CANTO DECIMOSECONDO

CANTO DECIMOSECONDO (comento Divina Commedia, Giovani Boccaccio)

I.

SENSO LETTERALE

[Lez. XLIV]

«Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Continuasi il presente canto al precedente
assai evidentemente, percioché, avendogli mostrato Virgilio davanti
la universal disposizione dello ‘nferno, e sollecitandolo a
continuare il cammino, e mostratogli il balzo lontano a loro
smontarsi; qui ne dimostra come, a quello luogo pervenuti, qual fosse
la qualitá del luogo, per lo quale a scendere aveano. E dividesi il
presente canto in sei parti: nella prima, come detto è, dimostra la
qualitá del luogo per lo quale aveano a scendere, e cui sopra quello
trovassero; nella seconda pone come scendessero, e alcuna cosa che di
quella scesa gli ragiona Virgilio; nella terza discrive come Virgilio
gli mostrasse un fiume di sangue, e che gente d’intorno v’andasse;
nella quarta mostra come Virgilio parlasse a’ centauri che ‘l fiume
circuivano, e fossenegli un conceduto per guida; nella quinta dice
come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene de’ tiranni
e de’ rubatori; nella sesta e ultima come, avendo il centauro passato
l’autore dall’altra parte del fiume, se ne tornasse indietro. La
seconda comincia quivi: «Cosí prendemmo via»; la terza quivi: «Ma
ficca gli occhi»; la quarta quivi: «Vedendoci calar»; la quinta
quivi: «Noi ci movemmo»; la sesta e ultima quivi: «Poi si
rivolse».

Dice adunque: «Era lo
loco», ove la lettera si vuole cosí ordinare: «Lo loco, ove
venimmo a scender la riva, era alpestro». Dice la «riva»,
intendendo per la «ripa»; e questo dico, percioché molti fanno
distinzione tra «riva» e «ripa», chiamando «riva» quella del
fiume, e «ripa» gli argini che sopra le fosse si fanno, o dintorno
alle castella, o ancora in luoghi declivi, per li quali d’alcun luogo
alto si scende al piú basso, come era in questo luogo. E dice questo
luogo essere «alpestro», cioè senza alcun ordinato sentiero o via,
sí come noi il piú veggiamo i trarupi dell’alpi e de’ luoghi
salvatichi. E, oltre a ciò, dice ch’è «tal, per quel ch’ivi
er’anco», cioè per lo Minotauro, che in quel luogo giacea come
appresso si dimostra; «Che ogni vista ne sarebbe schiva», a doverlo
riguardare. E, per piú aprirne la qualitá del luogo, nel dimostra
per un esempio, e dice che egli era tale, «Qual è quella ruina, che
nel fianco Di lá da Trento l’Adice percosse».

questa una ruina, la qual si truova andando da Trento, cittá di Lombardia,
verso Tiralli su per l’Adice, la quale alla sommitá d’un monte
discende tutta in su la riva dell’Adice. E la cagione di questa
ruina del monte pare essere stata l’una delle tre cose: o l’essere
stato il monte percosso nel lato dall’impeto del fiume, il quale,
scendendo delle montagne propinque, viene ne’ tempi delle piove con
velocissimo e impetuoso corso, e cosí, percotendo il monte, il qual
non è di molto tenace terreno, il fece ruinare come si vede; o
veramente cadde parte del detto monte per alcun tremuoto che fu
nella contrada, come assai ne caggion per lo mondo; o cadde per
mancamento di sostegno. È in assai parti la terra cavernosa, e in
queste caverne è quasi sempre acqua, la quale, evaporando e
umettando le parti superiori delle caverne, sempre le rodono e
indeboliscono; per che avvien talvolta che, premute molto dal peso
superiore, non potendolo sostener piú, cascano, e cosí casca quel
che di sopra v’era: e quinci talvolta procedono le voragini, le
quali abbiamo udito o lette essere in alcun luogo avvenute.

E avendo adunque l’autor detto: «l’Adice percosse», pone l’altre due cagioni per le quali poté avvenire, dicendo: «O per tremuoto, o per sostegno manco».

il tremuoto causato da
aere rinchiuso nel ventre della terra, il quale, essendo molto e
volendo uscir del luogo nel quale è racchiuso, con tanta forza
alcuna volta si muove dall’una parte all’altra della caverna, che
egli fa tutte le parti circunstanti tremare; ed è talvolta il
triemito di tanta potenza, che egli fa cadere gli edifici e le
cittá, alle quali egli è vicino.

Séguita poi l’autore a
farne quel che intende, cioè chiara la qualitá del luogo, e dice:
«Che da cima», cioè dalla sommitá, «del monte onde si mosse»,
quella ruina della qual parla, «Al piano, è sí la roccia
discoscesa, Ch’alcuna via darebbe», a venir giuso al piano, «a chi
su fosse», cioè sopra ‘l monte: «Cotal di quel burrato»;
«burrati» spesse volte si chiaman fra noi questi trarupi de’ luoghi
alpigini e salvatichi; e perciò dice che di quel burrato, cioè
trarupo, dove venuti erano, «era la scesa» cotale, qual del monte
trarupato che dimostrato ha; «E ‘n su la punta», cioè in su la
sommitá, «della rotta lacca», cioè ripa, «L’infamia di Creti era
distesa», cioè il Minotauro, la cui concezione fu sí fuori de’
termini naturali e abominevole, che all’isola di Creti, nella quale
esso fu, secondo le favole, generato, ne seguí perpetua infamia;
«Che fu concetta», questa infamia di Creti, «nella falsa vacca»,
cioè in una vacca di legno, come appresso dimostrerò.


adunque da sapere, come di sopra nel quinto canto di questo libro,
dove si tratta di Minos, detto,
che, volendo Minos andare sopra gli ateniesi a vendicare la morte
d’Androgeo, suo figliuolo, il quale essi e’ megarensi avevano per
invidia ucciso; domandò a Giove, suo padre, che gli piacesse
mandargli alcuno animale, il quale, sí come degna vittima, a lui
sacrificasse nella sua andata: al cui priego Giove gli mandò un
toro bianchissimo e bello, il qual toro piacque tanto a Minos che
esso non l’uccise, ma guardollo per averne allievi tra gli armenti
suoi. Di che seguí che Venere, la quale odiava tutta la schiatta
del Sole, percioché da lui era stato manifestato a Vulcano, suo
marito, e agli altri iddii l’adulterio nel quale ella stava con
Marte, fece che Pasife, moglie di Minos e figliuola del Sole,
s’innamorò di questo toro cosí bello; e, andato Minos ad Atene,
ella pregò Dedalo, il quale era ingegnosissimo uomo, che le
trovasse modo per lo quale essa potesse giacere con questo toro. Per
la qual cosa Dedalo fece una vacca di legno vota dentro, e, fatta
uccidere una vacca, la qual parea che oltre ad ogni altra
dell’armento piacesse a questo toro, e presa la pelle di quella, ne
coperse la vacca del legno, e fece Pasife entrarvi entro e stare in
guisa che, estimando il toro questa esser la vacca amata da lui, si
congiunse con Pasife; del qual congiungimento dicono si creò, e poi
nacque, una creatura la quale era mezza uomo e mezza toro. Il qual
cresciuto, e divenuto ferocissimo animale e di maravigliosa forza,
dicono che Minos il fece rinchiudere in una prigione chiamata
«laberinto», e in quella mandava a lui tutti coloro li quali
voleva far crudelmente morire; e questo Minotauro gli uccideva e
divorava. Ed essendovi, sí come in sorte toccato gli era, venuto
Teseo, figliuolo d’Egeo, re d’Atene, e quivi dimorato alcun dí, e
in quegli Adriana, figliuola di Minos e di Pasife, innamoratasi di
lui, e avendo avuta la sua dimestichezza, e per questo avendo
compassion di lui, gl’insegnò come dovesse fare quando giugnesse a
questo Minotauro, e come dietro ad uno spago se ne tornasse fuori
della prigione. La qual cosa Teseo fece; e, giunto al Minotauro, il
quale con la gola aperta gli si fece incontro, gli gittò in gola
una palla di certa composizione viscosa, la quale mentre il
Minotauro attendeva a divorare, Teseo, datogli d’un bastone sopra la
testa e uccisolo, secondo l’ammaestramento datogli da Adriana,
dietro allo spago che portato avea tornandosene, e cosí uscito del
laberinto, con Adriana e con Fedra, sua sorella, occultamente
partitosi di Creti, se ne tornò ad Atene. E cosí, predetta questa
favola, piú lievemente comprender si può il testo che segue, il
qual dice:

«E quando», quel
Minotauro, «vide noi», che venivamo, «se stesso morse, Sí come
quei», si morde, «cui l’ira dentro fiacca», cioè rompe e divide
dalla ragione, dalla quale lasciato, in se medesimo bestialmente
incrudelisce.

Ed è qui per questo
bestiale animale primieramente da comprendere qual sia la qualitá
de’ peccatori, che nel cerchio dove discendono si punisca;
la quale assai manifestamente si può comprendere essere bestiale,
poiché, per l’animal preposto al luogo, convenientemente, sí per la
generazione e sí per gli atti, la bestialitá si discrive. Appresso
è da comprendere quello nella entrata di questo cerchio settimo
opporsi all’autore, che negli altri cerchi superiori è dimostrato
continuamente opporsi, cioè alcun dimonio, il quale o con atti o con
parole si sforzi di spaventar l’autore, e di ritrarlo per paura dal
suo buon proponimento; dal qual senza dubbio piú volte sarebbe stato
rimosso, se i buoni conforti e l’aiuto della ragione non l’avesse,
nella persona di Virgilio, aiutato.

Séguita adunque quel
che Virgilio incontro alla rabbia, la quale questa fiera bestia
mordendosi, a reprimer quella dicesse, accioché spazio desse di
passare all’autore, e però dice: «Lo savio mio Virgilio gridò»,
cioè parlò forte verso il Minotauro: «- Forse Tu credi, che qui
sia ‘l duca d’Atene», cioè Teseo, «Che su nel mondo la morte ti
porse?», come nella fine della favola detta di sopra si contiene.
«Partiti, bestia», del luogo dove tu se’ per impedire il passo a
costui che mi segue, «che questi», il qual tu vedi meco, «non
viene Ammaestrato dalla tua sorella», cioè Adriana, come venne
Teseo, il qual t’uccise, «Ma vassi», come è piacer di Dio, «per
veder le vostre pene», – di te e degli altri.

E, queste parole dette,
ne mostra l’autore per una comparazione quello che il Minotauro
allora rabbiosamente facesse, e dice: «Qual è quel toro, che si
slaccia», cioè sviluppa e scioglie da’ legami postigli da coloro
che uccidere il vogliono, o che ferito l’hanno, «in quella», ora,
«C’ha ricevuto giá il colpo mortale. Che gir non sa», percioché,
avendo dalla percossa datagli intronato il cerebro e perduta la
ragione delle virtú sensitive, ed eziandio perduto l’ordine
dell’appetito, il quale a niun diterminato fine ora il sa menare, e
perciò non va, «ma qua e lá saltella», come l’impeto del dolore
il sospigne; «Vid’io il Minotauro far cotale», cioè senza saper
che si fare, o dove andare, andar saltando e furiando; «E quegli»,
cioè Virgilio, «accorto gridò», cioè avvedutamente mi disse:

«Corri al varco»,
donde vedi si può discendere, e il qual questa bestia poco avanti
occupava; «Mentre ch’è ‘n furia, è buon che tu ti cale», quasi
voglia dire: quando in furia non fosse, sarebbe piú difficile il
poter discendere; e in ciò n’ammaestra alcuno altro consiglio non
essere migliore, quando l’iracundo in tanta ira s’è acceso che
furioso è divenuto, che il partirsi e lasciarlo stare.

«Cosí prendemmo».
Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale si
dimostra come discendessero, e alcuna cosa che di quella scesa gli
ragiona Virgilio. Dice adunque: «Cosí prendemmo via», essendo il
Minotauro in furia, «su per lo scarco, Di quelle pietre», le quali
erano dalla sommitá di quello scoglio cadute, come caggiono le cose
che talvolta si scaricano, «che spesso moviensi Sotto i mie’ piedi
per lo nuovo carco», cioè per me, il quale andando le caricava e
premeva, percioché era uomo: il che far non sogliono gli spiriti; e
però dice «nuovo carco», perché non era usato per quel cammino
d’andare persona viva, la qual quelle pietre col carco della sua
persona premesse.

