeni nella annot. 2. sopra la Vita d’ Ugo di S. Cesario, e in quella di Pietro di Blai; e se ne leggono molti esempli nella Raccolta de’ Poeti di Monsig. Leone Allacci, particolarmente a car. 508., e 517., e ne’ Comentar. Istor. Volgar. Poes. del suddetto Crescimbeni.
T.
T. Lettera di suono simile al D, e molte voci si dicono coll’ una, e coll’ altra: come Etate, Etade: Potere, Podere: Lito, Lido. Consente dopo di se la L, e R, col perdere alquanto di suono, ma la L malagevolmente, perchè non è suono di questa lingua, nè la riceve, se non in quelle voci, le quali non son fatte interamente nostrali: come Atleta, Atlante. Colla R fa miglior suono, e più usitato, tanto nel principio della parola, quanto nel mezzo: come Trave, Scaltro. Riceve, avanti di se, in mezzo della parola, in diversa sillaba, la L, N, R, S: come Alto, Punta, Orto, Asta. In principio di dizione riceve la S: come Storia, Studio, e si pronunzia la S nel primo suono, quale nella voce Casa, come nella lettera S abbiam detto. Raddoppiasi nel mezzo della parola, siccome l’ altre consonanti: come Atto, Petto, ec.
Lo stesso osservo nella nostra Lingua, trattone quello del raddoppiarsi, e quello ancora di ricevere la S in principio di parola; dicendo noi estudi, estar, e simili, coll’ aggiunta dell’ E per ischifare in questa guisa l’ asprezza, che ne uscirebbe nel profferire studi, star, come è stato avvertito nelle lettere B, e S. Osservo in oltre, che i nostri antichi lo scambiavano col Z in molte voci, trovandosi scritto indifferentemente meteis, e mezeis (medesimo) fortor, e forzor; mut, e muz; dret, é drez; mot, e moz, trametès, e tramezès: il qual cambiamento passò anche nella Toscana, come si vede dal Vocabolario, dove registrano gli Accademici della Crusca, antivenire, e anzivenire; ammortare, e ammorzare; fortore, e forzore; pontare, e ponzare. I medesimi antichi altresì, molto volentieri lo frodavano nelle voci finienti in nt nel singolare, e in nts nel plurale; e ciò facevano per più dolcezza di suono, scrivendo tan, pensamen, entendimens, in vece di tant, pensament, entendiments; ed in fatti nello scolpire le dette parole, ed altre simili, poco, o nulla facciamo sentire il suo suono; e così fanno ancora i Franzesi. Vedi del suo nome quelche abbiamo rinvergato
nella lettera B.
U.
U. Lettera vocale, e tal’ or lettera consonante. Quando è vocale ha gran familiarità coll’ o chiuso, dicendosi molte voci coll’ uno, e coll’ altro, scambievolmente: Sorge, Surge: Agricoltura, Agricultura. Quando gli segue appresso un’ altra vocale, quasi sempre tutte e due si pronunziano per dittongo, cioè in una sillaba sola, come ancora addiviene all’ I: Sguardo, Quercia, Guida, Fuoco. Bene è vero, che quando gli seguita appresso l’ o, son sempre una sillaba sola, ma seguendo una dell’ altre vocali, tal’ or son due: Persuaso, Ruina, Consueto. Precedendogli il G, C, o Q, fa sempre dittongo, ed è pure una sola sillaba: Guerra, Guida, Guado, Quatto, Quercia, Quitanza.
L’ V consonante è assai differente di suono dall’ U vocale, però ricerca differente carattere, essendo molto simile al nostro B, e al ß greco.
Da alcuni è detto aspirato del B; onde molte voci, or coll’ uno si dicono indifferentemente, or coll’ altro: Servare, Serbare: Nervo, Nerbo: Voce, Boce. Riceve dopo di se la R nella stessa sillaba, e in mezzo della dizione, ma con molto perdimento di suono: Dovreste, Cavretto, Sovrano. Avanti di se, nel mezzo della parola, e in diversa sillaba, consente la L, N, R, S: Malva, Convito, Serva, Disviato, benchè la S si truovi di rado nel mezzo della parola, è per lo più, e ne verbi composti, colla preposizion Dis, o Mis; ma sì ben nel principio molto frequente: Svenire, Svariare, Svinare. Deesi pronunziar la S, avanti all’ V consonante, col suono sottile, o rimesso, quale nella voce Accusa, secondo che si dice nella lettera S. Raddoppiasi come l’ altre consonanti, nel mezzo della parola: Avvivare, Ravvolto.