«Io giá pensando»:
qui mostra Virgilio d’aver conosciuto il pensier dell’autore per
avviso, non giá che altra certezza n’avesse, e però dice: «e que’
disse: – Tu pensi Forse a questa ruina, ch’è guardata Da quell’ira
bestial, ch’io ora spensi», come sia potuta avvenire, avendo
riguardo al luogo, nel quale tu non estimi dover potere esser quelle
alterazioni, le quali sono vicino alla superficie della terra. [E
oltre a ciò, percioché dice «da quella ira bestiale», potrebbe
alcun dire: se quello Minotauro era iracundo, non pare che l’autore
il dovesse in questo luogo discrivere, ma piú tosto di sopra nella
palude di Stige, dove punisce gli altri iracundi; ma questo dubbio
assai ben si mostra soluto per l’adiettivo il quale dá a questa ira,
chiamandola «ira bestiale». La quale si dee intendere essere ira in
tanto trapassata i termini dell’ira umana, che ella è trasandata
nella bestialitá, e per conseguente convertita in ostinato odio; e
perciò attamente esser posta alla scesa del cerchio settimo, nel
quale si puniscono i bestiali.] Ma Virgilio, a solvere l’autore del
suo pensiero. [il qual, tacendo, confessa esser per quella cagione
che Virgilio dice], comincia, continuandosi cosí: «Or vo’ che sappi
che, l’altra fiata Ch’io discesi quaggiú nel basso inferno», come
di sopra è stato detto nel canto nono, «Questa roccia non era ancor
cascata»; e perciò gli dimostra quando avvisa che ella dovesse cascare,
dicendo: «Ma certo poco pria, se ben discerno», immaginando, «Che
venisse colui», cioè Cristo, «che la gran preda», cioè i santi
padri, «Levò a Dite», cioè al principe de’ dimòni (il quale,
quantunque abbia altri nomi, nondimeno talvolta da’ poeti è chiamato
Dite, come appare per Virgilio nel sesto dell’Eneida,
dove dice: «inferni regia Ditis»),
«del cerchio superno», cioè del limbo, il quale è il primo
cerchio dello ‘nferno.

E perciò dice Virgilio: – Poco prima che venisse Cristo a spogliar il limbo, –
percioché, secondo che noi fermamente crediamo, Cristo morí in su
la croce all’ora nona del venerdí, nella quale ora, tra l’altre cose
che apparvero maravigliose, fu che la terra tutta universalmente
tremò, che per alcuno altro tremuoto mai avvenne; e allora, tremando
tutta, tremò infino al centro della terra; per la qual cosa non dee
parer maraviglia se alcune delle sotterranee cascarono. E questo
tempo fu poco prima che Cristo scendesse al limbo, percioché l’anima
di Cristo non vi scese come del corpo di Cristo uscí, ma andò in
paradiso, sí come assai chiaro ne posson dimostrare le sue parole
medesime dette su la croce al ladrone: «Amen,
dico tibi, hodie mecum eris in paradiso»,
ecc. ecc. È vero che poi la domenica mattina seguente in su
l’aurora, risuscitato da morte, egli andò al limbo, con insegna di
vittoria coronato, percioché, risurgendo, aveva vinta la morte, e
allora spogliò il limbo: sí che egli fu tanto spazio di tempo dal
tremuoto universale allo spogliar lo ‘nferno, quanto fu tra l’ora
nona del venerdí e la prima della domenica. E questo è quel «poco
prima» che Virgilio dice qui.

Poi séguita mostrando
quello che Virgilio intende, e che io ho giá dichiarato, cioè: «Da
tutte parti», e in questo ne dimostra l’universalitá del tremuoto,
«l’alta», cioè profonda, «valle feda», puzzolente d’inferno,
«Tremò sí», cioè oltremodo, «ch’io pensai che l’universo»,
cioè il mondo tutto, «Sentisse amor».

Qui è da ritornarsi
alla memoria l’opinione, la quale di sopra raccontai nel canto quarto
essere stata di Democrito, il qual tenne esser due princípi a tutte
le cose, cioè odio e amore, e questo sentiva in questa forma: egli
diceva essere stata una materia mista di tutte le cose, la quale egli
appellava «caos», e in questa materia diceva essere i semi di tutte
le cose; e quelle, che produtte vedevamo e avere certa e distinta
forma dall’altre, essersi a caso separate da questo caos e
perseverare nelle loro generazioni e spezie; e questo diceva essere
odio, in quanto le cose prodotte s’erano dal lor principio separate,
quasí come da cosa non ben convenientesi con lei. Poi diceva cosí:
come ogni forma prodotta s’era da questo suo principio separata, cosí
dopo molti secoli avvenire a caso tutte queste forme ritornarsi
insieme, e riformare quel medesimo caos che altra volta era stato, e
dal quale aveano avuto principio; e questo diceva essere amore, in
quanto ciascuna cosa, sí come insieme riconciliate, si ritornava e
univa col suo principio. E per questo dice Virgilio che, perché egli
sentí questo tremuoto universale, il qual mai piú non avea sentito
né avea udito da alcuno che sentito l’avesse, maravigliandosi
credette che l’universo, cioè tutte le cose, sentissero questo
amore, che detto è, e dovessersi ricongiugnere insieme, poi che ogni
corpo fosse dalla propria forma risoluto.

E quinci, volendo
mostrare questa non essere sua opinione, ma d’altrui, dice: «per lo
quale», amore, «è chi creda», cioè Democrito e i suoi seguaci,
«Piú volte il mondo in caos converso», nella maniera che di sopra
è detta. «E in quel punto», che questo tremuoto universale fu,
«questa vecchia roccia, Qui», dove noi siamo, «ed altrove», come
appresso si dirá nel ventunesimo canto del presente libro, «tal
fece riverso», qual tu puoi vedere.

[Lez.
XLV]

«Ma ficca gli occhi».
Qui, finita la seconda parte, comincia la terza del presente canto,
nella quale l’autor discrive come Virgilio gli mostrasse un fiume di
sangue, e che gente d’intorno v’andasse; e dice che, poi Virgilio gli
ebbe mostrata la cagione della ruina di quella roccia, alla quale
esso pensava, gli dice: «Ma ficca gli occhi a valle, ché
s’approccia La riviera», cioè il fiume o ‘l fosso, «del sangue, in
la qual bolle»; e questo, percioché quel sangue era boglientissimo;
«Qual che per violenza in altrui
noccia», – rubando o uccidendo; e cosí appare questa essere la
prima spezie de’ violenti, de’ quali di sopra è detto. La qual
riviera del sangue come l’autor vide, cosí contra i vizi, da’ quali
si può comprendere questa spezie di violenza esser causata, leva la
voce, ed esclamando dice:

«O cieca cupidigia»,
cioè disiderio d’avere; e cosí apparirá radice di questa colpa,
cioè del rubare, essere avarizia; il che assai di sopra, dove
dell’avarizia si trattò, fu mostrato, il disordinato appetito
d’avere, inducer gli uomini alle violenze e alle ruberie. Poi segue a
dimostrarne l’altra radice dell’altra parte della violenza, la qual
si fa nel sangue del prossimo, dicendo: «o ira folle», cioè pazza
e bestiale, la quale è cagione dell’uccisioni che fanno i rubatori;
percioché i rubatori, o da difesa fatta da colui che rubar vogliono,
o da alcuna parola loro non grata commossi, vengono all’uccisione, e
cosí fanno violenza nelle cose e nelle persone del prossimo. Segue
adunque: «Che sí ci sproni»; e questo «sproni», il quale è in
numero singulare, si riferisce primieramente a quella prima parte
della esclamazione, («O cieca cupidigia»), e poi si riferisce alla
seconda parte («o ira folle»), «nella vita corta», cioè in
questa vita mortale, la quale, per rispetto della eternitá,
quantunque lunghissima fosse, non si potrebbe dire essere un batter
di ciglia; «E nell’eterna poi», cioè in quella nella quale, cosí
peccando, senza penterci, siamo in eterno supplicio dannati, «sí
mal c’immolle», cioè ci bagni, come appare nel tormento de’ miseri,
li quali nel sangue bolliti sono. E vogliono alcuni, in questo
condolersi, l’autor mostrare d’essere stato di questa colpa
peccatore; e però, vedendo il giudicio di Dio, sentirsene per paura
compunzione e dolore.

Ma poi che egli ha
detto contro a’ due vizi, li quali son cagione della violenza che
nelle cose e nella persona del prossimo si commette, ed egli piú
appieno discrive la qualitá del luogo, nella quale i miseri son
puniti, dicendo: «Io vidi un’ampia fossa», cioè un fiume, «in
arco torta, Come quella che tutto il piano», del settimo cerchio,
«abbraccia», col girar suo, «Secondo ch’avea detto la mia scorta».
Dove questo Virgilio dicesse, cioè che questo fiume o fossa
abbracciasse tutto il piano, non ci è: vuolsi adunque intendere lui
averlo detto in alcun de’ ragionamenti di ciò da lui fatti, ma
l’autore non l’avere scritto. «E tra ‘l piè della ripa», la quale
circundava il luogo, «ad essa», fossa, «in traccia, Venien
centauri armati di saette», (supple)
e d’archi (percioché invano si porteria la saetta, se l’uomo non
avesse l’arco), «Come solean nel mondo», quando vivevano, «andare
a caccia». Che animali sieno i centauri, e come nati, e perché qui
posti, si dimostrerá dove si dirá il senso allegorico.

«Vedendoci calar».
Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale, poi che
l’autore ha dimostrata la qualitá del luogo dove si puniscono i
primi violenti, ne mostra come Virgilio parlasse a’ centauri che il
fiume circuivano, e come uno ne fosse lor conceduto per guida. Dice
adunque: «Vedendoci», i centauri; [e dice «vedendoci», percioché
l’autore faceva muovere, e per conseguente sonare, tutte le pietre di
quel trarupo, donde discendeva giú, sopra le quali poneva i piedi,
la qual cosa far non sogliono gli spiriti; mosse i centauri per
maraviglia a ristare, udendo ciò ch’usati non eran d’udire,]
«calar», cioè discendere, «ciascun», de’ centauri, «ristette, E
della schiera tre si dipartiro», venendo verso loro, «Con archi ed
asticciuole», cioè saette, «prima elette», cioè tratte del
turcasso o d’altra parte, ove per avventura le portavano. «E l’un»,
di que’ tre, «gridò da lungi: – A qual martiro Venite voi, che
scendete la costa? Ditel costinci», ove voi siete, «se non»,
(supple)
il direte, «l’arco tiro»; – quasi voglia dire: io vi saetterò.

«Lo mio maestro disse:
– La risposta Farem noi a Chirón», cioè a quel centauro il quale è
preposto di voi. E poi, in detestazion della sua troppa domanda, con
alcune parole il contrista, come di sopra aveva fatto al Minotauro,
dicendo: «Mal fu», per te, «la voglia tua sempre sí tosta», –
cioè frettolosa. «Poi mi tentò e disse: – Quegli», al quale io ho
ora risposto, «è Nesso, Che morí per la bella Deianira, E fe’ di
sé la vendetta egli stesso», – posciaché fu morto.