Tutte le suddette qualità, che intorno all’ U s’ osservano nella Lingua Toscana, si considerano eziandio nella Provenzale, fuorchè l’ ultima del raddoppiarsi, come si può vedere da quelche abbiamo notato di sopra nelle lettere B, F, O, P. Quando però è vocale, e che gli preceda il g, seguitandogli appresso o l’ e, o l’ i, allora non si pronunzia affatto, e solo serve per dimostrare, che il g è di suono muto, come guerra, guixols (cicerchie) e simiglianti, che si profferiscono da noi, come se da’ Toscani fosse scritto gherra, ghisciols, di modo, che, le nostre sillabe Gue, Gui, corrispondono al Gh rotondo de’ medesimi Toscani, di che vedi nella lettera G.
X.
X. Nella nostra lingua non ha luogo, perchè nel mezzo della parola ci serviamo, in quel cambio di due SS: come Alexander Alessandro: e alle volte d’ una S sola, come Exemplum Esemplo. Non può alla nostra lingua servire à nulla, se non se forse, per profferire que’ pochi nomi forestieri, che cominciano da cotal lettera, come Xanto, per non avere a dir Santo, o veramente, per iscrivere alcune parole latine, usate da’ nostri Autori: come Exabrupto, Exproposito.
Benchè questo carattere non abbia luogo nell’ Idioma Toscano, come nota il Vocabolario, contuttociò se ne servirono gli antichi Toscani, trovandosi ne’ MSS., exemplo, per esemplo, e simili; il che osservò il Salviati, allorchè disse ne’ suoi Avvertimenti: Lo X hanno i moderni huomini nel volgar nostro, come dalla pronunzia, così dirittamente scacciato dalla scrittura, come troppo aspro, e discordante dalla natura delle nostre parole. Quantunque poi seguiti a dire: Ed anche nelle scritture del miglior secolo rade volte si vede usato da chi la nostra lingua parlava naturalmente; ma fu più tosto usanza de’ letterati.
Nel nostro Provenzale però l’ adoperiamo per due sorte di suoni; perchè posto in voci tolte dal Lazio, e che abbiano la preposizione latina ex, come exemple, exili, ha lo stesso suono, che avea presso i Latini, cioè quello del cs, quantunque non sia in questa parte necessario, poichè si potrebbe scrivere ecsemple, ecsili, pronunziando la s nel medesimo suono di quella della voce rosa; siccome potevano eziandio i medesimi Latini scrivere così, cioè ecsemplum, ecsilium, in cambio di exemplum, exilium. Onde Quintiliano al lib. I. cap. 4.
Et nostrarum X littera ultima est, qua tamen carere potuimus, quae non quaesissemus. Nell’ altre voci poi, ha egli il suono del C chiaro, e sonante, di maniera che, le nostre sillabe Xa, Xe, Xi, Xo, Xu, si profferiscono come le Toscane Cià, Ce, Ci, Ciò, Ciù.
Egli è ben vero, che pure nelle nostre scritture del miglior tempo rade volte si vede usato, come si osserva nel leggere i Codici Provenzali della Libreria Vaticana, conciossiachè gli antichi Scrittori adoperavano per lo più in sua vece le lettere, o la sillaba is, e scrivevano eisemple, laisar (lasciare). E dico per lo più, perchè ancora laxar, e laixar ho trovato tre, o quattro volte nel Cod. Vat. 3208., particolarmente a car. 112., e 128. e così exemple talora, come si vede nel Tratt. Virt. a c. 170. Si truova ancora usato qualche volta lo x in vece dell’ s, verbigrazia ricx per rics, come apparisce nel Cod. 3206. della medesima Vaticana, a c. 57.;e braxa per brasa (brace) a car. 73., e Marxella per Marsella, come Folquet de Marxella, che si legge nel medesimo Codice 3206., e dexinflats per desinflats (cioè sgonfiati) in Guid. Cauliacc. Cirug. a c. 113. E di quì si rende in parte manifesto, che l’ ortografia di quei tempi era varia molto, e incostante, come abbiamo avvertito altrove.
Z.