[Fu questo Nesso, tra’
centauri famosissimo, figliuolo d’Issione e d’una nuvola, come gli
altri, ed essendo insieme co’ fratelli in Tessaglia alle nozze di
Peritoo, con gli suoi insieme riscaldati di vivanda e vino, volle
tôrre la moglie a Peritoo; alla difesa della quale si levò Teseo,
amico di Peritoo, e un popolo il quale si chiamava lapiti, e
ucciserne assai. Dalla qual zuffa fuggendo pauroso Nesso, gli
disse un de’ suoi compagni, chiamato Astilo, il quale sapeva
vaticinare: – Nesso, non ti bisogna cosí frettolosamente fuggire,
percioché la tua morte è riservata da’ fati alle mani d’Ercule. –
Per la qual cosa egli se n’andò in Calidonia, e quivi allato ad un
fiume chiamato Eveno abitando, amò Deianira, figliuola del re Oeneo
di Calidonia. La quale, come appresso si dirá, essendo divenuta
moglie d’Ercule, ed Ercule con lei insieme tornandosi verso la
patria, trovarono per le piove fieramente cresciuto questo fiume
Eveno; e vedendolo Nesso star sospeso per Deianira, pensò che tempo
gli fosse prestato a dover potere avere il disiderio suo di Deianira;
e fattosi avanti, quasi pronto a’ servigi d’Ercule, disse: – Ercule,
dove tu creda poter notando passare il fiume, io, dove ti piaccia,
sopra la groppa mia ti passerò bene e salvamente di la Deianira. –
Alla qual profferta Ercule fu contento. Per la qual cosa, notando
Ercule, Nesso con Deianira velocemente passò il fiume, e cominciò
velocissimamente a fuggir con essa; per la qual cosa Ercule turbato,
e pervenuto all’altra riva, non correndo, ma con una delle sue saette
il seguitò e ferillo. Laonde Nesso, sentendosi ferito mortalmente,
percioché sapea le saette d’Ercule tutte essere intinte nel sangue
della idra, la quale uccisa avea, e cosí essere velenosissime, pensò
in vendetta della sua morte subitamente una strana malizia; e
spogliatasi la camiscia, la quale giá era sanguinosa tutta del
sangue avvelenato uscito della sua piaga, disse: – Deianira, io non
ho al presente che ti poter donare, in riconoscenza del grande amore
il quale io t’ho portato e porto, se non questa mia camiscia, la qual
se tu serverai senza farla lavare, ed egli avvenga che Ercule in
altra femmina ponga amore, dove tu possi fare vestirgli questo
vestimento, egli incontanente rimoverá il suo amore da ogni altra
femmina, e ritornerallo in te. – Deianira, credendo questo dovere
esser vero, prese la camiscia e guardolla; e ivi a certo tempo,
avendo Ercule quasi dimentica lei, e amando ardentissimamente una
giovane chiamata Iole, figliuola d’Eurito, re d’Etolia, occultamente
adoperò che egli questo vestimento si mise in dosso; e andato a
cacciare in sul monte Octa, e per la fatica della caccia riscaldatosi
e sudando forte, col sudore bagnò il sangue secco, e quello,
liquefatto, gli entrò per i pori, e misegli una sí fatta rabbia
addosso, che esso, composto un gran fuoco, volontariamente per morire
vi si gittò dentro e in quel morí. E cosí fece Nesso, dopo la sua
morte, la vendetta di sé egli stesso.]

[La bella Deianira fu
figliuola d’Oeneo, re di Calidonia, e fu ragguardevole vergine per
singular bellezza, tanto che molti giovani nobili la disiderarono e
domandaron per moglie; ma, dopo molte cose, essendo stata promessa ad
Acheloo fiume, e ultimamente conceduta ad Ercule domandantela, nacque
guerra tra Acheloo ed Ercule; ma, essendo Acheloo vinto da Ercule, ne
rimase Ercule in pacifica possessione. Dice Teodonzio che la guerra,
la qual fu tra Ercule e Acheloo fiume, fu in questa maniera, che,
rigando Acheloo Calidonia con due alvei, e per questo molto alcuna
volta per le piove la provincia, crescendo, guastasse, fu ad Ercule,
addomandante Deianira, posta da Oeneo, padre di lei, questa
condizione, che egli la poteva avere dove recasse Acheloo in un solo
alveo, e quello sí d’argini forti chiudesse, che egli crescendo non
potesse guastare la contrada: la qual cosa Ercule con grandissima
fatica fece, e cosí, essendo vincitore del geminato corso d’Acheloo,
ebbe Deianira, Costei è quella di cui di sopra è detto, che ad
Ercule mandò la camiscia di Nesso.]

«E quel», centauro,
«di mezzo ch’al petto si mira. È ‘l gran Chirone, il qual nudrí
Achille». [Questo Chirone non fu de’ figliuoli d’Issione, ma fu,
secondo che ad alcun piace, figliuolo di Saturno e di Fillira,
comeché Lattanzio dica che la madre di lui fosse Pelopea; e della
sua origine si recita questa favola: che Saturno, preso della
bellezza di Fillira, e avendola presa, avvenne, secondo che dice
Servio, che, giacendo egli con esso lei, sopravvenne nel luogo Opis,
sua moglie, e perciò, accioché da lei conosciuto non fosse,
subitamente si trasformò in un cavallo; per la qual cosa Fillira,
avendo di lui conceputo, partorí un figliuolo, il quale infino al
bellico era uomo, e da indi in giú era cavallo; il qual cresciuto,
se ne andò alle selve e in quelle abitò e in quelle nudrí Achille,
come di sopra si disse, dove d’Achille si fece menzione nel quinto
canto. Poi, essendo stato dal padre creato immortale, ed essendogli
stato da Ociroe, sua figliuola profetante, predetto che esso ancora
disidererebbe d’esser mortale; avvenne che, avendolo visitato Ercule,
per caso gli cadde sopra il piè una delle saette
d’Ercule, le quali, come di sopra è detto, tutte erano avvelenate
nel sangue di quella idra lernea, la quale uccisa avea; ed essendo
dalla detta saetta fedito e gravemente dal veleno tormentato,
accioché compiuto fosse il vaticino della figliuola, cominciò a
pregar gl’iddii che il facessero mortale, accioché egli potesse
morire: la qual grazia gli fu conceduta. Laonde egli si morí, e dopo
la morte sua fu dagl’iddii trasportato in cielo, e fu posto nel
cerchio del zodiaco, ed è quel segno il quale noi chiamiamo
Sagittario.]

«Quell’altro è Folo,
che fu sí pien d’ira». Di questo Folo niuna cosa abbiamo se non che
esso fu figliuolo d’Issione e d’una nuvola, come gli altri centauri.

«Dintorno al fosso»,
nel quale i violenti bollono nel sangue, «vanno a mille a mille,
Saettando quale anima», de’ miseri dannati, «si svelle Del sangue»,
cioè esce, «piú che sua colpa sortille». E per queste parole, e
ancora per piú altre seguenti, appare che, secondo che la violenza
commessa è stata piú e men grave, ha la giustizia di Dio voluto
l’anime in quel sangue bogliente essere piú e meno tuffate.

«Noi ci appressammo a
quelle fiere snelle», cioè leggieri; e chiamagli «fiere»,
percioché sono mezzi uomini e mezze bestie. «Chirón prese uno
strale», cioè una saetta, «e con la cocca», di quello, «Fece la
barba», la quale gli ricuopriva la bocca, «indietro alle mascelle»;
e ciò fece, accioché essa non impedisse le sue parole.

«Quando s’ebbe
scoperta la gran bocca, Disse ai compagni: – Siete voi accorti Che
quel di dietro», che era l’autore, «muove», co’ piedi, «ciò che
tocca?» andando. «Cosí non soglion fare i piè de’ morti», cioè
dell’anime partite da’ corpi morti.

«E ‘l mio buon duca,
che giá gli era al petto», pervenuto, «Ove le due nature», cioè
l’umana e la bestiale, «son consorti», per congiunzione, «Rispose:
– Ben è vero», che egli muove ogni cosa che tocca, percioché egli
è vivo, «e sí soletto», come tu mi vedi, «Mostrargli mi convien
la valle buia», d’inferno; «Necessitá il conduce», in quanto,
come altra volta è detto, è di necessitá in questa forma, nella
quale va l’autore, andare a chi vuole uscire della prigione del
diavolo; «e non diletto», ce lo conduce, che egli abbia di veder
queste pene e questi dannati.

«Tal si partí da
cantare alleluia»:
e questa fu Beatrice, la quale, lasciato il cielo, venne nel limbo a
sollecitar Virgilio, che al soccorso dell’autore andasse, come di
sopra nel secondo canto è stato detto.

[«Alleluia»
è dizione ebraica, e secondo alcuni è «interiectio
laetantis»;
ma Papia dice che «alleluia»
in latino vuol dire «laude di Dio»; o vero che ella abbia ad
espriemere «laudate Iddio»; e oltre a ciò, questa dizione
s’interpetra in due modi, de’ quali è l’uno: «cantate a colui il
quale è», e cosí c’invita alla laude di questo Iddio il quale è,
percioché per addietro cantavamo, essendo gentili, a quegli iddii li
quali non erano: e l’altro modo è: «Iddio, benedicci tutti in uno»;
e questo percioché tutti siamo insieme in uno per fede e umanitá, e
cosí siam degni d’essere benedetti da Dio. Altri ne fanno loro
interpretazioni, le quali sarebbon molto lunghe, volendole tutte
mostrare.]

«Che mi commise
quest’ufficio nuovo», e disusato, cioè d’accompagnare uom vivo per
lo ‘nferno. E, déttogli questo, risponde alla domanda poco avanti
fatta da Nesso, quando domandò «a qual martíro venite voi»,
mostrandogli che essi non discendono ad alcun martíro, e però dice:
«Non ladron»,
costui il qual io guido; e dice «ladrone», percioché nell’ottavo
cerchio si puniscono i ladroni; «né io anima fuia», quasi dica:
né io altresí son ladrone; percioché noi quelle femmine, le quali
son fure, noi chiamiam «fuie». E, poiché egli gli ha discoverta
la lor condizione, ed egli il priega gli dea alcun pedoto al
cammino, e che trapassi l’autore al valico del fossato, e dice: «Ma
per quella virtú, per cui io muovo Li passi miei per sí selvaggia
strada», cioè per la virtú di Dio, «Danne un de’ tuoi»,
centauri, «a cui noi siamo a provo», cioè allato; accioché da
alcuno altro non possiamo essere impediti, e «Che ne dimostri lá
dove si guada», questo fiume, «E che porti costui in su la groppa», accioché al
passar non si cuoca, «Che non è spirto che per l’aer vada», – come
fo io e gli altri.

«Chíron si volse in
su la destra poppa», udito il priego di Virgilio, «E disse a Nesso:
– Torna, e si gli guida, E fa’ cansar», cioè cessare, «s’altra
schiera v’intoppa», – cioè vi si scontra, di centauri.

[Lez.
XLVI]

«Noi ci movemmo». Qui
comincia la quinta parte di questo canto, nella quale, avendo
Virgilio certificati i centauri della lor qualitá, dice l’autore
come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene de’ tiranni
e de’ rubatori. E comincia: «Noi ci movemmo con la scorta fida»,
cioè con Nesso, «Lungo la proda del bollor vermiglio», cioè del
sangue il quale in quella fossa bolliva, «Ove i bolliti faceano alte
strida», per lo dolore il qual sentivano. «Io vidi», in quel
sangue bogliente, «gente sotto infino al ciglio», cioè infino a
tutti gli occhi, «E’ l gran centauro», cioè Nesso, «disse: – E’
son tiranni», quegli che bollono e che fanno cosí alte strida, per
ciò «Che dier nel sangue», uccidendo ingiustamente il prossimo, «e
nell’aver», del prossimo, «di piglio», rubando e occupando come
non dovevano. «Quivi si piangon gli spietati danni», da questi
cotali tiranni dati nelle persone e nell’avere del prossimo; «Quivi»,
tra questi tiranni che io ti dico che piangono, «è Alessandro».

Non dice l’autore
quale, conciosiacosaché assai tiranni stati sieno, li quali questo
nome hanno avuto; e, peroché nel maggiore si contengono tutti i mali
fatti da’ minori, credo sia da intendere che egli abbia voluto dire
d’Alessandro re di Macedonia; e perciò, di lui sentendo, chi el
fosse e delle sue opere succintamente diremo.