Z. Lettera di suono molto gagliardo, e assai in uso, appo i Toscani: ha due suoni diversi, o forse più, secondo gli accoppiamenti dell’ altre lettere, colle quali ell’ è collocata, ma due sono i più principali, e più conosciuti: il primo più intenso, e gagliardo, da alcuni detto aspro, e più simigliante al primo, che abbiamo assegnato alla lettera S, e a noi più frequente: come Prezzo, Carezze: Zana, Zio: l’ altro più sottile, e rimesso, chiamato da altri rozzo da noi meno usato, e più simile al secondo suono della S: come Rezzo, Orzo, Zanzara, Zelo; onde per fuggir la mala pronunzia, carattere differente le si vorrebbe. Posta la Z davanti all’ I, alla qual seguiti altra vocale, vi fuchi disse non raddoppiarsi giammai, e sempre profferirsi col primo suono detto di sopra: come Letizia, Astuzia, Azione, Orazione, Invocazione. Vi ha pure
chi continuo si ferve di questo carattere raddoppiato, scrivendo Letizzia, Annunzzio. Molto in somma ne è stato detto da nostri Gramatici. A noi parendo, che in alcun luogo si profferisca più semplice, e pura di suono, altrove con maggior émpito, e forza, così appunto, come l’ altre consonanti, abbiamo usato nel primo caso usar la z scempia, nella seconda maniera porla doppia, come giusto l’ altre lettere consonanti, scrivendo Vizio, Carrozziere, ec. Dopo di se non riceve niuna delle altre consonanti, nè in principio, nè in mezzo della parola. Avanti di se, in mezzo di dizione, e in diversa sillaba, consente la L, N, R: come Balzo, Lenza, Scherzo. Raddoppiasi nel mezzo delle parole, come tutte l’ altre consonanti, benchè differenza grande di suono non si senta dal pronunziarla doppia, o scempia, essendo, come s’ è detto di suono gagliardo. Ma se per via di riprova si converta la Z in S, come lettera sua propinqua, e come l’ usano in alcuni luoghi di Toscana, si troverà, che dove la Z dee andar doppia, la S farà doppia come Palazzo, Palasso: Piassa, Piazza, e dove la Z dee ire scempia, ancora si troverà la S scempia: come Letizia, Letisia: Orazio, Orasio: Fabrizio, Fabrisio: però con questa regola la Z andrà sempre scempia, dove, convertita in S si troverà una sola S, il che addiviene, quasi sempre, che alla Z seguita l’ I, che allato abbia la vocale: Pur vi ha chi scempia pone la Z in altre poche, cioè in quelle voci, le quali hanno la penultima sillaba breve, e nell’ ultima la Z: come Poliza, Obizo, Previza: perciocchè, convertita la Z in S, si dirà Previsa, Polisa, Obiso, ec. Le quali voci, nella nostra lingua, oltre a’ nomi propri, non arrivano forse al numero di tre.
Nel Provenzale ha solamente il suono sottile, o rimesso, ed è il medesimo del secondo, che abbiamo assegnato alla S, cioè come quello della s di rosa, e della ultima s di esposa; verbigrazia zel, zelos, zelador, azul (azzurro) azanya (prodezza) che così ancora con questo suono pronunziano la Greca *gr oggidì i Gramatici Greci, in riguardo di ciò, che di essa, e della sua dolcezza sopra tutte l’ altre lettere, scrisse Quintiliano. Alla zeta di questo suono chiama il Salviati ne’ suoi Avvertimenti, Z semplice, per differenziarla dall’ altre, che da esso lui sono appellate, cioè l’ aspra, come in Zoppo; la sottile come in Letizia; e la rozza, come in Zaffiro. Ecco le sue parole, al lib. 3. cap. I. particell. 11 (o 2). Delle zete, l’ aspra, e la rozza composte lettere sono, ma non doppie, sì come pur ora abbiam detto: ma la semplice, nè doppia, nè composta, e per questo di semplice le abbiamo dato il nome. Questa da’ nostri si reputa per S, e col segno della S, poichè non ha propria figura, e distinta, la scriviamo tutti comunemente.