Fu adunque questo
Alessandro figliuolo di Filippo, re di Macedonia, e d’Olimpia, sua
moglie, comeché alcuni voglian credere che egli non fosse figliuolo
di Filippo, ma piú tosto di Nettabo, re d’Egitto, il qual, cacciato
del suo reame e ridottosi a Filippo, venne nella dimestichezza
d’Olimpia, e di lei generò Alessandro; e come che questo non fosse
subitamente saputo, in processo di tempo, essendo giá Alessandro
grande, venne in tanta sospezion di Filippo re, che egli addicò
Olimpia, e prese per moglie una sua nepote chiamata Cleopatra; né
guari tempo visse, poiché, per quello che si credesse, per opera di
Olimpia egli fu da Pausania ucciso. Dopo la morte del quale, rimaso
Alessandro, sí come suo figliuolo, re di Macedonia, essendo giovane
di grande e d’ardente animo, primieramente i greci ribellantisi si
sottomise, e, disfatta la cittá di Tebe, a dare compimento alla
guerra contro a quegli di Persia, da Filippo suo padre cominciata,
diede opera; e, fatti uccidere quasi tutti i suoi parenti, di cui
suspicava non movessero in Macedonia alcuna novitá, essendo egli
lontano, con quattromiladugento cavalieri e con trentadue migliaia di
pedoni, non solamente Asia, ma tutto il mondo ardí d’assalire. E,
pervenuto in Frigia, ed entrato in una cittá chiamata Gordia, e
quivi nel tempio di Giove domandato il giogo del carro di Gordio,
s’ingegnò di sciogliere i legami di quello, percioché udito avea
che gli oracoli antichi avevan detto che, chi quegli sciogliesse,
sarebbe signor d’Asia; e, non trovando il modo da scioglierli, messo
mano ad un coltello, li tagliò, e cosí li sciolse. Quindi, passato
il monte Tauro, in piú parti con infinita moltitudine di gente di
Dario, e con Dario medesimo piú volte combatté, e fu sempre
vincitore, e, avendo presa la moglie e’ figliuoli, e ultimamente
sentendo Dario da’ suoi medesimi essere stato ucciso, prese Persia; e
quindi, ricevuto Egitto e Cilicia, e andato in Libia al tempio di
Giove Ammone, e ingegnatosi con inganni di farsi reputare figliuolo
del detto Giove, vinte molte altre nazioni, trapassò in India. Quivi
vinto Poro re e molte nazioni, e piú cittá edificate in
testimonianza delle sue vittorie, e lasciati prefetti dove credette
opportuno, andò ad Agisine fiume, altri dicono a Gange, per lo quale
si discende nel mare Oceano orientale; e quivi soggiogate alcune
nazioni, navicò agli ambri e a’ sicambri, li quali non senza suo
gran pericolo vinti, messi nelle sue navi molti de’ suoi, li quali
estimò piú valorosi, sotto il governo di Poliperconte, il suo
esercito ne mandò in Babilonia, ed esso pervenuto alla cittá d’un
re chiamato Ambigeri, lui, ancora che molti con saette avvelenate
n’uccidesse, vinse; e di quindi venendo alla seconda del fiotto del
mare, pervenne alla foce del fiume chiamato Indo; e quindi per terra
venendone, se ne tornò a Babilonia, dove sposò Rosanne, l’una delle
figliuole del re Dario. E, mentre che
esso tornava, gli fu nel cammino nunziato come gli ambasciadori de’
cartaginesi e degli altri popoli d’Affrica, e di piú cittá di
Spagna, di Gallia, d’Italia, di Sardigna e di Cicilia, lui
attendevano in Babilonia, li quali, spaventati dalle gran cose che da
lui fatte si dicevano, disideravano la grazia e l’amistá sua. I
romani non vi mandarono; anzi ne fa Tito Livio nel libro ottavo Ab
urbe condita
quistione, se esso fosse in Italia venuto, se i romani avessero
potuto resistere alle sue forze o no; e per piú ragioni mostra che i
romani e si sarebber da lui difesi, e forse l’avrebber cacciato.
Quivi in Babilonia, da Cassandro, figliuolo d’Antipatro, si crede gli
fosse dato veleno, del quale infra pochi dí morí, e lasciò che il
corpo suo ne fosse portato in Libia nel tempio di Giove Ammone, e
quivi seppellito.

Fu costui, quantunque
vittorioso e magnifico signore, come assai appare nelle sue opere,
occupatore non solamente delle piccole fortune degli uomini, ma de’
regni e delle libertá degli uomini, violentissimo; e, oltre a ciò,
crudelissimo ucciditore non solamente de’ nemici, ma ancora degli
amici, de’ quali giá caldo di vino e di vivanda, ne’ conviti e
altrove molti fece uccidere: per le quali colpe si puote assai
convenientemente credere l’autore aver voluto s’intenda lui in questo
ardentissimo sangue esser dannato.

«E Dionisio fèro, Che
fe’ Cicilia aver dolorosi anni». Furono, secondo che Giustino
scrive, due Dionisi, l’un padre e l’altro figliuolo, e ciascun fu
pessimo uomo; né appar qui di quale l’autor si voglia dire: e però
direm di ciascuno quello che scritto se ne truova. Fu adunque,
secondo che Tullio scrive nel quinto libro De
quaestionibus Tusculanis,
il primo Dionisio nato di buoni e d’onesti parenti, e similmente
d’onesto luogo di Seragusa di Cicilia, del quale essendo la madre
gravida, vide nel sonno che ella partoriva un satirisco; per che
ricorsa al consiglio degl’interpetratori de’ sogni, le fu risposto
che ella partorirebbe uno il quale sarebbe chiarissimo e potentissimo
uomo, oltre a ciascun altro del sangue greco. E avanti che costui,
nato e giá d’etá di venticinque anni, occupasse il dominio di
Siragusa e di tutta Cicilia, parve nel sonno ad una nobile donna
siragusana, chiamata Imera, essere trasportata in cielo, e che le
fossero quivi mostrate tutte le stanze degl’iddii, le quali mentre
riguardando andava, le parve vedere appiè del solio di Giove un uomo
di pelo rosso e litiginoso, legato con fortissime catene. Per la qual
cosa ella domandò un giovane, il quale le pareva aver per
dimostratore delle cose celestiali, chi colui fosse; dal quale le
parve le fosse risposto colui essere crudelissima morte di Cicilia e
d’Italia, e, come egli fosse sciolto, sarebbe disfacimento di molte
cittá. Il qual sogno la donna il di seguente in publico disse a
molte persone. Ma poi in processo di tempo, quasí come se liberato
fosse dalle catene, e ricevuto Dionisio in signore de’ siracusani, e
tutti i cittadini a vederlo nella cittá venir corressono, come si
suole a cosí fatti avvenimenti; Imera similmente v’andò, e tantosto
che ella il vide, altamente disse: – Questi è colui, il quale io
vidi legato a’ piedi di Giove; – il che poi, da Dionisio risaputo, le
fu cagione di morte. E cosí avendo per la pestilenzia, la quale
aveva gli eserciti dei cartaginesi del tutto consumati, e da loro
liberata l’isola, Dionisio occupata, secondo che scrive Giustino, la
signoria di quella, primieramente mosse guerra a tutti i greci, li
quali in Italia abitavano, e venne lor sopra con grandissimo
esercito; e, fatti molti danni, e vinti i locresi, e guerreggiando
que’ di Crotone, avvenne che con lui si congiunsero in compagnia
quelle reliquie de’ galli, li quali avevano Roma guasta. Ma da questa
guerra il richiamò in Cicilia un grande esercito di cartaginesi
venutovi; ed essendo da molti sinistri avvenimenti debilitato assai,
da’ suoi medesimi fu ucciso, avendo giá trentotto anni regnato.

Il quale, secondo che
scrive Tullio nel preallegato libro, fu nel modo del suo vivere
temperatissimo, e nelle operazioni sue fortissimo e industrioso; e
con questo fu pessimo e malefico, senza alcuna giustizia, e
crudelissimo occupatore dell’altrui sustanze, vago del sangue degli
uomini e disprezzator degl’iddii. Ed essendo allevato con certi
giovanetti greci, l’usanza de’ quali il dovea trarre ad amarli, mai
d’alcuno non si fidò, ma solo in quegli, li quali eleggeva in servi,
ogni sua fede pose. Ed essendo divenuto signore, in ferocissimi
barbari commise ]a guardia del corpo suo. Della qual fu tanto
sollecito, che, non volendo, per téma, nelle mani d’alcun barbiere
rimettersi, fece le figliuole, ancora piccole, apparare a radere, e a
loro rader si faceva; e, poi che crebbero, sospettando, fece loro
lasciare i rasoi, e prender gusci di ghiande e di noci o di castagne,
e quegli roventare, e con essi si faceva abbruciare i peli della
barba e quegli del capo. E, avendo due mogli, delle quali l’una ebbe
nome Aristomaten siragusana, e l’altra Dorida della cittá di Locri,
ad esse non andava mai, che esso primieramente non cercasse che alcun
ferro o altro nocivo non vi fosse. E, avendo circundata la camera
nella qual dormia, d’una larghissima fossa, e sopra quella fatto un
ponticello di legno levatoio, come in quella era entrato, e serrato
l’uscio, cosí levava il ponte; e, non avendo ardire di fidarsi nelle
comuni ragunanze, quante volte in esse voleva alcuna cosa dire,
tante, salito sopra un’alta torre, diceva quel che voleva a coloro
che di sotto dimoravano. E intra gli altri suoi commendatori e
approvatori di ciò che diceva, conciosiacosaché uno, nominato
Damocle, alcuna volta, parlando della felicitá di lui, raccontasse
la copia delle sue ricchezze, la signoria e la maestá e l’abbondanza
delle cose e la magnificenza delle case reali, e negasse alcuno
esserne piú beato di lui; gli disse Dionisio una volta: – O Damocle,
percioché io m’accorgo che la vita mia ti piace e diléttati, vuogli
provare chente sia la mia fortuna? – Al quale avendo Damocle risposto
sé sommamente disiderarlo, comandò Dionisio che esso fosse posto
sopra un letto di preziosissimi ornamenti coperto, e quindi comandò
gli fosse apparecchiata una ricchissima mensa, e preposto per
servidori fanciulli bellissimi, li quali sollecitamente ad ogni suo
comandamento il servissero; e quindi gli fece apporre preziosissimi
unguenti e corone, e intendere soavissimi odori, e apportare
esquisite vivande: per le quali cose a Damocle pareva essere
fortunatissimo. Ma Dionisio, nel mezzo di cosí ricco
apparecchiamento, comandò che un coltello appuntatissimo, legato con
una setola di cavallo, fosse appiccato alla trave della casa sopra la
testa di Damocle, in maniera che la punta di quello sopra Damocle
pendesse: per la qual cosa Damocle, veduto quello, né a’ bellissimi
servidori, né al reale apparecchiamento riguardava, né stendeva la
mano alle dilicate vivande, e giá gli cominciavano a cadere di testa
le preziose ghirlande. Laonde egli caramente pregò Dionisio che
egli, con sua licenza, si potesse quindi partire, percioché piú non
volea quella beatitudine: in che assai bene mostrò Dionisio chente
fosse la sua beatitudine, e degli altri che in simile fortuna eran
con lui.

Fu, oltre a questo,
costui non solamente occupatore e violento de’ beni del prossimo, ma
ancora sprezzatore degl’iddii e sacrilego. Esso, secondo che Valerio
Massimo scrive, avendo in Locri spogliato e rubato il tempio di
Proserpina, e con la preda tornando in Cicilia, e avendo al suo
navicare prospero vento, disse ridendo agli amici suoi, li quali con
lui erano: – Vedete voi come buon navicare sia conceduto dagl’iddii
a’ sacrilegi? – E, avendo tratto alla statua di Giove Olimpio un
mantello d’oro, il quale era di grandissimo peso, e messonele uno di
lana, disse che quello dell’oro era la state troppo grave e ‘l verno
troppo freddo; ma, quello che messo l’avea, era a ciascun de’ detti
tempi piú atto; e cosí, levata la barba dell’oro alla statua
d’Esculapio, affermò non convenirsi vedere il figliuolo con barba,
ove si vedea senza barba essere il padre. Similmente trasse de’
templi piú mense d’oro e d’ariento, nelle quali, secondo il costume
greco, era scritto quelle essere de’ beni degl’iddii; dicendo, quando
le prendeva, sé usare de’ beni degl’iddii. E, oltre a ciò, molti
doni d’oro e care cose, le quali le statue degl’iddii con le braccia
sportate innanzi sosteneano, poste sopra quelle da coloro li quali li
lor boti mandavano ad esecuzione, prese piú volte, dicendo sé non
rubarle, ma prenderle; stolta cosa affermando, non prender quei beni,
per li quali sempre gli preghiamo, quando gli si porgono. E questo
del primo Dionisio basti aver detto.

E, venendo al secondo,
scrive Giustino che, essendo il predetto Dionisio stato ucciso da’
suoi, essi medesimi, che ucciso avevano il padre, sostituirono a lui
questo secondo Dionisio, il quale di tempo era maggiore che alcun
altro suo figliuolo; il quale, come la signoria ebbe presa, per
potere aver piú ampio luogo alle crudeltá giá pensate, in quanto
poté si fece favorevole il popolo con piú benefici facendogli; e
parendoli giá quello avere assai, avanti ogni altra cosa tutti i
parenti de’ fratelli suoi minori, e poi loro, fece tagliare a pezzi,
per levarsi ogni sospetto d’alcuno che al regno potesse aver l’animo
con titolo alcuno. E, levatisi questi davanti, quasi sicuro si diede
tutto all’ozio, per lo quale divenuto corpulento e grasso, e ancora
in gravissima infermitá degli occhi, intanto che né sole, né
polvere, né alcuna luce poteva sofferire, estimò per questo essere
da’ suoi avuto in dispregio; e perciò,
non come il padre aveva giá fatto, cioè di mettere in prigione
quegli di cui sospettava, ma, uccidendo e facendo uccidere or questi
e or quegli altri, tutta la cittá riempie’ d’uccisioni e di sangue.
Per la qual cosa avendo i siracusani diliberato di muovergli guerra,
lungamente stette intra due, se egli dovesse piú tosto o por giú la
signoria o resistere con guerra a’ siracusani; ma ultimamente fu
costretto dalla sua gente d’arme, sperante d’arricchire della preda e
della ruberia della cittá, di prender la guerra e di discender alla
battaglia. Nella quale essendo stato vinto, e avendo infelicemente
un’altra volta tentata la fortuna della battaglia, mandò
ambasciadori a’ siracusani, promettendo che esso diporrebbe la
signoria, se essi gli mandassero uomini con li quali esso potesse
trattare le convenzioni della pace; e, avendo i siracusani mandatigli
a questo fare de’ migliori della cittá, esso, ritenutigli in
prigione, non prendendosi di ciò guardia i siracusani, mandò
subitamente la gente sua a guastare e a rubar la cittá: per la qual
cosa i cittadini difendendosi e combattendosi per tutto, e vincendo
la moltitudine dei cittadini la gente di Dionisio, e perciò esso
temendo di non essere nella ròcca assediato, se ne fuggí con ogni
suo reale arnese in Italia. E sí come sbandito ricevuto da’ locrensí
come compagno, sí come se giustamente in quella regnasse, occupò la
ròcca della cittá; e sí come in Siragusa era usato di fare, cosí
quivi incominciò ad esercitare la crudeltá; e alla sua libidine
faceva rapire le nobili donne de’ maggiori della cittá, e facevasi
per forza menare le vergini avanti il giorno delle nozze, e quando
quanto a lui piaceva tenute l’avea, le faceva rendere a’ parenti
loro; oltre a ciò li piú ricchi della cittá scacciava e rubava, o
gli faceva uccidere, e facendo cose ancora assai piú inique. Poi che
sei anni ebbe tenuta la signoria di Locri, non avendovi piú che
rubare, occultamente e per segreto trattato se ne tornò in Siragusa;
dove essendo piú crudele che mai, e peggio adoperando, fatta da
tutti i cittadini congiurazione contro a lui, fu nella ròcca della
cittá assediato, dove costretto per patti fatti co’ siracusani,
lasciata la signoria, povero e misero n’andò in esilio a Corinto; e
quivi, per sicurtá della vita sua, datosi alle piú infime e misere
cose che poté, ne’ vilissimi luoghi e con vilissimi uomini dimorava,
male e vilmente vestito; e ultimamente si diede a insegnar giucare
alla palla a’ fanciulli; e in cosí fatta guisa vilmente adoperando e
vivendo, pervenne al fine incognito della sua vita. Per le quali
malvagitá e violenze, cosí nel sangue come nell’aver del prossimo,
o del padre o del figliuolo che intender vogliamo; e percioché non
come re ma come tiranni signoreggiarono: meritamente l’autore qui,
nel sangue bogliente, tra la prima spezie de’ violenti nel dimostra.

«E quella fronte, c’ha
il pel cosí nero, È Azzolino». Costui chiama Musatto padovano in
una sua tragedia Ecerino,
ed è quello Azzolino, il quale noi chiamiamo Azzolino «di Romano»,
e cosí similmente il cognomina il predetto Musatto; e, secondo
scrive Giovanni Villani, egli fu gentile uomo di legnaggio. Fu
adunque costui potentissimo tiranno nella Marca trivigiana, e, per
quello che si sappia, egli tenne la signoria di Padova, di Vicenza,
di Verona e di Brescia, e molti uomini e femmine uccise, o fece
andare tapinando per lo mondo, e massimamente de’ padovani, de’ quali
ad un’ora avendone nel prato di Padova rinchiusi in un palancato
undicimila, tutti gli fece ardere. E di questa arsione si dice questa
novella: che, avendo egli un suo notaio, o cancelliere che fosse,
chiamato ser Aldobrandino, il quale ogni suo segreto sapea, e avendo
preso tacitamente sospetto di lui, e volendolo far morire, il domandò
se egli sapeva chi si fossero quegli che nel palancato erano legati.
Gli rispose ser Aldobrandino che di tutti aveva ordinatamente il nome
in un suo quaderno, il quale aveva appresso di sé. – Adunque – disse
Azzolino, – avendomi il diavolo fatte molte grazie, io intendo di
fargli un bello e un grande presente di tutte l’anime di costoro che
legati sono; né so chi questo si possa far meglio di te, poiché di
tutti hai il nome e il soprannome; e però andrai con loro, e
nominatamente da mia parte gliele presenta. – E, fattolo menar lá
col suo quaderno, insieme con gli altri il fece ardere. Ultimamente,
avendo molte crudeltá operate, andando con molta gente per prendere
Melano, trovò al fiume d’Adda il marchese Palavicino con gente
essergli venuto all’incontro, e aver preso il ponte donde Azzolino
credeva poter passare: per la qual cosa egli con la sua gente
mettendosi a nuoto per lo fiume, furono dai nemici ricevuti con loro
grande svantaggio, e fu in quella zuffa gravemente fedito e preso
Azzolino, e menatone in Casciano, un castello ivi vicino, dove mai né
mangiar volle, né bere, né lasciarsi curare; e cosí si morí nel
1260, e fu onorevolmente
seppellito nel castello di Solcino. E percioché violentissimo fu,
come mostrato è, il pone l’autore qui in quel sangue bollire e esser
dannato.

[Lez.
XLVII]

«E quell’altro, ch’è
biondo, È Opizzo da Esti, il qual per vero Fu spento dal figliastro
sú nel mondo». Questo Opizzo da Esti dice alcuno che fu dei
marchesi da Esti, li quali noi chiamiamo da Ferrara, e fu fatto per
la Chiesa marchese della Marca d’Ancona, nella quale, piú la
violenza che la ragione usando, fece un gran tesoro, e con quello e
con l’aiuto di suoi amici occupò la cittá di Ferrara, e cacciò di
quella la famiglia de’ Vinciguerre con altri seguaci di parte
imperiale; e, appresso questo, per piú sicuramente signoreggiare,
similmente ne cacciò de’ suoi congiunti; ultimamente dice lui una
notte esser costui stato, da Azzo suo figliuolo, con un piumaccio
affogato. Ma l’autor mostra di voler seguire quello che giá da molti
si disse, cioè questo Azzo, il quale Opizzo reputava suo figliuolo,
non essere stato suo figliuolo; volendo questi cotali la marchesana
moglie d’Opizzo averlo conceputo d’altrui, e dato a vedere ad Opizzo
che di lui conceputo l’avesse: e perciò dice l’autore «Fu spento»,
cioè morto, «dal figliastro». E, percioché violento uom fu, quivi
tra’ tiranni e omicide e rubatori il dimostra esser dannato.

«Allor mi volsi al
poeta», per veder quello che gli paresse di ciò che il centauro
diceva, e se esso gli dovesse dar fede, «e que’ disse: – Questi ti
sia or primo», cioè dimostratore, «ed io secondo». – E vuole in
questo affermar Virgilio che al centauro sia da dar fede a quel che
dice.

«Poco piú oltre il
centauro s’affisse Sovr’una gente che ‘nfino alla gola Parea che di
quel bullicame uscisse», tenendo tutto l’altro corpo nascoso sotto
il bogliente sangue. E chiamalo «bullicame» da un lago il quale è
vicino di Viterbo, il qual dicono continuamente bollire; e da quello
bollire o bollichío esser dinominato «bullicame»: e perdoché, in
questo bollire, quel sangue è somigliante a quell’acqua, per lo nome
di quella, o pur per lo suo bollir medesimo, il nomina «bullicame».

«Mostrocci un’ombra
dall’un canto sola. Dicendo: – Colei fesse in grembo a Dio, Lo cor,
che ‘n su Tamigi ancor si cola». A dichiarazion di questa parte è
da sapere che, essendo tornati da Tunisi in Barberia il re Filippo di
Francia e il re Carlo di Cicilia e Adoardo e Arrigo, fratelli, e
figliuoli del re Riccardo d’Inghilterra, e pervenuti a Viterbo, dove
la corte di Roma era allora nel 1270, e attendendo a riposarsi e a
dare ancora opera che i cardinali riformassero di buon pastore la
Sedia apostolica, la quale allora vacava; avvenne che, essendo il
sopradetto Arrigo, il quale divoto e buon giovane era, ad udire in
una chiesa la messa, in quella ora che il prete sacrava il corpo di
Cristo, entrò nella detta chiesa il conte Guido di Monforte; e,
senza avere alcun riguardo alla reverenza debita a Dio o al re Carlo
suo signore, essendo venuto bene accompagnato d’uomini d’arme, quivi
crudelmente uccise Arrigo predetto. Ed essendo giá della chiesa
uscito per andarsene, il domandò un de’ suoi cavalieri ciò che
fatto avea; il quale rispose che egli aveva fatta la vendetta del
conte Simone, suo padre (il quale era stato ucciso in Inghilterra, e,
secondo che alcuni voglion dire, a sua gran colpa). A cui il
cavaliere disse: – Monsignore, voi non avete fatto alcuna cosa,
percioché vostro padre fu strascinato. – Per le quali parole il
conte, tornato indietro, prese per li capelli il morto corpo
d’Arrigo, e quello villanamente strascinò infin fuori della chiesa;
e, ciò fatto, montato a cavallo, senza alcuno impedimento se n’andò
in Maremma nelle terre del conte Rosso, suo suocero: per lo quale
omicidio l’autore il dimostra essere in questo cerchio dannato. E in
quanto l’autor dicesse «fesse», intende: aperse violentemente col
coltello; «in grembo a Dio», cioè nella chiesa, percioché la
chiesa è abitazion di Dio, e, chiunque è in quella, dee cosí
essere da ogni secular violenza sicuro, o ancora legge o podestá,
come se nel grembo di Dio fosse; e séguita l’autore essere stato
fesso «in grembo a Dio», da questo conte Guido, «Lo cuor, che ‘n
su Tamigi ancor si cola», cioè d’Arrigo, ucciso dal detto conte. Il
quale Aduardo, suo fratello, seppellito tutto l’altro corpo con molte
lacrime, seco se ne portò in Inghilterra, e quello, pervenuto a
Londra, fece mettere in un calice d’oro; e, fatta fare una statua di
pietra o di marmo che sia, o vero, secondo che alcuni altri dicono,
una colonna sopra ‘l ponte di Londra, il quale è sopra il fiume
chiamato Tamigi, pose nella mano della detta statua, o
vero sopra la colonna, questo calice, a perpetua memoria della
ingiuria e violenza fatta al detto Arrigo e alla real casa
d’Inghilterra. E quegli che dicono questa essere statua, aggiungono
essere nel vestimento della detta statua scritto, o vero intagliato,
un verso il quale dice cosí: «Cor
gladio scissum do cui sanguineus sum»;
cioè: «io do il cuor fesso col coltello a qualunque è colui di
cui io sono consanguineo», cioè d’un medesimo sangue: e in questo
pareva e al padre e al fratello e agli altri suoi domandar della
violente morte vendetta. E dice l’autore che questo cuore d’Arrigo,
ancora in quel luogo dove posto fu, «si cola», cioè onora; e
viene da colo,
colis;
e pertanto dice che egli s’onora, in quanto con reverenza e
compassione, avendo riguardo alla benignitá e alla virtú di colui
di cui fu, è da tutti quegli, che per quella parte passano,
riguardato.