Il suono di essa si sente in rosa, nome di fiore, in esemplo, e nella fin di sposa, e mille altre. Chiamanla alcuni S dolce, per distinguerla dalla propria S, che si pronunzia in rosa, che deriva da rodere, in sarei, in pensoso, in cassone, e infiniti di questo genere: la qual lettera è strepitosa, ed ha assai del fischiante. Ma a noi sembra, che quella prima, molto più, che della S, della natura sia partefice della Z, e di Z più che di S il nome se le convenga: ec. Onde Benedetto Buommattei Tratt. 3. cap. 16. “Il Cavalier Salviati, huomo in questa facoltà versatissimo; assegna quattro suoni alla Z. Aspro; Rozzo; Sottile; e Semplice. Semplice chiama egli quel suono, che si sente in questo secondo carattere di Esempio; e nel quarto di Sposa. Egli ha ragione, perchè in vero ella ha più suono di Zeta, che di Esse: ma noi, che non curiamo altro che introdurre ad una certa cognizione praticabile; l’ abbiam voluta nominare Esse: poichè con S, e non con Z si segna. Sottile dice quella Z, che si sente in Letizia; Diligenzia; Dovizia, il suon della quale è tanto simile a quell’ dell’ Aspra, ch’ io non giudico bene il distinguerla in questo luogo; come benissimo tengo l’ averla egli distinta in quello. Due pertanto diciamo noi esser le Z, e per multiplicar manco termini, che si può, la dividiamo in Gagliarda, e Rimessa, racchiudendo sotto la gagliarda, e l’ Aspra, e la Sottile: e per rimessa intendo la Rozza. Gagliardo suono pertanto si sente, che anno tutte queste Z di Zazzera; di Mazze; di Pazzi; di Zezzo; di Zucchero; di Mestizia, e di Giudizio. Rimesso si sente in queste di Zafferano; Zeffiro; Razzi; Zotico; e Mezzule. Tra la gagliarda, e la rimessa è tanto sensibil differenza, ch’ io non perderei tempo a provarlo: atteso che la gagliarda si forma appuntando la lingua a’ denti; come per formare il T, e fischiando come a profferir l’ S. Onde meritamente questa Z si dice composta di T, e di S, dico della S gagliarda. La Z rimessa si forma con batter la lingua ne’ denti, come quando si vuol pronunziare il D, e poi con aggiugnervi il fischio della S rimessa.”
Ne’ MSS. Provenzali della Vaticana, ed in altri, si vede adoperata non solamente per l’ una, e l’ altra S, e per lo C infranto, come in vece dell’ Esse gagliarda, Canzò per Cansò; in luogo del C infranto, come zo per ço (ciò) Ma eziandio in cambio del C duro; e del D; e del G; e del T, trovandosi indifferentemente scritto: cantar, zantar; cambra, zambra: e tardar, tarzar; veder, vezer: e gent, zent (gente) e meteis, mezeis (medesimo) dret, drez (diritto) e somiglianti.
E quindi è, che nelle Scritture del buon secolo della Lingua Toscana si truova pure scambievolmente usato da’ Toscani, a imitazione de’ Provenzali, come in parte si è dimostrato di sopra alla lettera D; bersaglio, berzaglio: solfa, zolfa: solfo, zolfo. E ardente, arzente: gradire, grazire: verdura, verzura. E pontare, ponzare: fortore, forzore; antivenire, anzivenire: ammorzare, ammortare. E così impetrazione, impetragione: incantazione, incantagione: e zente per gente: zambra per cambra, o camera: zo per ciò, ec.
Fra i diversi caratteri, che il Cavalier Gio. Giorgio Trissino Vicentino intentò d’ aggiugnere all’ Alfabeto Italiano, per distinguere, e rappresentare la pronunzia delle parole, come apparisce da’ suoi Dubbj Gramaticali stampati in Vicenza l’ anno 1549., particolarmente dal Dubb. 2. Se avendo la pronunzia Italiana bisogno di nuove lettere, di quante, e quali ne ha di bisogno; uno si fu questo ç, chiamato da noi C trancada (cioè C infranto, come abbiam detto alla lettera C) col quale volle accennare la pronunzia, o il suono della Z rimessa. Adunque (dice egli nel citato Dub. 2.) ritrovandosi nell’ Alphabeto questi dui characteri Z ç, l’ uno de li quali si dimanda Zea, e l’ altro çeta, potremo assignare questa Charactere çeta a lo elemento più ottuso, e simile al G sì nel majuscolo, come nel corsivo; scrivendo çenit, çoilo, meço, e gli altri simili elementi. L’ altro poi, che è il Zea assegnaremo al più acuto, o kiaro elemento, cioè a quello che è simile al C Lombardo, come zuccaro, zazara, avezo, e simili. Veggasi però su questo affare dell’ aggiugnimento di nuovi caratteri, quel ch’ è stato rinvergato nella Prefazione al num. LVI.