«Poi vidi gente, che
di fuor del rio», cioè a quel fiume bogliente, «tenean la testa,
ed ancor tutto il casso», cioè tutta quella parte del corpo che è
di sopra al luogo ordinato in noi dalla natura per istanza del ventre
e delle budella, la quale da quella è divisa da una pellicula, la
quale igualmente si muove da ogni parte, cioè dalla destra e dalla
sinistra, e quivi si congiugne insieme, donde il cibo digesto
discende alle parti inferiori; e chiamasi «casso», percioché in
quella parte ha assai del vacuo, il quale la natura ha riservato al
battimento continuo del polmone, col quale egli attrae a sé l’aere,
e mandalo similmente fuori; per la quale esalazione persevera la
virtú vitale nel cuore. E puossi in queste parole, e ancora in
alcune altre che seguono, comprendere, secondo il piú e ‘l meno
avere violentemente ucciso o rubato, avere dalla divina giustizia piú
o meno pena in quel sangue bogliente. Poi séguita: «E di costoro»,
li quali eran tanto fuori del bollore, «assai riconobb’io», ma pur
non ne nomina alcuno.

«Cosí», procedendo
noi, «a piú a piú si facea basso», cioè con minor fondo, «Quel
sangue sí», in tanto «che copria pure i piedi:, a quegli che
dentro v’erano: «E quivi», dove egli era cosí basso, «fu del
fosso», cioè di quel fiume, «il nostro passo», cioè per quel
luogo passammo in un bosco, il quale nel seguente canto discrive.

E, passati che furono:
– «Sí come tu da questa parte», dalla qual venuti siamo, «vedi,
Lo bullicame, che sempre si scema», tanto che, come tu vedi, non
cuopre piú su che i piedi: «- Disse ‘l centauro, – voglio che tu
credi, Che da quest’altra», parte, lungo la quale noi non siam
venuti, «a piú a piú giú priema Lo fondo suo», e cosí si fa piú
cupo, «infin ch’e’ si raggiugne, Ove la tirannia convien che gema»,
cioè a quel luogo dove io ti mostrai essere Alessandro e Dionisio.
E, accioché egli sia informato di quegli che in quel profondo tutti
coperti del sangue sostengon pena, ne nomina alcuni dicendo: «La
divina giustizia di qua», cioè da questa parte da te non veduta,
«pugne», cioè tormenta, «Quell’Attila, che fu flagello in terra».

Attila, secondo che
scrive Paolo Diacono nelle sue Croniche,
fu re de’ goti al tempo di Marziano imperadore. Ed essendo egli, e un
suo fratello chiamato Bela, potentissimi signori, sí come quegli che
per la lor forza s’avevano molti reami sottomessi; accioché solo
possedesse cosí grande imperio, iniquamente uccise Bela. E quindi,
venutogli in animo di levar di terra il nome romano, con grandissima
moltitudine de’ suoi sudditi passò in Italia; al quale fattisi i
romani incontro, con loro molti popoli e re occidentali combatteron
con lui; nella qual battaglia furono uccise tante genti dell’una
parte e dell’altra, che quasi ciascun rimase come sconfitto; e,
secondo che scrive Paolo predetto, e’ vi furono uccisi centottanta
migliaia d’uomini. Per la qual cosa Attila, tornato nel regno,
inanimato piú che prima contro al romano imperio, restaurato nuovo
esercito, passò di qua la seconda volta, e, dopo lungo assedio,
prese Aquileia, e poi piú altre cittá e terre di Frigoli, e tutte
le disolò: e passato in Lombardia, similmente molte ne prese e
disfece: ma quasi tutte, fuori che Modona, per la quale passò col
suo esercito, e per i meriti de’ prieghi di san Gimignano, il quale
allora era vescovo di quella, non la vide infino a tanto che fuori ne
fu, né egli né alcun de’ suoi; per la qual cosa, avendo riguardo al
miracolo, la lasciò stare senza alcuna molestia farle. Similmente
passò in Toscana, e in quella molte ne consumò; e tra esse, scrive
alcuno, con tradimento prese Firenze e quella disfece. Scrive
nondimeno Paolo Diacono che, avendo Attila rubate e guaste piú cittá
in Romagna, e avendo il campo suo posto in quella parte dove il
Mencio mette in Po, e quivi
stesse intra due, se egli dovesse andare verso Roma, o se egli se ne
dovesse astenere (non giá per amore né per reverenza della cittá,
la quale egli aveva in odio, ma per paura dello esempio del re
Alarico, il quale, andatovi e presa la cittá, poco appresso morí):
avvenne che Leone papa, santissimo uomo, il quale in que’ tempi
presedeva al papato, personalmente venne a lui, e ciò che egli
addomandò, ottenne. Di che maravigliandosi i baroni d’Attila, il
domandarono perché, oltre al costume suo usato, gli avea tanta
reverenza fatta, e, oltre a ciò, concedutogli ciò che addomandato
avea; a’ quali Attila rispuose sé non avere la persona del papa
temuta, ma un altro uomo, il quale allato a lui in abito sacerdotale
avea veduto, uomo venerabile molto e da temere, il quale aveva in
mano un coltello ignudo, e minacciavalo d’ucciderlo se egli non
facesse quello che’l papa gli domandasse. Cosí adunque repressa la
rabbia e l’impeto d’Attila, senza appressarsi a Roma, se ne tornò in
Pannonia; e quivi, oltre a piú altre mogli le quali aveva, ne prese
una chiamata Ilditto, bellissima fanciulla: e celebrando nelle nozze
di questa nuova moglie un convito grandissimo, bevé tanto vino in
quello, che la notte seguente, giacendo supino, se gli ruppe il
sangue del naso, come altra volta soleva fare, e fu in tanta
quantitá, che egli l’affogò, e cosí miseramente morí. La cui
morte per sogno fu manifestata a Marziano imperadore, il quale
essendo in Costantinopoli, quella notte medesima nella quale morí
Attila, gli parve in sogno vedere l’arco d’Atti a esser rotto; per la
qual cosa comprese Attila dovere esser morto, e la mattina seguente a
piú de’ suoi amici il disse; e poi si ritrovò esser vero che
propriamente quella notte Attila era morto.

Fu costui cognominato «flagellum Dei», e veramente egli fu flagello di Dio in Italia: e ciò fu estimato,
percioché, essendo ancora le forze degl’italiani grandi, dalla prima
battaglia fatta con lui, nella quale igualmente ciascuna delle parti
fu vinta, non ardirono piú a levare il capo contro di lui: laonde
apparve, alle crudeli cose da Attila fatte in Italia, lui essere
stato un flagello mandato da Dio a gastigare e punire le iniquitá
degl’italiani, le quali in tanto ogni dovere eccedevano, che esse
erano divenute importabili.

Sono, oltre a questo,
molti che chiamano questo Attila, Totila, li quali non dicon bene,
percioché Attila fu al tempo di Marziano imperadore, il qual fu
promesso all’imperio di Roma, secondo che scrive Paolo predetto,
intorno dell’anno di Cristo 440, e Totila, il quale fu suo
successore, fu a’ tempi di Giustino imperadore, intorno agli anni di
Cristo 529: per che appare Attila stato dinanzi a Totila vicino di
novanta anni; e, oltre a ciò, avendo Totila occupata Roma, e giá
regnato nel torno di dieci anni, fu da Narsete patrizio, mandato in
Italia da Giustino, sconfitto e morto.

«E Pirro». Leggesi
nelle istorie antiche di due Pirri, de’ quali l’uno fu figliuolo
d’Achille, l’altro fu figliuolo d’Eacida, re degli epiroti. E,
peroché ciascuno fu violento uomo e omicida e rubatore, pare a
ciascuno questo tormento per le sue colpe convenirsi; ma, perché
l’autore non distingue di quale intenda, come di sopra di Dionisio
facemmo, cosí qui faremo di questi due: e primieramente narreremo
del primo Pirro.

Fu adunque, come detto
è, il primo di questi due figliuolo d’Achille e di Deidamia,
figliuola di Licomede re; ed essendo stato Achille morto a Troia per
l’inganno d’Ecuba, e per la sua follia, ché, tirato dall’amore il
qual portava a Polissena, figliuola del re Priamo, era solo e di
notte andato nel tempio d’Apolline timbreo; fu di costui cercato, e
assai garzone fu menato all’assedio di Troia. E, secondo che scrive
Virgilio, sí come ferocissimo giovane, non degenerante dal padre, fu
di quegli li quali entrarono nel cavallo del legno, il qual fu tirato
in Troia per gl’inganni di Sinone: ed essendo di quello uscito, e giá
i greci essendo in Troia entrati per forza, trapassò nelle case di
Priamo, e nel grembo di Priamo uccise Polite, suo figliuolo, e poi
uccise Priamo altresí, quantunque vecchio fosse; e, oltre a ciò,
presa Troia, domandò Polissena, per farne sacrificio alla sepoltura
del padre, e fugli conceduta: ed egli, non riguardando all’etá né
al sesso innocuo, crudelmente l’uccise. Poi, essendogli, fra l’altre
cose, venuta in parte della preda troiana, Andromaca, moglie stata
d’Ettore, ed Eleno, figliuolo di Priamo, e con questi per lo
consiglio d’Eleno tornatosene per terra in Grecia, e trovando
essergli stato, per l’assenza del padre e di lui, occupato il regno
suo; occupò una parte di Grecia, la qual si
chiamava il regno de’ molossi, li quali dal suo nome primieramente
furono chiamati «pirride», e poi in processo di tempo furono
chiamati «epirote»: e giá quivi fermato, secondo che alcuni
scrivono, esso rapi Ermione, figliuola di Menelao e d’Elena, stata
sposata ad Oreste, figliuolo d’Agamennone; e ad Eleno, figliuolo di
Priamo, diede per moglie Andromaca, secondo che Virgilio scrive.
Appresso questo, o che Ermione da lui si partisse, o che ella da
Oreste gli fosse tolta, non si sa certamente; ma, secondo che
Giustino scrive, essendo egli andato nel tempio di Giove dodoneo a
sapere quello che far dovesse d’alcuna sua bisogna, e qui trovata
Lasana, nepote d’Ercule, la rapi, e di lei, la quale per moglie
prese, ebbe otto figliuoli tra maschi e femmine. E in questi mezzi
tempi, essendo rapacissimo uomo, o bisogno o fierezza di natura che a
ciò lo strignesse, armati legni in mare, divenne corsaro; e da lui
furono, e ancor sono, i corsari dinominati «pirrate»; e per certo
tempo rubò e prese e uccise chiunque nelle sue forze pervenne.
Ultimamente per fraude di Macareo, sacerdote del tempio d’Apolline
delfico, in quello fu ucciso da Oreste, forse in vendetta della
ingiuria fattagli d’Ermione.

Il secondo Pirro, per
piú mezzi disceso del primo, e figliuolo d’Eacida, fu re degli
epiroti. Questi, essendo piccol fanciullo, rimase in Epiro, essendo
stato cacciato Eacida, suo padre, da’ suoi cittadini, per le troppo
gravezze le quali lor poneva; fu in grandissimo pericolo di morte,
percioché, come gli epiroti avevan cacciato Eacida, cosí di lui
fanciullo cercavano per ucciderlo; e avvenuto sarebbe, se non fosse
stato che da alcuni amici fu furtivamente portatone in Illirio, e
quivi dato a nutricare e a guardare a Beroe, moglie di Glauco, re
degl’illirii, la quale era del legnaggio del padre. Appo la quale, o
per la compassione avuta alla sua misera fortuna, o per le sue
puerili opere amabili e piacevoli a Glauco e agli altri, venne in
tanta lor grazia che, saputo lá dov’egli era, non dubitasse Glauco
di prender guerra con Cassandro, re di Macedonia, il quale, avendo il
suo reame occupato, minaccevolmente il richiedea; e non solamente per
servarlo sostenne la guerra, ma oltre a ciò, non avendo figliuoli,
lui si fece figliuolo adottivo. Per le quali cose mossi gli epiroti,
trasmutarono l’odio in misericordia, e lui raddomandato a Glauco
ricevettono d’etá d’undici anni, e restituironlo nel regno del
padre, e diedergli tutori, li quali infino all’etá perfetta il
governassero e guardassero. Il qual poi molte e notabili guerre fece;
e chiamato da’ tarentini venne in Italia contro a’ romani; e ancora
chiamato in Cicilia da’ siragusani, quella occupò. Ma, riuscendo
tutto altro fine alle cose, che esso estimato non avea, senza avere
acquistata alcuna cosa, se ne tornò in Epíro; e quindi occupò e
prese il regno di Macedonia, cacciatone Antigono re. Poi, avendo giá
levato l’animo a voler prendere il reame d’Asia e di Siria, avvenne
che, avendo assediata la cittá d’Argo in Acaia, fu d’in su le mura
della cittá percosso d’un sasso, il quale l’uccise.

Ora, come di sopra è
detto, di qual di questi due l’autor si voglia dire, non appare: ma
io crederei che egli volesse piú tosto dire del primo, che di questo
secondo: percioché il primo, come assai si può comprendere, per lo
suo corseggiare e per l’altre sue opere, fu e crudelissimo omicida e
rapacissimo predone; questo secondo, quantunque occupator di regni
fosse, e ogni suo studio avesse alle guerre, fu nondimeno, secondo
che Giustino e altri scrivono, giustissimo signore ne’ suoi esercizi.

«E Sesto». Questi fu
figliuolo di Pompeo magno, ma male nell’opere fu simigliante a lui;
percioché, poiché esso fu morto in Egitto, e Gneo Pompeo, suo
fratello, fu morto in Ispagna, essendo giá Giulio Cesare similmente
stato ucciso, e Ottavian Cesare insieme con Marco Antonio e con Marco
Lepido avendo preso l’oficio del triumvirato, e molti nobili uomini
proscritti; sentendo sé esser del numero di quegli, raccolte le
reliquie degli eserciti pompeiani, e ancora molti servi tolti dal
servigio loro, e armate piú navi, si diede come corsaro ad infestare
il mare e a prendere e a rubare e ad uccidere quanti poteva di quegli
che delle sue parti non erano. E, tenendo Cicilia e Sardigna,
intrachiuse quasi sí il mare, che le opportune cose non potevano a
Roma andare, di che egli la condusse a miserabil fame. Col quale
essendosi poi paceficati li tre predetti prencipi, poco perseverò
nella pace; percioché, raccettando i fuggitivi, li quali erano
rimasi degli eserciti di Bruto e di Cassio, fu giudicato nemico della
republica. Per la qual cosa avendo trecentocinquanta navi armate,
primieramente Menna, suo liberto, con sessanta navi, da lui
ribellato, passò nelle parti d’Ottaviano; appresso
Statilio Tauro combatté in naval battaglia contro a Menecrate, uno
de’ duchi di Sesto, e sconfisselo, e Ottavian Cesare ancora
combattendo contro a’ pompeiani gli sconfisse; appresso Marco Agrippa
similmente tra Melazzo e Lipari combatté contro a Pompeo e contro a
Democare e vinsegli, e nel terzo di trenta navi sommerse in mare o
prese; e Pompeo si fuggí a Messina, e Cesare incontanente trapassò
a Tauromena, e quivi nella prima giunta fieramente afflisse Pompeo e’
suoi: e in quella rotta molte navi furono affondate, e Pompeo,
perdutavi molta della sua gente, se ne rifuggí in Italia. Poi ancora
ricolte insieme le sue navi, essendo Agrippa venuto in Cicilia, e
Ottaviano veggendo l’armata di Pompeo ordinata, comandò al detto
Agrippa che contro ad essa andasse, il quale atrocissimamente
commessa co’ nemici la battaglia, vinse i pompeiani e nel torno di
centosessantatré navi prese e affondò, e Pompeo si fuggí con forse
diciotto, con gran fatica scampato delle mani de’ nemici. Che molte
parole? Colui, che poco avanti era signore di trecentocinquanta navi,
con sei o con sette si fuggí in Asia. Ultimamente, sforzandosi in
Grecia di rifare il suo esercito, e quivi essendo venuto Marco
Antonio, e avendo sentito come esso era stato vinto da Cesare, gli
mandò comandando che con pochi compagni venisse a lui; ma Pompeio
fuggendosi, fu da Tizio e da Furnio, antoniani duci, piú volte
vinto, e ultimamente preso e ucciso. Dopo il quale miserabile fine,
percioché violento raptore, corseggiando e guerreggiando, fu
dell’altrui sostanze e vago versatore del sangue degli uomini, in
questo fiume di sangue bogliente, secondo che qui mostra l’autore, fu
dalla divina giustizia dannato.

«Ed in eterno munge»,
questo fiume cosí bogliente, «Le lagrime che col bollor disserra»,
cioè manda fuori, «a Rinier da Corneto». Questi fu messer Rinieri
da Corneto, uomo crudelissimo e di pessima condizione, e ladrone
famosissimo ne’ suoi dí, gran parte della marittima di Roma tenendo
con le sue perverse operazioni e ruberie in tremore. «A Rinier
Pazzo». Questi fu messer Rinieri de’ Pazzi di Valdarno, uomo
similmente pessimo e iniquo, e notissimo predone e malandrino, per le
cui malvagie operazioni l’autore qui il discrive esser dannato. «Che
fecero alle strade tanta guerra», pigliando, rubando e uccidendo chi
andava e chi veniva.

«Poi si rivolse». Qui
comincia la sesta e ultima parte del presente canto, nella quale
l’autore, poi che ha discritto ciò che dal centauro dice essergli
stato mostrato, ed è stato da lui dall’altra parte portato, mostra
come esso, ripassato il fiume, se ne tornasse, dicendo: «Poi», che
cosí ebbe detto, «si rivolse», al passo donde passato l’avea, «e
ripassossi ‘l guazzo», cioè quel fossato del sangue.

II

SENSO ALLEGORICO

[Lez. XLVIII]

«Era lo loco, ove a
scender la riva», ecc. Avendo la ragione co’ suoi utili e sani
consigli condotto l’autore, senza lasciarlo nelle miserie temporali
intignere l’affezion sua, per infino a qui, e mostratogli i supplici
che sostiene la eretica pravitá, e similmente disegnatogli l’ordine
degl’inferiori cerchi della prigione eterna, e la qualitá de’
peccatori che in essi si puniscono; in questo canto il conduce a
vedere i tormenti della prima spezie de’ violenti, cioè di quegli
che nel sangue e nelle sustanzie del prossimo hanno bestialmente
usata forza. E, percioché in questo luogo primieramente entra nel
cerchio settimo, dove la matta bestialitá è punita, per farne
l’autore accorto, gli dimostra la ragione, in un dimonio discritto in
forma d’un Minotauro, in che consista la bestialitá. Ad evidenza
della quale primieramente presuppone l’autore essere stata vera la
favola di sopra narrata del Minotauro, accioché per questa
presupposizione piú leggermente si comprenda quello che di
dimostrare intende; [e però, questo presupposto, è da considerare
qual sia la generazione di questo Minotauro, e quali sieno i suoi
costumi; e, questi considerati, assai bene apparirá qual sia la
qualitá della bestialitá, e per conseguente de’ bestiali.]

[Dico adunque
primieramente essere da riguardare in che forma fosse questo animale
generato, accioché per questo noi possiam conoscere come negli
uomini la bestialitá si crei. Fu adunque, sí come nella
favola si racconta, generato costui d’uomo e di bestia, cioè di
Pasife e d’un toro: dobbiamo adunque qui intendere per Pasife l’anima
nostra, figliuola del Sole, cioè di Dio Padre, il quale è vero
sole. Costei è infestata da Venere, cioè dall’appetito
concupiscibile e dallo irascibile, in quanto Venere, secondo dicono
gli astrologi, è di complessione umida e calda, e però per la sua
umiditá è inchinevole alle cose carnali e lascive, e per la sua
caldezza ha ad escitare il fervore dell’ira. Questi due appetiti,
quantunque l’anima nostra infestino e molestino, mentre essa segue il
giudicio della ragione, non la posson muovere a cosa alcuna men che
onesta: ma come essa, non curando il consiglio della ragione,
s’inchina a compiacere ad alcuno di questi appetiti o ad amenduni,
ella cade nel vizio della incontinenzia e giá pare avere ricevuto il
veleno di Venere in sé, percioché transvá ne’ vizi naturali. Da’
quali non correggendosi, le piú delle volte si suole lasciare
sospignere nell’amor del toro, cioè negli appetti bestiali, li quali
son fuori de’ termini degli appetiti naturali, percioché,
naturalmente, come mostrato è di sopra, disideriamo di peccare
carnalmente, e di mangiare e d’avere, e ancora d’adirarci talvolta:
ne’ quali appetiti se noi passiamo i termini della ragione, pecchiamo
per incontinenza, e, non trapassando i termini della natura, come
detto è, naturalmente pecchiamo; ma, come detto è, di leggieri si
trapassano questi termini naturali; percioché poi qualunque s’è
l’uno de’ due appetiti ha tratto il freno di mano alla ragione, non
essendo chi ponga modo agli stimoli, si lascia l’anima trasportare
ne’ disideri bestiali, e cosí si sottomette a questo toro, del quale
nasce il Minotauro, cioè il vizio della matta bestialitá generato
nell’uomo, in quanto ha ricevuto il malvagio seme degli appetiti e
della bestia, in quanto s’è lasciato tirare all’appetito bestiale
ne’ peccati bestiali.]

[I costumi di questa
bestia, per quello che nella favola e nella lettera si comprenda, son
tre: percioché, secondo i poeti scrivono, esso fu crudelissimo, e,
oltre a ciò, fu divoratore di corpi umani, e appresso fu
maravigliosamente furioso; per li quali tre costumi sono da intendere
tre spezie di bestialitá. Ma, vogliendo seguire l’ordine, il quale
serva l’autore in punire queste colpe, n’è di necessitá di
permutare l’ordine il quale nel raccontare i tre costumi di questa
bestia è posto, e da cominciare da quel costume, il quale esser
secondo dicemmo, cioè dal divorare le carni umane. Il qual bestial
costume ottimamente si riferisce alla violenza, la quale i potenti
uomini fanno nelle sustanze e nel sangue del prossimo, le quali essi
tante volte divorano con denti leonini o d’altro feroce animale,
quante le rubano, ardono o guastano o uccidono ingiustamente: le
quali cose quantunque molti altri facciano, ferocissimamente
adoperano i tiranni. L’altro costume di questa bestia dissi ch’era
l’esser crudelissimo: il qual costume mirabilmente si conforma con
coloro che usano violenza nelle proprie cose e nelle loro persone,
percioché, come assai manifestamente si vede, quantunque crudel cosa
sia l’uccidere e il rubare altrui, quasi dir si puote esser niente
per rispetto a ciò ch’è il confonder le cose proprie e all’uccidere
se medesimo, percioché questo passa ogni crudeltá che usar si possa
nelle cose mondane; e cosí per questo costume ne disegna l’autore in
questo animale la seconda spezie de’ violenti. Il terzo costume di
questa bestia dissi che fu l’esser fieramente furioso: e questo terzo
costume s’appropria ottimamente alla colpa della terza spezie de’
violenti, li quali, in quanto possono, fanno ingiuria a Dio e alle
sue cose, o bestemmiando lui, o contro alle naturali leggi o contro
al buon costume dell’arte adoperando: e contro a Dio e contro alle
sue cose non si commette senza furia, percioché la furia ha ad
accecare ogni sano consiglio della mente e ad accenderla e renderla
strabocchevole in ogni suo detto e fatto; e cosí per questo terzo
costume ne disegna la terza spezie de’ violenti.]

E, poiché la ragione
ha mostrato all’autore la bestialitá e’ suoi effetti, ed ella
discendendo gli mostra a qual pena dannati sieno quelli che nella
prima spezie di violenza peccarono, cioè i tiranni e gli altri che
furono micidiali e rubatori e arditori e guastatori delle cose del
prossimo; e, sí come nel testo è dimostrato, questi cotali violenti
sono in un fiume di sangue boglientissimo, e, secondo il piú e ‘l
meno aver peccato, sono piú e men tuffati in questo sangue; e, oltre
a ciò, accioché niuno non esca de’ termini postigli dalla divina
giustizia, vanno d’intorno a questo fiume centauri, con archi e con
saette, i quali, incontanente che alcuno uscisse piú fuori del
sangue che non si convenisse, quel cotale senza alcuna misericordia
saettano e costringono a dover rientrare sotto il sangue. Della qual pena è in parte assai
agevole a veder la cagione, percioché e’ par convenevole che in
quello, in che l’uomo s’è dilettato, in quello perisca: questi furon
sempre, sí come per le loro operazioni appare, vaghi del sangue
umano, e, percioché essi quello ingiustamente versarono, vuole la
divina giustizia che in esso tuffati piangano; e, percioché essi
furono a questa malvagia operazion ferventissimi, vuol similmente la
giustizia che per maggior fervore, cioè per lo bollir del sangue,
sia in eterno punito il loro: e, oltre a ciò, percioché queste
violenze far non si possono senza la forza di certi ministri, sí
come sono masnadieri e soldati e i seguaci de’ potenti uomini, gli fa
la giustizia saettare a questi cotali, stati nella presente vita loro
ministri ed esecutori de’ loro scellerati comandamenti, li quali
l’autore intende per li centauri: [de’ quali, peroché nella
esposizion letterale alcuna cosa non se ne disse, è qui da vedere un
poco piú distesamente.]

[È dunque da sapere
che in Tessaglia fu giá un grande uomo chiamato Issione, figliuolo
di Flegiás, del quale di sopra si disse; e costui, secondo le
poetiche favole, fu di grazia da Giove ricevuto in cielo, e quivi fu
fatto da lui segretario di lui e di Giunone. Laonde egli insuperbito
per l’oficio, il quale era grande, ebbe ardire di richiedere Giunone
di giacer con esso lei; la quale, dolutasi di ciò a Giove, per
comandamento di lui adornò in forma e similitudine di sé una
nuvola, e quella in luogo di sé concedette ad Issione, non
altrimenti che se sé medesima gli concedesse: il quale, giacendo con
questa nuvola, generò in lei i centauri. Ed essendo poi da Giove,
sdegnato della sua presunzione, gittato del cielo e in terra
venutone, ardí di gloriarsi appo gli uomini che esso era giaciuto
con Giunone: per la qual cosa turbato Giove il fulminò e mandonnello
in inferno, e quivi con molti e crudeli serpenti il fece legare ad
una ruota, la quale sempre si volge. L’allegoria della qual favola se
attentamente riguarderemo, assai bene cognosceremo che cosa sieno gli
appetiti del tiranno, e il tiranno, o di qualunque altro rapace uomo,
ancoraché tiranno chiamato non sia, e che cosa i centauri, e come
essi il tiranno saettino.]

[Fu adunque, secondo le
istorie de’ greci, Issione oltre modo disideroso d’occupare e
possedere alcun regno, in tanto che egli si sforzò d’ottenerlo per
tirannia. Ora, come altra volta è detto, Giuno intendono alcuna
volta i poeti per lo elemento dell’aere, e alcuna volta la ‘ntendono
per la terra, volendo lei ancora essere reina e dea de’ regni e delle
ricchezze; la quale, quando per la terra s’intende e i regni li quali
sono in terra, pare che mostrino avere in sé alquanto di stabilitá;
quinci intendendosi per aere, il quale è lucido, pare che essa
aggiunga a’ reami terreni alcuno splendore, il quale nondimeno è
fuggitivo e quasi vano, e leggiermente, sí come l’aere, si converte
in tenebre. Oltre a ciò, la nuvola si crea nell’aere per operazion
del sole, de’ vapori dell’acqua e della terra umida surgenti e
condensati nell’aere; ed è la nuvola, cosí condensata, di sua
natura caliginosa al viso sensibile, e non si può prendere con mano,
né è ancora da alcuna radice fermata, e per questo leggiermente da
qualunque vento è in qua e in lá trasportata e impulsa, e alla fine
o è dal calore del sole risoluta in aere, o dal freddo dell’aere
convertita in piova. Che adunque vuol dire? Non dobbiamo per la
nuvola, quantunque infra’ termini della deitá di Giunone creata sia,
intendere regno, ma, in quanto ella è in similitudine di Giunone
apposta ad alcuno, diremo per quella doversi intendere quello che
violentemente in terra si possiede; alla qual cosa è alcuna
similitudine di regno, in quanto colui, che violentemente possiede,
signoreggia i suoi sudditi, come il vero re i suoi; e cosí pare,
mentre le forze gli bastano, che esso comandi e sia ubbidito da’ suoi
come è il re. Ma, si come tra ‘l chiaro aere e la condensata nuvola
è grandissima differenza, cosí è intra ‘l re e ‘l tiranno: l’aere risplendente
e cosí è il nome reale, la nuvola è oscura e cosí è caliginosa
la tirannia; il nome del re amabile, e quello del
tiranno è odibile. Il re sale sopra il real trono ornato degli
ornamenti reali, e il tiranno occupa la signoria intorniato
d’orribili armi; il re per la quiete e per la letizia de’ sudditi
regna, e il tiranno per lo sangue e per la miseria de’ sudditi
signoreggia; il re con ogn’ingegno e vigilanza cerca l’accrescimento
de’ suoi fedeli, e il tiranno per lo disertamento altrui procura
d’accrescere se medesimo; il re si riposa nel seno de’ suoi amici, e
il tiranno, cacciati da sé gli amici e i fratelli e’ parenti, pone
l’anima sua nelle mani de’ masnadieri e degli scellerati uomini. Per
le quali cose, sí come apparisce, diversissimi sono intra sé
questi due nomi e gli effetti di quegli; e perciò il re meritamente
si può intendere per l’aere splendido, ed essere con lui congiunta
alcuna stabilitá, se alcuna
cosa si può dire stabile fra queste cose caduche; dove il tiranno,
per rispetto della real chiaritá, si può dir nuvola, alla quale
niuna stabilitá è congiunta, e perciò ancora che agevolmente si
risolve, o dal furore de’ sudditi o dalla negligenza degli amici.]

[Premesse adunque
queste cose, leggermente quello che i poeti nella finzion della
favola d’Issione si potrá vedere. Dice la favola che Issione fu
assunto in cielo: nel qual noi allora ci possiam dire essere
ricevuti, quando noi con l’animo contempliamo le cose eccelse, sí
come sono le porpore e le corone de’ re, gli splendori egregi, la
esimia gloria, la non vinta potenza e i comodi de’ re, li quali,
secondo il giudicio degli stolti, sono infiniti; né indebitamente
paiono fatti segretari di Giove e di Giunone, quando quello, che a
loro appartiene, noi con presuntuoso animo riguardiamo; e allora
siamo tirati nel disiderio di giacere con Giunone, quando noi
estimiamo queste preeminenze reali essere altro che elle non sono; e
allora Issione richiede Giunone di giacer seco, quando, non
procedente alcuna ragione, il privato uomo ogni sua forza dispone per
essere d’alcuno regno signore. Ma che avviene a questo cotale? È
apposta allora la nuvola, avente la similitudine di Giunone: del
congiugnimento de’ quali incontanente nascono i centauri, li quali
furono uomini d’arme, di superbo animo e senza alcuna temperanza, e
inchinevoli ad ogni male, sí come noi veggiamo essere i masnadieri
e’ soldati e gli altri ministri delle scellerate cose, alle forze e
alla fede de’ quali incontanente ricorre colui il quale
tirannescamente occupa alcun paese.]

[E dicono alcuni in
singularitá di questi, li quali le favole dicono essere stati
generati da Issione, che essi furono nobili cavalieri di Tessaglia, e
i primi li quali domarono e infrenarono e cavalcarono cavalli. E
percioché cento ne ragunò Issione insieme, furono chiamati
«centauri», quasi «cento armati» o «cento Marti», percioché
«inarios»
in greco viene a dire «Marte» in latino; ovvero piú tosto «cento
aure», percioché, sí come il vento velocemente vola, cosí costoro
sopra i cavalli velocemente correvano: ma questa etimologia è piú
tosto adattata a vocaboli latini che a grechi, e, quantunque ella
paia potersi tollerare, non credo però i greci avere questo
sentimento del nome de’ centauri.]

[E, percioché essi
sono figurati mezzi uomini e mezzi cavalli, racconta di loro Servio
una cotal favola, in dimostrazione donde ciò avesse principio; e
dice che, essendo certi buoi d’un re di Tessaglia fieramente
stimolati da mosconi, e per questo essersi messi in fuga, il detto re
comandò a certi suoi uomini d’arme gli seguitassero; li quali, non
potendo appiè correre quanto i buoi, saliti a cavallo, e giuntigli,
gli volsono indietro, e abbeverando essi i lor cavalli nel fiume di
Peneo; e tenendo i cavalli le teste chinate nel fiume, furono da
quelli della contrada veduti solamente la persona dell’uomo e la
parte posteriore de’ cavalli; e da que’ cotali, li quali non erano
usi di ciò vedere, furono stimati essere uno animal solo, mezzo uomo
e mezzo cavallo; e dal rapportamento di questi trovò luogo la favola
e la figurazion di costoro.]

[Ma, tornando alla
cagione della loro origine, sono detti costoro essere nati d’Issione,
cioè del tiranno e d’una nuvola, cioè delle sustanze del regno
ombratile, come di sopra per la nuvola disegnarsi mostrammo; le quali
sustanze sono i beni de’ sudditi, de’ quali si mungono e traggono gli
stipendi, de’ quali i soldati in loro disfacimento e oppressione sono
nutriti e sostenuti. E cosí per le dette cose si può comprender del
tiranno, il quale da se medesimo è impotente, e della tirannia
occupata, nascere i soldati, cioè essere convocati dal tiranno in
difesa di sé, accioché con la forza di questi cotali soldati, essi
possan fare, come veggiamo che fanno, le violenze e le ingiurie a’
sudditi, delle quali essi soldati le piú delle volte sono ministri e
facitori:] e perciò vuole la divina giustizia che, cosí come
costoro furono strumento alle malvagie opere de’ tiranni, cosí sieno
alla lor punizione.

Potrebbesi ancor dire
che l’autor avesse voluto intendere, per gli stimoli delle saette de’
centauri ne’ violenti, s’intendessero le sollecitudini continue de’
tiranni, le quali si può credere che abbiano, sí per la non certa
fede di cosí fatta gente, e sí ancora per l’avere a trovar modo
donde venga di che pagarli; e ancora intorno al tenergli sí corti,
che essi [non possano o] non facciano, ne’ sudditi suoi, quello che
esso solo vuol fare: e questo è faticoso molto. Ma, comeché nella
presente vita si sia, nell’altra
si dee intendere le saette, da questi centauri saettate ne’ violenti,
essere l’amaritudine della continua ricordazione, la quale hanno
delle disoneste e malvagie opere, le quali giá fecero con la forza
della gente dell’arme; e cosí coloro, nella cui fede vivendo si
misero, nelle cui forze si fidarono, con le mani de’ quali versarono
il sangue del prossimo, rubarono le sustanze temporali, occuparono la
libertá, sono stimolatori, tormentatori e faticatori delle loro
anime nella perdizione eterna.